(Articolo tratto dalla rivista Nihilismi curata e redatta da Valeria Disagio, cantante del Kalashnikov Collective
; da sempre i Kalashnikov si sono mostrati attivamente vicini alle
tematiche antipsichiatriche con intenti di carattere controinformativo.
Non a caso sul loro blog è presente un link tematiche che tratta tale
tema con materiale scaricabile, recensioni, articoli, recensioni etc.
Siamo ben felici di pubblicare contributi come questo e speriamo di
riceverne ancora in futuro.
Per un approfondimento della rivista vi invitiamo a scaricarla da questo link: http://www.mediafire.com/view/48iknnxm2lvozu6/Nihilismi.n.1.pdf)
LE CASE FARMACEUTICHE SONO I CATTIVI (a cura di Pilade Fioravanti)
Indifendibili,
è arcinoto, da svariati decenni incarnano alla perfezione tutti gli
elementi negativi associati alle corporation. Come entità singole o come
cartello (la famigerata Big Pharma), nel generale come nel particolare.
Peggio
anche delle lobby di tabacco, armi e tonno in scatola, dato che il
meccanismo del profitto è leggermente più astruso e, sulla carta,
infinitamente più truce (anche se un filo più articolato dell’assioma
canonico +malati+soldi).
Dalla creazione della gnugna alle varie porcate in Africa, materiale ce n’è.
Materiale
che non troverete certo qui, è ovvio: la sede e gli spazi non sono
adatti per uno storico dettagliato delle zozzerie compiute dalle case
farmaceutiche, oltretutto non ho proprio voglia di imbarcarmi in una
ricerca così titanica e il cecchino corporativo appostato sul tetto di
fronte mi fa cenno di no quindi no, mi dispiace.
Poi si dovrebbero
scremare le cazzate, e il mare magnum delle dietrologie e dei
complottismi nel quale è inevitabile incappare in questa stronza
contingenza storica è un forte deterrente.
Al limite c’è wikipedia
(con Hrundi Bakshi che ringrazia in alto, namaste fratello), o un film
non brutto come ‘The constant gardener’ (che vale più per le
suggestioni, in realtà, ma quando è uscito molti papaveri di Big Pharma
si erano già nascosti sotto il tavolo con uno scolapasta in testa, a
titolo preventivo). No, qui si parla in modo parziale, impreciso e
tendenzioso, senza alcuna competenza specifica. That’s the way I like
it.
Superata la premessa metodologica, ecco il piatto forte – fortissimo cazzo, non sto più nella patta:
Un
aspetto interessante e relativamente poco noto (ma non aspettatevi una
verità inedita: con quello che avete pagato questo giornale ci
mancherebbe pure) è quello del disease- mongering.
Che è poi, come dice la definizione, la commercializzazione delle malattie.
In
soldoni: una casa farmaceutica ha lì un farmaco che vuole piazzare, per
una patologia più o meno inesistente. Non proprio inesistente, dato che
a monte c’è un’accurata osservazione di quelle che possono essere le
‘aree di interesse’, ovvero aspetti della salute ai quali le persone
badano di più rispetto a prima: non esistono vere e proprie malattie ma
si registra un incremento nel numero di disturbi, veri o presunti
(presunti non nel senso che non fa male davvero, ma nel senso che forse
non sono imputabili a quello), legati a quegli aspetti. C’è un margine,
insomma. Per esempio – e la natura dell’esempio è piuttosto calzante –
le varie magagne intestinali.
Siamo più nutriti, sedentari e piagnoni
che prima: il cambiamento progressivo dello stile di vita ha fatto sì
che i nostri pancini dessero più problemi. O forse no, ma siamo più
ricchi e più mezzeseghe. L’inarrestabile tendenza a focalizzarci sul
nostro ombelico ci porta spesso a riflettere su quello che c’è dietro
(dietrologia+gastroenterologia =
robba forte), e dunque ci facciamo
più caso rispetto a prima, quando toccava scendere in miniera all’alba
per sfamare i nostri dodici figli e le nostri mogli quindicenni e di
tempo per queste fregnacce proprio non ce n’era (e, per inciso, la gente
non andava dal medico per un cagotto o per la mancata evacuazione, I
suppose, ma forse sono un romantico passatista).
Allora la casa
farmaceutica ti mette lì un nuovo prodotto, innovativo as fuck, e che
cosa faccia questo mirabolante prodotto non è neanche così importante
(mi avete preso per un foglietto illustrativo?): la questione è, a
questo punto, inventarsi la patologia di riferimento. Ma non si può dire
che la si sta inventando, la parola chiave è SENSIBILIZZARE (questa
malattia c’è da una vita e miete più vittime dello scolo, come avete
fatto a non accorgervene prima, babbi?).
Il procedimento è ben
rodato. Si prendono un bel po’ di medici e li si invita ad un
fondamentale convegno su un disturbo relativamente nuovo, la cui
diffusione è in preoccupante crescita: la SINDROME DELL’INTESTINO
IRRITABILE (in inglese IBS, che nei paesi sassoni se non hai un acronimo
ma dove cazzo vai).
Ovviamente, quelli sono gente studiata,
quindi il convegno deve presentare qualche autentico elemento di
interesse, qualche effettiva evidenza scientifica. E quali posti
migliori per osservare le evidenze scientifiche, per esempio, delle
isole tropicali (lo sapeva anche Darwin) o gli atolli corallini?
Location comunque di pregio, dove il gotha della medicina mondiale non
abbia nulla che lo distolga da un’accurata disamina di questa nuova,
insidiosa sindrome - a parte il windsurf, lo snorkeling, i buffet e i
cocktail con l’ombrellino.
Non è che sia corruzione – jeez, solo un
pezzente in malafede la definirebbe corruzione - è una questione di
stile, modi. Non è che puoi fare il convegno in una pensione al Lido
degli Scacchi, con il catering a base di salama da sugo, nemmeno quello
sull’unghia incarnita, perché i luminari (i cosiddetti KOL – Key Opinion
Leader, quelli che rappresentano la scena insomma) non ci vengono mica.
And that’s the point.
La
comunità scientifica è stata ora ‘sensibilizzata’, il materiale emerso
nel corso del convegno (durante il quale un buon numero di cocktail con
gli ombrellini sono andati anche ai più puri rappresentanti dei media) è
stato diffuso, non resta che inondare di soldi un po’ di altra gente,
mettere in piedi uno studio clinico e aspettare che il farmaco compaia
sui migliori banchi del regno (augurandosi che, nel corso dello studio,
qualche stronzo cagone non abbia il cattivo gusto di schiattarci, o che
almeno non lo facciano in troppi).
Quindi, ricapitolando:
Abbiamo
il nostro farmaco, che non è per cagare troppo né troppo poco.
Regolarizza il dolore addominale, forse (responsabile, nel solo 1994 e
nei soli USA, di un numero di decessi superiore a quelli causati dai
morsi di anatra), o roba così.
Abbiamo fatto il nostro bel congresso
alle Barbados, in seguito al quale la comunità medica si è finalmente
resa conto del flagello rappresentato dalla SINDROME DELL’INTESTINO
IRRITABILE, una patologia che ora esiste e affligge oceani di persone
(dati proprio precisi è difficile trovarne, ma stai a guardare il
capello).
Abbiamo messo in piedi, o foraggiato, associazioni di
pazienti colpiti da IBS e forum su internet, inoltre numerosi
giornalisti hanno, del tutto disinteressatamente, pubblicato una serie
di articoli sulla faccenda. La comunità delle persone che, in tutto il
globo, controllano a fatica lo sfintere e hanno spesso il mal di pancia
ringrazia di cuore, con una festosa salva di peti (wink wink).
A questo punto non ci resta che salvare il mondo.
Per
finire, un piccolo episodio, che all’epoca mi ha colpito (da allora
bevo solo acqua distillata, mi lavo con acqua piovana e mangio solo
fegato di agnello crudo. Ho anche messo la rete elettrificata fuori casa
e pago un ninja per proteggermi, ma lo vedo poco):
C’è questo film
dei Fratelli Coen, uno di quei passamano che i due simpaticoni cagano
fuori a cadenza regolare. Anzi, è proprio un inutile e piuttosto
scadente remake di un film più bello con attori più meglio, quasi mi
dispiace parlarne e il titolo non ve lo dico, non ci arriverete mai.
Le
differenze con l’originale sono parecchie ma abbastanza irrilevanti, e
vanno tutte a discapito del remake. Tra queste, i personaggi e le loro
caratteristiche.
Uno
di loro – J.K.Simpson, sempre ottimo, il buonismo mi impone di
segnalarlo – dà vita a una serie di travolgenti gag incentrate sul suo
disturbo. Ne parla proprio un sacco, ne discute con gli altri affermando
che si tratta di una malattia vera e che ha conosciuto la sua attuale
compagna tramite un’associazione di pazienti affetti da quel disturbo,
di cui soffre un’infinità di gente. È proprio una cosa che ti ricordi,
alla fine del film, e non si capisce poi bene perché, dato che l’effetto
comico è minimo e penosamente datato.
Beh, io lo so che non ci crederete mai ma proprio mai, quindi non ve lo dico neanche.
Un brutto mondo questo, comunque.
Pilade Fioravanti