domenica 19 marzo 2023

Caso Cospito, il Comitato Nazionale per la Bioetica travisa la Corte europea dei diritti umani

fonte:https://www.osservatoriorepressione.info

La Cedu ci ricorda come sia la stessa pratica dell’alimentazione forzata a essere convenzionalmente illegittima e a costituire una violazione dell’articolo 3 quando la reale finalità delle autorità non sia tanto “salvare la vita” alla persona detenuta, quanto reprimere una protesta attraverso una lesione grave dell’autodeterminazione come fondamento non solo della dignità umana, ma anche di un concetto ampio di salute.

di Sofia Ciuffoletti

Il comunicato stampa dei lavori del Comitato Nazionale per la Bioetica n. 2/2023 del 6 marzo 2023 sunteggiando il parere di maggioranza, riferisce che a sostegno della tesi secondo cui: “nel caso di imminente pericolo di vita, quando non si è in grado di accertare la volontà attuale del detenuto, il medico non è esonerato dal porre in essere tutti quegli interventi atti a salvargli la vita” viene posto un dictum della recente sentenza della Corte Europea dei Diritti Umani, Yakovlyev c. Ucraina, per cui: “né le autorità penitenziarie, né i medici potranno limitarsi a contemplare passivamente la morte del detenuto che digiuna”.

Vale la pena soffermarci, seppur brevemente, su questo punto e ricontestualizzare il dictum della Corte nell’ambito della giurisprudenza della Corte in tema di alimentazione forzata in caso di sciopero della fame (sarebbe in effetti meglio, come ricorda Franco Corleone, parlare di sciopero dell’alimentazione, perché dalla fame è difficile scioperare: sarà proprio Gandhi a parlare di ‘fasting’, rifiutando il termine ‘hunger strike’).

La questione del prolungato sciopero dell’alimentazione in carcere pone in diretto contrasto i due principi cardine del sistema convenzionale di tutela dei diritti, i due diritti considerati assoluti, diritti, insomma, che non consentono deroghe: il diritto alla vita, presidiato dall’art. 2 e il divieto di tortura e trattamenti inumani e degradanti (art. 3). La Corte, infatti, ha osservato che quando un detenuto protrae uno sciopero dell’alimentazione, ciò può inevitabilmente portare a un conflitto tra il diritto all’integrità fisica di un individuo ai sensi dell’articolo 3 della Convenzione e l’obbligo positivo di tutela dell’integrità e della vita, in capo allo stato contraente ai sensi dell’articolo 2, un conflitto che non è risolto dalla Convenzione stessa.

Proprio nella recentissima decisione in Yakovlyev, la Corte ricostruisce bene queste due dimensioni e la citazione utilizzata nella decisione di maggioranza fa riferimento all’imputabilità alle autorità pubbliche del deterioramento delle condizioni di salute di un detenuto, direttamente causato dal suo rifiuto di accettare l’alimentazione forzata. La Corte afferma che tale deterioramento non può essere automaticamente ritenuto imputabile alle autorità. Tuttavia, la Corte, “condividendo i principi espressi dall’Associazione Medica Mondiale”, considera che l’amministrazione penitenziaria non possa essere totalmente esonerata dai propri obblighi positivi, “limitandosi a contemplare passivamente la morte del detenuto che digiuna”. La Corte, qui, non si riferisce a interventi di alimentazione forzata, ma cita in maniera espressa gli obblighi di informazione continua e, in casi specifici, il dovere di accertare le reali ragioni della protesta del detenuto e “se tali ragioni non sono puramente capricciose ma, al contrario, denunciano una grave cattiva gestione medica, le autorità competenti devono dimostrare la dovuta diligenza avviando immediatamente le trattative con lo scioperante al fine di trovare un accordo adeguato, fatte salve, ovviamente, le restrizioni che le legittime esigenze di detenzione possono imporre”.

In effetti, in una decisione di poco precedente Ünsal and Timtik c. Turchia (n. 36331/20), decidendo proprio sulla eventuale violazione dell’art. 2, in un caso di sciopero dell’alimentazione con esito infausto dovuto al rifiuto di trattamenti sanitari e in assenza di un trattamento di alimentazione forzata, la Corte ha dichiarato il ricorso inammissibile perché manifestamente infondato, in quanto la Turchia aveva approntato tutte le cautele possibili attraverso l’ospedalizzazione della persona detenuta e aveva adempiuto agli obblighi di informazione.

Nella sentenza Yakovlyev, la Corte EDU discute la pratica dell’alimentazione forzata, delle sue ragioni e delle modalità con cui è stata somministrata e conclude per la violazione dell’art. 3, considerando, fra l’altro, che “l’unica risposta allo sciopero della fame dei detenuti è stata l’alimentazione forzata. La Corte non può quindi escludere che, come sostenuto dal ricorrente, la sua alimentazione forzata fosse in realtà finalizzata a reprimere le proteste nel carcere di Zamkova”.

Sembra dunque, ribaltata la logica che viene posta a fondamento della posizione maggioritaria del CNB per cui: “Le DAT sono incongrue, e dunque inapplicabili, ove siano subordinate all’ottenimento di beni o alla realizzazione di comportamenti altrui, in quanto utilizzate al di fuori della ratio della L.219/2017”. La CEDU ci ricorda come, al contrario, sia la stessa pratica dell’alimentazione forzata a essere convenzionalmente illegittima e a costituire una violazione dell’art. 3 quando la reale finalità delle autorità non sia tanto “salvare la vita” alla persona detenuta, quanto reprimere una protesta attraverso una lesione grave dell’autodeterminazione come fondamento non solo della dignità umana, ma anche di un concetto ampio di salute.

Articolo publicato per la rubrica di Fuoriluogo su il manifesto del 15 marzo 2023.

 

giovedì 2 marzo 2023

Presidio Antipsichiatrico al carcere della Dozza 28 Gennaio 2023

 

Resoconto del presidio antipsichiatrico al carcere della Dozza del 28 gennaio 2023

Sabato 28 gennaio a Bologna sotto la Dozza siamo arrivate in moltissime davanti le sezioni femminili per portare il nostro calore e la nostra solidarietà alle detenute, per contestare l’articolazione tutela salute mentale e la recente sezione “nido” costruita accanto. Non abbiamo ricevuto risposte dall’interno perché la posizione più vicina alle sezioni non permette di comunicare, ma abbiamo testimonianza che le nostre voci da fuori sono riuscite ad arrivare dentro. Abbiamo condiviso con le recluse la nostra ostilità verso la sezione psichiatrica – affinché nessuna mai finisca isolata in un repartino! Inoltre, nonostante gli Opg siano stati chiusi sulla carta i reparti psichiatrici in carcere oggi rischiano di estendersi. Proprio di recente la sezione psichiatrica alla Dozza è stata millantata sui giornali come modello da allargare a tutto il carcere per la “gestione degli eventi critici” e dei “comportamenti problema” e come addirittura tutto il femminile sia stato indicato come esempio di “come dovrebbe essere il carcere”, il “carcere che funziona”. Al contrario è un’istituzione totale dove chi non si adatta al contesto, esprime disagio, difficoltà emotive o squilibri a causa della stessa reclusione rischia trenta giorni di trattamento sanitario obbligatorio prorogabili, che possono tradursi in mesi di isolamento. Abbiamo ribadito la nostra ostilità ad ogni contenzione psicologica, fisica, farmacologica, al carcere, alla psichiatria e ad ogni gabbia! Per quanto istituzioni e media tentino di mistificare la realtà, sappiamo che la quotidianità in carcere rimane impossibilità ad accedere a misure alternative, isolamento e psichiatrizzazione. Lavori e progetti sono presso che assenti, ridotti a sfruttamento e a stereotipi di genere. C’è una concreta difficoltà ad accedere a cure, visite specialistiche e a scegliere i propri percorsi terapeutici.
Abbiamo condiviso la nostra avversità alla recente sezione “nido”, costruita accanto all’articolazione tutela salute mentale in piena emergenza sanitaria, quando la direzione del carcere di Bologna al posto di scoraggiare la detenzione ha investito nell’allestimento di una sezione per detenute madri con bambini fino a tre anni.
Abbiamo condiviso l’assoluta necessità che madri e bambini stiano insieme ma fuori dal carcere e che se persino il garante ha dichiarato di sentirsi preoccupato per la vicinanza con l’articolazione psichiatrica, da dove giorno e notte uscirebbero grida e lamenti, noi siamo sconvolte, allarmate, arrabbiate, che questa condizione venga normalizzata.
Sui media di recente è stato detto che “sembra di non essere in carcere”, come se qualche ninnolo appeso e le pareti dipinte di lillà possano cancellare l’oppressione dell’isolamento e della detenzione.
Abbiamo salutato le recluse con la promessa di tornare presto, dopo di che ci siamo spostate al maschile, dove la posizione permette di comunicare con i detenuti.

Appena sotto al maschile le grida di aiuto hanno iniziato ad esplodere. In moltissimi hanno subito segnalato il nome di un detenuto in protesta per l’impossibilità di accedere al lavoro “Si è cucito la bocca!! Aiutatelo!!”. Ci hanno raccontato di uno sciopero della fame e della sete di una settimana. Ci hanno detto che non solo è impossibile accedere al lavoro, ma anche allo studio e alle più elementari esigenze. Hanno denunciato l’assenza di acqua o che dai rubinetti ne esce pochissima. Hanno raccontato non solo del numero ridotto, ma anche della mancanza di fiducia verso quei pochissimi medici ed educatori presenti, letteralmente al servizio della penitenziaria.
Un recluso si è molto esposto, ha riportato che tantissimi non hanno nessuno da incontrare “Non vedono mai nessuno, non fanno colloqui con nessuno!”. Ha detto che sono letteralmente abbandonati dentro, che in moltissimi potrebbero uscire ma scontano pene oltre la detenzione perché i magistrati di sorveglianza sono in ferie, non ci sono e non scarcerano. “Non rispondono a nessuna richiesta!”, tanti hanno pene pari o inferiori a tre anni, ma a causa delle condizioni ostative non possono accedere a benefici o a misure alternative. Ha sottolineato come moltissimi rimangano dentro perché non hanno disponibilità economica per pagarsi la difesa, mentre chi ha soldi e potere riesce a ottenere sconti facilmente. Ha denunciato la presenza di persone in condizioni di fragilità psichica, disabili e gravemente malati senza cure o assistenza, che secondo lui non dovrebbero trovarsi in carcere. Gli abbiamo detto che esponendosi così tanto dalla cella avrebbe potuto avere ripercussioni, ci ha detto che erano passati, che aveva appena ricevuto un richiamo, gli avevano chiesto se era stato lui a chiamarci. Ci ha raccontato della figlia che non vede da un anno e mezzo e di aver provato anche lui “a fare la corda” (impiccarsi). Abbiamo interagito e portato tutto il calore e la solidarietà possibile.
E’ stato un presidio duro da portare a casa. Abbiamo lasciato alcuni indirizzi a cui scrivere e preso i riferimenti necessari per sostenere le gravi situazioni segnalate, con la promessa che saremmo tornate.
Continueremo a lottare contro il carcere, la psichiatria, la tortura del 41 bis e delle misure ostative, per il definitivo superamento di ogni forma di prigionia!

Assemblea Antipsichiatrica