domenica 28 luglio 2019

A dieci anni dalla morte di Francesco Mastrogiovanni

UN PORTO SICURO
di Giuseppe Bucalo

Fra qualche giorno, il 4 agosto 2019, ricorre il decimo anniversario della morte per trattamento sanitario ob/ligatorio di Francesco Mastrogiovanni.
Potremmo chiederci cosa rimane di questa vicenda e cosa (e se qualcosa) la stessa abbia insegnato non tanto (e non solo) ai tecnici della salute mentale ma soprattutto ai familiari e alla cosiddetta società civile.
In Tribunale si è lungamente dibattuto se considerare o meno la contenzione un "atto medico". La Cassazione ha sentenziato che non lo è, ma non che sia in sé un atto "illecito".
Tant'é che le condanne dei medici (che hanno continuato e continuano ad operare, che non hanno subito alcun provvedimento disciplinare e ancor meno sono stati espulsi dall'ordine) sono state confermate solo perché "quella" contenzione, con le modalità con cui si è svolta, è stata considerata illegittima.

Il dibattito sulla morte di Francesco Mastrogiovanni non è, a mio avviso, mai uscito dalla logica del sistema dei (mal)trattamenti psichiatrici che ne ha decretato la morte.
In gioco non doveva esserci, infatti, la liceità di questa o quell'altra pratica psichiatrica, ma se sia lecito e legittimo che un cittadino venga sottoposto a trattamenti non richiesti sulla base della diagnosi/giudizio psichiatrico.
A quel giudizio e a quelle "cure" intendeva sottrarsi Francesco
Mastrogiovanni in quella giornata estiva , rifugiandosi in mare, mentre le forze dell'ordine legale e mentale lo assediavano sulla riva.
In quei lunghi momenti di resistenza passiva in cui Francesco attendeva soccorsi, niente e nessuno si mosse.
I "soccorritori", del resto, erano a riva ad aspettarlo. Ma era proprio il "soccorso" il vero pericolo.
Francesco sapeva che la psichiatria non è porto sicuro, così come i profughi che attraversano il mediterraneo sanno essere i porti della Libia. Logica vorrebbe che non si intendesse "soccorso" quell'azione mirata a riportare un fuggitivo nella situazione che ha determinato la sua fuga.
Non si "soccorre" l'evaso riportandolo in carcere, così come non si "soccorre" il renitente alle cure riportandolo a forza in psichiatria.
Un porto sicuro è una comunità che accoglie e che ci difende dall'ingerenza "umanitaria" di chi ha deciso cosa è bene per noi, al di là del nostro consenso. Una comunità che non resta a guardare in riva al mare o fuori dai reparti di psichiatria, lasciando fare ai "soccorritori" di professione che, in nome e su delega nostra, costringono le persone in luoghi di terrore e morte.

domenica 21 luglio 2019

Una riflessione sull’uso degli psicofarmaci


 Articolo segnalato dal Collettivo Antipsichiatrico Artaud

“Pillola azzurra: fine della storia. Domani ti sveglierai in camera tua e crederai a quello che vorrai. Pillola rossa: resti nel paese delle meraviglie, e vedrai quanto è profonda la tana del Bianconiglio”
dal film Matrix (1999), discorso di Morfeo a Neo

Secondo una recente nota dell’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA), il consumo di psicofarmaci in Italia, dopo circa un decennio di crescita costante, non ha subito variazioni di rilievo tra il 2015 e il 2017. L’Osservatorio della Salute, tuttavia, analizzando proprio i dati dell’AIFA e inquadrandoli in un arco di tempo maggiore, dà un’interpretazione diversa e sostiene che il trend non sia stabile, ma in continua crescita. L’Osservatorio propone una serie di concause collegate alle politiche della salute e alle dinamiche sociali ed economiche. Per dare qualche dato, citiamo la ricerca statistica effettuata dal CNR dalla quale emerge che nel 2011 il 12,8% degli italiani ha fatto ricorso agli ansiolitici, il 10% ai sonniferi e circa il 6% agli antidepressivi.
Al di là della precisione statistica e delle spiegazioni “macro”, ci sembra di poter considerare palpabile la percezione collettiva che il consumo di psicofarmaci sia uscito dallo stigma e stia entrando a pieno titolo nell’immaginario collettivo come uno dei rimedi a cui si può ricorrere quando si è in difficoltà.
La ricerca e la pratica psichiatrica sembrano non essere compatte nell’approccio all’uso degli psicofarmaci: c’è chi si dedica a migliorarli, chi si impegna a divulgare atteggiamenti possibilisti, ma critici e ispirati alla massima prudenza, chi, come ad esempio il dott. Bregging, porta avanti studi e battaglie per un uso consapevole (Bregging si spinge oltre, credo, e considera gli psicofarmaci altamente dannosi – ), asserendo che gli svantaggi sopravanzano i benefici.
Come psicoterapeuti, impegnati tanto nella pratica clinica quanto in attività a stampo sociale, ci sembra importante osservare il fenomeno anche da un altro punto di vista, più intimo e più legato all’esperienza delle persone, e ci viene da domandarci se l’aumento del consumo di psicofarmaci non sia anche legato – oltre  che alla maggior disponibilità, all’economicità e alla facilità con cui rischiano di  essere prescritti, talvolta in modo inappropriato – anche all’idea che la cosa da fare di fronte alla sofferenza sia quella di eliminarla il più in fretta e il più facilmente possibile. Intendiamoci, nessuno sostiene che la sofferenza sia un bene e che non sia più che sacrosanto cercare di ridurla. Vogliamo solo mettere in luce il fatto che i sintomi psicologici sono appunto dei sintomi, la manifestazione più superficiale di un qualche malanno. Come ci ricorda la psichiatria (che talvolta però rischia di dimenticarlo), gli psicofarmaci possono rimuovere il sintomo – ansia, depressione o altro – ma non hanno alcuno tipo di effetto sulla causa che li ha prodotti. La velocità e la semplicità con cui riusciamo ad eliminare sensazioni e sentimenti sgraditi, fastidiosi o faticosi (intollerabili?) ci impedisce di riconoscere a noi stessi quali siano gli stati emotivo-cognitivi da cui emergono. Le emozioni e i conflitti più importanti, quelli che hanno a che fare con i significati più profondi e autentici della nostra vita, restano inconsapevoli e la mente non ha modo di modularli e di trasformarli in qualcosa di più “digeribile” e di più utile. Alzando il punto di osservazione e allargando lo sguardo all’intera collettività, potremmo contemplare anche il rischio che il malessere delle persone resti inchiodato al mito della “mente isolata”, alla convinzione, ormai sconfessata dalla ricerca, che la mente sia un’entità chiusa e definita in se stessa; viceversa, essa è per sua natura relazionale e ridurla ad un “fatto individuale” ne ostacola la cura quando i fattori che generano sofferenza originano nelle relazioni, private e pubbliche, nei rapporti affettivi e in quelli socio-economici.
C’è qui un’altra errata convinzione di fondo che pare percorrere la nostra società: emozioni e sensazioni disturbanti sono “inutili”, anzi sono una zavorra che intralcia il dispiegamento della nostra mente razionale e della nostra produttività. In altre parole, l’intelligenza, la parte pregiata e nobile dell’uomo, sta da una parte, mentre le emozioni e i sentimenti, irrazionali e spesso “stupidi”, stanno da un’altra; la mente razionale è eterea e lucida, le emozioni e le sensazioni hanno qualcosa di corporeo che ci rende più simili agli animali che ad esseri pensanti. E’ un’idea con radici antiche, filosofiche, che riempie la letteratura, il cinema, la musica e che ha fortemente influenzato anche la scienza e la medicina.
Le più moderne neuroscienze, tuttavia, mettono inequivocabilmente in discussione questa separatezza tra mente e corpo, tra razionalità e sentimento. E’ questa scissione che Damasio chiama “L’errore di Cartesio”, titolo del suo ormai celeberrimo libro sulla natura della razionalità. Il famoso neuroscienziato afferma, infatti, che per migliorare le capacità di ragionamento dell’uomo la strada da percorrere non è quella di liberarlo dalle emozioni, la cui piena può travolgere e annullare le capacità raziocinanti (ognuno di noi l’ha sperimentato almeno una volta nella vita!), ma è invece quella di “porre mente al corpo”. I sentimenti, nelle parole di Damasio, “ci danno la cognizione” del nostro stato interno e costituiscono una prima, immediata e intelligente valutazione di ciò che accade all’esterno, nelle relazioni e nelle varie situazioni di vita: “[…] i sentimenti risultano vincitori tra pari. Inoltre, dal momento che ciò che viene prima (i sentimenti, n.d.r.) costituisce un quadro di riferimento per ciò che viene dopo (pensieri e scelte, n.d.r.), i sentimenti hanno voce in capitolo sul modo in cui il resto del cervello e la cognizione svolgono i loro compiti. La loro influenza è immensa.”
Tornando agli psicofarmaci, elaboriamo meglio il dubbio iniziale: perché eliminare le informazioni portate da emozioni e sentimenti e impoverire drammaticamente le nostre capacità di comprensione di ciò che ci accade e che accade nei nostri contesti di vita e amputare così le nostre capacità razionali di scelta?
Dal suo punto di vista, strettamente “neuroscientifico”, Damasio ci sprona a porre mente alle emozioni disturbanti, ad affrontarle, “domarle” e a permettere loro di aiutarci a scegliere nel modo migliore per noi e per i nostri cari.
Per quanto riguarda noi, l’avete capito, pur nella consapevolezza di quanto possa essere faticoso e doloroso, alla domanda di Morfeo scegliamo la pillola rossa e scendiamo nella tana del Bianconiglio.

Matti come cavalli – Intersezioni bastarde fra antispecismo e antipsichiatria

Testo scritto per il blog CripHumAnimal – [leggi la versione inglese / read English version]
Da qualche anno, nell’ambito dell’attivismo antispecista e dei critical animal studies, si parla della resistenza animale. Contestando le retoriche paternaliste in stile “we are the voice of the voiceless”, molto diffuse fra i difensori dei diritti animali, alcuni gruppi e autori sottolineano che i nonumani si ribellano quotidianamente allo sfruttamento: evadono dagli allevamenti, dagli zoo e dai laboratori, fuggono dai camion diretti al mattatoio, aggrediscono i domatori nei circhi, si rifiutano di collaborare, si lasciano morire in tutti i luoghi di prigionia. Il collettivo Resistenza Animale, in Italia, documenta da anni queste ribellioni e cerca di favorire la solidarietà, accanto a una visione dell’attivismo in cui gli umani non siano più gli eroici salvatori degli altri animali, ma compagni di lotta posizionati al loro fianco.

“Rubare il tempo è una follia”, di Luigia Marturano.
[Disegno in bianco e nero con sfumature di grigio raffigurante una persona distesa nel letto, legata con una camicia di forza; intorno, una decina di cani sono legati con delle corde al letto e cercano di staccarsi]
Non è un caso, probabilmente, che questo nuovo approccio alla liberazione animale abbia destato interesse nel movimento antipsichiatrico, favorendo dei momenti di dibattito sull’intersezione fra le due lotte. In particolare, Giuseppe Bucalo, attivista e autore che ha creato, in Sicilia, reti di sostegno ai “matti” libere dall’interferenza delle istituzioni e del sapere psichiatrico, ha espresso una forte affinità con la resistenza animale. Secondo Bucalo, vi sono molte analogie fra il controllo che la società opera nei confronti dei modi di pensare non incasellabili nella razionalità standard e il controllo dei nonumani che provano a disattendere il ruolo che è stato loro assegnato dalla nostra società. Lo stupore, l’ansia e la violenza repressiva suscitate dai cosiddetti “malati di mente” e dagli animali fuggitivi nello spazio pubblico, per esempio, sono molto simili. Il testo di Sarat Colling “Animal without Borders” mostra come fino a poco tempo fa – e talvolta ancora oggi – gli animali in fuga siano descritti dai giornali come “impazziti” come “matti”.
Per Bucalo, anche le procedure di riabilitazione forzata che la psichiatria elabora per disciplinare le vite di chi non si piega alla “normalità” sono strategie di addomesticamento, con riferimento all’addomesticamento degli animali – dalla tigre cui si insegna a ripetere una serie di esercizi funzionali allo spettacolo, al cane cui si impongono una serie di regole di vita stabilite dal padrone umano. Il caso dei cani randagi è emblematico. Lo stesso Bucalo racconta che in Sicilia ha dovuto chiedersi in che modo intervenire – e se intervenire – di fronte a cani “senza padrone”. La mentalità dell’animalismo mainstream, di fronte a un cane vagante sul territorio, è spesso simile a quella della psichiatria di fronte al “folle”: si vede solo un soggetto “fuori luogo”, pericoloso per la società e in pericolo al tempo stesso, e quindi da tutelare senza chiedersi quali siano i suoi reali bisogni. Il che significa, nella maggiorparte dei casi, rinchiuderlo in un manicomio o in un canile per il suo stesso bene. Nella narrazione degli incontri con i cani liberi o con gli animali “da carne” in fuga – ma anche nelle pratiche di contenzione, di sedazione o abbattimento – questi soggetti imprevisti sono spesso infantilizzati e disabilizzati. Persino quei cani che scelgono liberamente di vivere in branco ai margini degli insediamenti umani senza ambire alle “comodità” di un’abitazione, e che non hanno particolari problemi di sostentamento o di salute, vengono considerati delle vere e proprie vittime da tutelare, incapaci di provvedere a se stesse. Un tipico esempio di disabilizzazione – oltre a quella molto concreta cui sono sottoposti i prigionieri nonumani, cui viene tagliato il becco, rese inutilizzabili le zampe, tagliate le corde vocali – è quello degli appelli a catturare le mucche fuggite dal mattatoio perché nelle foreste “non sono in grado sopravvivere”.
Oltre che di una questione strettamente politica, si tratta di una questione di comunicazione. Il dispositivo psichiatrico, secondo Bucalo, induce a leggere i messaggi non usuali di alcuni individui attraverso la lente della “malattia mentale”. Ciò porta a vedere conflitti fra persone là dove non necessariamente esistono, e, quando esistono, a darne una lettura riduttiva che impedisce di comprenderne la natura ed entrare in dialogo per risolverlo. Analogamente, il fatto di utilizzare etichette ipersemplicistiche come “cavallo imbizzarrito” o “toro scatenato” impedisce di cogliere l’espressione di un disagio dei nonumani relativo alle proprie condizioni di vita. Se la psichiatria parte dall’assunto di una distinzione quasi ontologica fra “sani” e “malati”, condannando i secondi all’incomunicabilità, in modo simile lo specismo rende i nonumani letteralmente senza voce, nonostante l’etologia e l’esperienza millenaria di rapporto con gli animali “domestici” dimostrino che umani e nonumani sono perfettamente in grado di comunicare, se soltanto lo desiderano.

tratto da: https://resistenzanimale.noblogs.org

sabato 20 luglio 2019

Sentire le voci non è segno di psicosi

articolo segnalato da Collettivo Antipsichiatrico Artaud di Pisa; nell'articolo parla la Dottoressa Maria Quarato (docente in psicoterapia interazionista):

Sussurri appena accennati, nomi o intere frasi minacciose, ma anche incoraggianti. Uno studio italo-austriaco su persone che sentono le voci ha concluso che le allucinazioni uditive non sono segno di psicosi. Lo studio, durato due anni e non ancora pubblicato, ha coinvolto 139 uditori di voci, spiega in una nota la psicologa clinica Maria Quarato, docente in Psicoterapia interazionista e responsabile del centro "Ediveria" (Associazione per la ricerca internazionale e la consulenza sull'udire voci") con sede a Vienna, convenzionata con l'Universitá degli studi di Padova, che ha realizzato la ricerca in collaborazione con Alessandro Salvini e Antonio Iudici.


"Dai nostri studi e soprattutto dalla pratica clinica e psicoterapeutica - afferma Quarato - è emerso il 'fallimento'" di chi "etichetta come psicotiche o schizofreniche persone perfettamente sane. Già la psichiatria ortodossa accetta che il 10% della popolazione generale abbia fenomeni più o meno complessi di allucinazioni, ma non riesce a superare il dogma di associare chi sente le voci a una patologia importante. Ebbene, nessuna delle 139 persone con allucinazioni uditive seguite, soddisfaceva i criteri del Dsm 5 per la diagnosi di psicosi".
"I questionari somministrati - aggiunge Maria Quarato in una nota - riguardavano anche persone provenienti da strutture psichiatriche con diagnosi infauste. Spesso il processo diagnostico peggiora la condizione dell'uditore di voci: sia per gli effetti collaterali degli psicofarmaci somministrati ben oltre il periodo necessario a gestire le emergenze, sia per gli effetti prodotti dall'idea di essere malati mentali". La media di sedute per la risoluzione dei casi, aggiunge la psicoterapeuta, è stata di sei-otto incontri. "Il numero aumenta nel caso di persone già psichiatrizzate".
"Ascoltando attentamente ogni storia - prosegue Quarato - si scopre che il problema non sono le voci in modo specifico, ma le teorie attraverso cui l'uditore cerca di spiegare le sue voci, e tra le tante c'è anche l'idea di essere mentalmente malati. Le voci sono solo un modo attraverso cui le persone cercano di affrontare aspetti psicologici che necessitano di essere gestiti, sarebbero insomma solo un modo di pensare, per esprimere parti di sé alcune volte in conflitto, come può capitare a molti. Solo che l'uditore é in grado di attivare voci che 'raccontano' questi diversi punti di vista".
"Come confermano tanti ricercatori ormai - continua - sentire le voci non e' quindi il segno di una patologia, ma una propensione neurologica che la psichiatria ha catalogato nella diagnostica imperante, ma che è sempre stata presente in ogni società ed in ogni epoca, e che in alcune culture, addirittura, diviene un'abilità da acquisire con la formazione e la pratica. Le voci delle persone intervistate erano di ogni genere: angosciose, persecutorie, critiche, consolatorie, incoraggianti, come possono esserlo i pensieri di tutti, e molto spesso vengono attivate dall'uditore per risolvere la condizione, sempre più frequente nella nostra società, di solitudine, che è il vero problema che psicologi e psichiatri spesso sono chiamati ad affrontare".
Insomma, le persone che sentono le voci "sono in realtà pensatori dialogici, e sono moltissimi quelli che riescono ad attivare le voci e sono consapevoli di farlo in modo intenzionale. Tanti lo nascondono, spaventati dall'idea di essere etichettati come malati mentali. Una studentessa universitaria italiana a Vienna, ad esempio - prosegue la Quarato - mi ha raccontato che quando non ha voglia di studiare, riesce ad attivare la voce della mamma che l'ammonisce, come fosse al suo fianco, e solo così riesce a concentrarsi nello studio. Questa ragazza è perfettamente consapevole che quella voce materna l'ha cercata e prodotta attraverso i suoi processi immaginativi fino ad udirla come 'vera'. E come lei, ce ne sono tantissimi".
Il sistema di classificazione delle malattie mentali, Dsm, aggiunge la psicoterapeuta, fino a poco tempo fa considerava anche l'omosessualità come una malattia da curare. "Abbiamo a disposizione nei nostri archivi e online - conclude Quarato - anche i video delle persone strappate a diagnosi infauste, che oggi conducono una vita del tutto normale. Chi vuole raccontarci delle sue voci, attivate in modo consapevole ed intenzionale, può inviare una mail a quarato.maria@gmail.com".

domenica 14 luglio 2019

Psichiatria e fascismo

fonte:https://bodosproject.blogspot.com/

Per molto tempo, anche nell'ambito delle ricerche sulla repressione del dissenso e le persecuzioni subite dagli oppositori del regime fascista, il ricorso sistematico alla psichiatria e alla reclusione manicomiale è stato un aspetto storiografico sottaciuto e sottostimato, come se certi “metodi” fossero una prerogativa di altri sistemi totalitari, quali quello nazista o quello staliniano. D'altronde, le stesse vittime, una volta tornate alla cosiddetta normalità dopo la Liberazione, il più delle volte auto-censurarono il racconto delle loro vicissitudini attraverso l'arcipelago manicomiale, un po' per evadere anche dal ricordo opprimente di tale esperienza, un po' perché comunque probabilmente in molti vi era il recondito timore di essere ancora presi per pazzi.
Eppure è proprio durante il ventennio fascista che si registra l'incremento dei cosiddetti “manicomi criminali”, con la costruzione di nuove strutture e di nuove sezioni giudiziarie presso istituti “civili” già esistenti, nonché l'aumento – davvero esponenziale – del numero degli “alienati” internati a seguito di sentenza penale oppure in applicazione della legge n. 36 nel 1904 (rimasta, incredibilmente, in vigore sino al 1978!) che prevedeva e regolava l'internamento negli ospedali psichiatrici di quanti, per presunta pericolosità sociale o pubblico scandalo, vedevano così le proprie vite in totale balia del giudizio - e del pregiudizio - di pretori, procuratori, prefetti, questori, podestà e direttori di manicomi.
Nonostante che tale legge fosse stata emanata dal governo del liberale Giolitti, l'individuo vedeva annullata ogni tutela delle proprie libertà ed era consegnato inerme all'arbitrio statale: essa risultava a tutti gli effetti un dispositivo legale volto a togliere dalla circolazione i soggetti “devianti”; infatti, la loro “colpa” e la loro “malattia” discendeva generalmente da una supposta pericolosità legata all'essere improduttivi oppure ad eventuali turbamenti dell'ordine pubblico.
Il fascismo, perciò, accolse pienamente questo impianto ideologico e, soprattutto dal 1927, lo inserì nel suo stato di polizia, tanto che «fissò nel Testo unico delle leggi d Ps (prima del 1926 e poi del 1931) le regole da attivare per il controllo dei degenerati e delle classi pericolose, oltre che dell'alienazione mentale», mirando a colpire ugualmente sospetti oppositori politici, omosessuali, oziosi, nomadi, alcolisti e altri soggetti marginali.
Particolare non secondario, proprio in pieno fascismo, nel 1938 lo psichiatra Ugo Cerletti (tessera n. 0694914 del Pnf) assunse notorietà mondiale per «l'italianissima invenzione» dell'elettroshock. Ad essere colpiti, temporaneamente o in maniera definitiva, da misure di costrizione manicomiale furono circa un migliaio di uomini e donne, di varia tendenza o appartenenza politica, ritenuti pericolosi per la dittatura di Mussolini: se il termine ha un senso, nella stragrande maggioranza dei casi non si trattava di «malati di mente», ma di «avversi al regime»; in non pochi casi, invece, i disturbi psichici erano diretta conseguenza delle violenze fisiche e delle torture mentali a cui furono sottoposti nel corso di spedizioni punitive, in carcere, al confino o dentro i non-luoghi manicomiali.
Per chiudere è possibile riscontrare come i funzionari di polizia ricorressero alle diagnosi pseudo-mediche e alle categorie lombrosiane, mentre gli psichiatri accettavano – con rarissime eccezioni – di svolgere un ruolo di inquisitori politici, così come le figure degli infermieri e dei secondini tendevano a confondersi dietro sbarre che, purtroppo, non appartengono ancora al passato. Discorso analogo per quanto riguarda l'esile confine che separava il trattamento punitivo da quello terapeutico, con strumenti e pratiche degne dei supplizi del Sant'Uffizio.