fonte:https://www.osservatoriorepressione.info
La Cedu ci ricorda come sia la
stessa pratica dell’alimentazione forzata a essere convenzionalmente
illegittima e a costituire una violazione dell’articolo 3 quando la
reale finalità delle autorità non sia tanto “salvare la vita” alla
persona detenuta, quanto reprimere una protesta attraverso una lesione
grave dell’autodeterminazione come fondamento non solo della dignità
umana, ma anche di un concetto ampio di salute.
di Sofia Ciuffoletti
Il comunicato stampa
dei lavori del Comitato Nazionale per la Bioetica n. 2/2023 del 6 marzo
2023 sunteggiando il parere di maggioranza, riferisce che a sostegno
della tesi secondo cui: “nel caso di imminente pericolo di vita, quando
non si è in grado di accertare la volontà attuale del detenuto, il
medico non è esonerato dal porre in essere tutti quegli interventi atti a
salvargli la vita” viene posto un dictum della recente sentenza della Corte Europea dei Diritti Umani, Yakovlyev c. Ucraina,
per cui: “né le autorità penitenziarie, né i medici potranno limitarsi a
contemplare passivamente la morte del detenuto che digiuna”.
Vale la pena soffermarci, seppur brevemente, su questo punto e ricontestualizzare il dictum
della Corte nell’ambito della giurisprudenza della Corte in tema di
alimentazione forzata in caso di sciopero della fame (sarebbe in effetti
meglio, come ricorda Franco Corleone, parlare di sciopero
dell’alimentazione, perché dalla fame è difficile scioperare: sarà
proprio Gandhi a parlare di ‘fasting’, rifiutando il termine ‘hunger strike’).
La questione del prolungato sciopero
dell’alimentazione in carcere pone in diretto contrasto i due principi
cardine del sistema convenzionale di tutela dei diritti, i due diritti
considerati assoluti, diritti, insomma, che non consentono deroghe: il
diritto alla vita, presidiato dall’art. 2 e il divieto di tortura e
trattamenti inumani e degradanti (art. 3). La Corte, infatti, ha
osservato che quando un detenuto protrae uno sciopero
dell’alimentazione, ciò può inevitabilmente portare a un conflitto tra
il diritto all’integrità fisica di un individuo ai sensi dell’articolo 3
della Convenzione e l’obbligo positivo di tutela dell’integrità e della
vita, in capo allo stato contraente ai sensi dell’articolo 2, un
conflitto che non è risolto dalla Convenzione stessa.
Proprio nella recentissima decisione in Yakovlyev, la
Corte ricostruisce bene queste due dimensioni e la citazione utilizzata
nella decisione di maggioranza fa riferimento all’imputabilità alle
autorità pubbliche del deterioramento delle condizioni di salute di un
detenuto, direttamente causato dal suo rifiuto di accettare
l’alimentazione forzata. La Corte afferma che tale deterioramento non
può essere automaticamente ritenuto imputabile alle autorità. Tuttavia,
la Corte, “condividendo i principi espressi dall’Associazione Medica
Mondiale”, considera che l’amministrazione penitenziaria non possa
essere totalmente esonerata dai propri obblighi positivi, “limitandosi a
contemplare passivamente la morte del detenuto che digiuna”. La Corte,
qui, non si riferisce a interventi di alimentazione forzata, ma cita in
maniera espressa gli obblighi di informazione continua e, in casi
specifici, il dovere di accertare le reali ragioni della protesta del
detenuto e “se tali ragioni non sono puramente capricciose ma, al
contrario, denunciano una grave cattiva gestione medica, le autorità
competenti devono dimostrare la dovuta diligenza avviando immediatamente
le trattative con lo scioperante al fine di trovare un accordo
adeguato, fatte salve, ovviamente, le restrizioni che le legittime
esigenze di detenzione possono imporre”.
In effetti, in una decisione di poco precedente Ünsal and Timtik c. Turchia
(n. 36331/20), decidendo proprio sulla eventuale violazione dell’art.
2, in un caso di sciopero dell’alimentazione con esito infausto dovuto
al rifiuto di trattamenti sanitari e in assenza di un trattamento di
alimentazione forzata, la Corte ha dichiarato il ricorso inammissibile
perché manifestamente infondato, in quanto la Turchia aveva approntato
tutte le cautele possibili attraverso l’ospedalizzazione della persona
detenuta e aveva adempiuto agli obblighi di informazione.
Nella sentenza Yakovlyev, la
Corte EDU discute la pratica dell’alimentazione forzata, delle sue
ragioni e delle modalità con cui è stata somministrata e conclude per la
violazione dell’art. 3, considerando, fra l’altro, che “l’unica
risposta allo sciopero della fame dei detenuti è stata l’alimentazione
forzata. La Corte non può quindi escludere che, come sostenuto dal
ricorrente, la sua alimentazione forzata fosse in realtà finalizzata a
reprimere le proteste nel carcere di Zamkova”.
Sembra dunque, ribaltata la logica che
viene posta a fondamento della posizione maggioritaria del CNB per cui:
“Le DAT sono incongrue, e dunque inapplicabili, ove siano subordinate
all’ottenimento di beni o alla realizzazione di comportamenti altrui, in
quanto utilizzate al di fuori della ratio della L.219/2017”. La CEDU ci
ricorda come, al contrario, sia la stessa pratica dell’alimentazione
forzata a essere convenzionalmente illegittima e a costituire una
violazione dell’art. 3 quando la reale finalità delle autorità non sia
tanto “salvare la vita” alla persona detenuta, quanto reprimere una
protesta attraverso una lesione grave dell’autodeterminazione come
fondamento non solo della dignità umana, ma anche di un concetto ampio
di salute.
Articolo publicato per la rubrica di Fuoriluogo su il manifesto del 15 marzo 2023.