lunedì 28 luglio 2014

Intervista a Giorgio Antonucci


Firenze, 26/07/2014

Il CAMAP, insieme al collettivo Rapa Viola, al collettivo Kalashnikov e con la collaborazione della Dott.ssa Maria Rosaria d'Oronzo, ha potuto incontrare dal vivo il Dott. Giorgio Antonucci e dialogare con lui.
Dopo una trasferta in macchina piuttosto lunga, a causa del traffico, il Dott. Antonucci di ha accolto in casa sua ed è iniziata la nostra intervista. In realtà ciò che doveva essere un'intervista è diventata un dialogo aperto su vari temi. Il clima, da subito informale, ha messo tutti noi a nostro agio.
Giorgio si è dimostrato una persona aperta e disponibile; ha raccontato molte esperienze di vita, aneddoti e curiosità che non conoscevamo e che non è possibile trovare nei suoi libri. Per più di due ore abbiamo avuto la possibilità di colloquiare con lui e chiarire alcuni dubbi, spesso suscitati dalle sue stesse opere.
Siamo stati colpiti dalla disponibilità si, ma soprattutto dalla semplicità con cui spiegava il suo pensiero e quella che è la sua filosofia di vita, senza tanti giri di parole o tecnicismi inutili.
Il materiale raccolto, ovvero riprese video e più di un'ora di regitrazione audio, verrà messo online e condiviso appena possibile. Sarà comunque necessario pazientare un pò per permetterci di costruire dei prodotti audio, video e testo meglio organizzati e più facilmente fruibili da tutti.
Credo valga la pena attendere un pò.
Nel frattempo un grazie di cuore a chi ha reso possibile questa intervista e a Giorgio Antonucci per la disponibilità.

Veronika

martedì 22 luglio 2014

Caso Uva, sei anni di mala giustizia



Rinvio a giudizio. Se finalmente si è tornati ad uno stato di diritto lo si deve alle tenacia e alla intelligenza di Lucia e della famiglia Uva Sono pas­sati oltre sei anni da quel 14 giu­gno 2008 in cui, sor­preso a spo­stare delle tran­senne in mezzo a una strada, Giu­seppe Uva veniva con­dotto in una caserma dei cara­bi­nieri di Varese. Poche ore dopo sarebbe morto nel reparto psi­chia­trico dell’ospedale cit­ta­dino. Quanto suc­cesso in que­sti lun­ghi anni è l’esempio più lam­pante di come la giu­sti­zia, in uno stato di diritto, non dovrebbe fun­zio­nare: spre­gio per le insop­pri­mi­bili garan­zie di chi si trovi pri­vato della libertà, stig­ma­tiz­za­zione della vit­tima e del suo stile di vita, sot­to­va­lu­ta­zione delle cir­co­stanze di fatto a esclu­sivo van­tag­gio di un pre­giu­di­zio di intan­gi­bi­lità per uomini e appa­rati dello Stato. Per sei anni, non uno solo dei cara­bi­nieri e poli­ziotti che quella notte chiu­sero Uva in una stanza, è stato inda­gato; e solo nell’autunno scorso, il testi­mone ocu­lare, Alberto Big­gio­gero, è stato ascol­tato dalla Pro­cura.
In que­sti anni e in ben sei tra sen­tenze e ordi­nanze, altret­tanti giu­dici cen­su­ra­rono il com­por­ta­mento pro­ces­suale del pub­blico mini­stero Ago­stino Abate: «È un diritto della fami­glia e della col­let­ti­vità intera» sapere cosa suc­cesse all’interno di quella caserma. Per­ché Giu­seppe Uva è stato trat­te­nuto senza un ver­bale di fermo? Per­ché il suo corpo era pieno di ferite e di lesioni? Per­ché, se cara­bi­nieri e poli­ziotti sosten­gono che Uva si sia fatto male da solo, non è stata chia­mata imme­dia­ta­mente l’ambulanza? Troppe domande cui per un tempo infi­nito è stata negata una rispo­sta. Il fasci­colo in mano al Pm Abate è stato trat­tato come una pro­prietà per­so­nale: insulti alla fami­glia nel corso delle udienze, inter­ro­ga­tori ai testi­moni con moda­lità a dir poco discu­ti­bili, asso­luto pre­giu­di­zio d’innocenza nei con­fronti dei poli­ziotti e cara­bi­nieri coin­volti.
Ma quei com­por­ta­menti, sia pure tar­di­va­mente, sono stati oggetto di inda­gine da parte del mini­stero della Giu­sti­zia e della Pro­cura gene­rale presso la Cas­sa­zione e hanno por­tato a due pro­ce­di­menti disci­pli­nari presso il Csm per, tra l’altro, «con­dotta ingiu­sti­fi­ca­ta­mente aggres­siva e inti­mi­da­to­ria» e «vio­la­zione dei diritti umani». Dopo­di­ché, anche il tri­bu­nale di Varese ha dovuto pren­dere prov­ve­di­menti e il fasci­colo è stato final­mente rias­se­gnato. I capi di accusa sono stati rifor­mu­lati dal pm Felice Isnardi, ma poi quest’ultimo — nell’udienza del 9 giu­gno scorso — ha chie­sto sor­pren­den­te­mente il non luogo a pro­ce­dere per tutti gli inda­gati.
Che all’interno del Tri­bu­nale di Varese suc­ce­dano fatti sin­go­lari è ormai cosa nota, ma ciò che conta adesso è che final­mente un giu­dice – quello dell’udienza pre­li­mi­nare, Ste­fano Sala – abbia deciso. E la sua deci­sione di rin­viare a giu­di­zio il cara­bi­niere (il secondo mili­tare ha fatto richie­sta di rito imme­diato) e i sei poli­ziotti era l’unica pos­si­bile, con­si­de­rati gli ele­menti di fatto che ha potuto valu­tare. Il 20 otto­bre in Corte d’Assise ini­zia il vero pro­cesso per la morte di Giu­seppe Uva. E se si è arri­vati a que­sto lo si deve in primo luogo alla volontà tenace e intel­li­gente di Lucia e dei fami­liari di Giu­seppe Uva, in una città che a lungo è rima­sta, se non ostile, lar­ga­mente sorda.
tratto da www.controlacrisi.org

giovedì 17 luglio 2014

Paziente morto in Psichiatria, disposta autopsia. Indagati tre medici del Sant’Elia

Tre medici della divisione di Psichiatria dell’ospedale “Sant’Elia” sono stati iscritti nel registro degli indagati dalla Procura di Caltanissetta in relazione al decesso di un cinquantenne nisseno, Fabio M., stroncato giovedì scorso da un arresto cardiaco. Sono stati i familiari del paziente – attraverso l’avvocato Giacomo Butera – a presentare un esposto alla magistratura , chiedendo di accertare se la cause della morte è addebitabile a qualche farmaco somministrato durante il ricovero del figlio, entrato nel reparto il 19 maggio scorso per essere sottoposto ad un trattamento sanitario obbligatorio.
L’avviso di garanzia – firmato dal sostituto procuratore Santo Di Stefano – è stato notificato ai tre specialisti. Un atto dovuto per consentire lo svolgimento dell’autopsia su Fabio M., che è stata effettuato nell’obitorio del nosocomio nisseno dal medico legale Giuseppe Ragazzi e dal tossicologo Guido Romano che fra due mesi consegneranno un rapporto alla Procura con le conclusioni.
fonte: www.seguonews.it

lunedì 14 luglio 2014

A Celebration of the Life and Work of Thomas Szasz


Diciamo che l'ospedale di Syracuse non è proprio a portata di mano, ma voglio comunque pubblicizzare questo evento. E' organizzato dall'ente stesso, quello dove Szasz ha lavorato una vita.
Un ospedale psichiatrico che discute di Antipsichiatria.

http://www.upstate.edu/psych/szasz.php

Veronika

martedì 8 luglio 2014

I pregiudizi e la conoscenza critica alla psichiatria


di Giorgio Antonucci 
Streghe ieri e streghe oggi
Molti filosofi della scienza tra cui Max Weber e più di recente K. R. Popper hanno studiato con attenzione la differenza tra i giudizi di fatto e i giudizi di valore.
I primi sono scientifici, i secondi no.
Ad esempio: se un neurologo con apposite indagini e strumenti ed esami stabilisce le diagnosi di tumore cerebrale questo è un giudizio di fatto, dunque è una constatazione scientifica.
Invece se uno psichiatra afferma che una donna che ha molti rapporti sessuali è una ninfomane questo è un giudizio di valore, dunque non ha nulla di scientifico.
Comunque anche al di fuori del campo ristretto della psichiatria tutta la psicologia contemporanea che può soltanto tentare interpretazioni ipotetiche sul comportamento dell'uomo è viziata dal pregiudizio sociale della distinzione tra normale e anormale.
Si può dire pertanto parafrasando un titolo famoso del filosofo tedesco Emanuele Kant che i prolegomeni ad ogni psicologia del futuro che voglia sia pure in modo problematico presentarsi come conoscenza devono ancora essere scritti.

Fiodor Dostoevskij, che non a caso annota nei suoi Diari "Vasto è l'uomo, troppo vasto, io lo farei più ristretto", è il maggior conoscitore della psicologia umana tra tutti i moderni, proprio perché non fa distinzione tra normale ed anormale. Così Nikolàj Stavrògin si può dire, usando il linguaggio degli scultori, che è un personaggio a tutto tondo, cioè un individuo che porta dentro di sé senza limiti tutte le contraddizioni della nostra civiltà.
Mi riferisco ora per fare un esempio attuale alla famosa vicenda, probabilmente ancora non conclusa e certamente in sospeso, del così detto Mostro di Firenze.
I vari interpreti dell'avvenimento, siano essi giornalisti scrittori e registi oppure psicologi psichiatri o antropologi, rinunciano a raggiungere ipotesi attendibili sull'autore o sugli autori di questi omicidi nel momento in cui, invece di approfondire tutte le possibili motivazioni, e tutti i possibili conflitti tra individuo e società nella nostra cultura, si rifugiano nel pregiudizio della follia.

D'altra parte sono molti in ogni epoca i modi di fabbricare il letto di Procuste per nascondersi la larghezza e la profondità dei problemi.
"Il mantello delle streghe" potrebbe sembrare ormai soltanto una curiosità storica, però nelle metropoli moderne, in periodo post-industriale, come ad esempio ora a Torino, ritorna la negromanzia, e tornano attuali gli esorcismi. Tra l'altro, di recente, la stampa ha portato notizia che una donna, che aveva la giovane figlia in condizioni di disagio psicologico, per paura degli psichiatri, ha preferito chiedere aiuto a un esorcista.
Si sa che nei conventi, nel passato ma a volte anche ora, entravano ed entrano persone non per loro scelta, ma costrette da vari interessi.
Anche Manzoni, come è noto, fu attratto dallo studio psicologico della storia di una donna costretta alla rinuncia e alla castità contro le proprie inclinazioni.
Nel libro "Magistrati e streghe", di Robert Mandrou si può leggere come ancora nel Seicento la maggioranza degli uomini di cultura affrontava il problema a livello teorico, e come i sacerdoti intervenivano.
Allora il disagio di essere oppressi e di non potersi esprimere secondo le proprie necessità e le proprie passioni era interpretato prevalentemente in modo mistico: la vittima era una strega.
Dopo, pian piano finirà per prevalere l'interpretazione clinica: la vittima diventerà una malata. Insomma, in un modo o nell'altro, non si vogliono vedere le cose come sono. Thomas S. Szasz ironizza intelligentemente sul fatto che quasi tutti gli psichiatri hanno considerato le streghe come malate di mente, senza dir nulla sugli inquisitori.

venerdì 4 luglio 2014

Psicofarmaci e Autismo




ROMA, 02/07/2014 – Curare l’autismo con un farmaco non si può, ma mitigarne gli effetti sì: a quale prezzo, però? Il dibattito non è nuovo, così come non è nuova la tendenza a somministrare medicinali (calmanti, in primo luogo: risperidone, in particolare): se da un lato infatti il farmaco aiuta a controllare il comportamento del ragazzo autistico e a tenere a bada le sue più violente espressioni, dall’altro gli effetti collaterali naturalmente non mancano: come a dire, i rimedi possono essere peggiori dei mali. 
Il “caso” di Andrea. Ed è proprio di questo che si discute, questa mattina, sul gruppo face book “Io ho una persona con autismo in famiglia”, teatro di un vivace scambio di esperienze e di opinioni, suscitato dal post di un mamma, che racconta la propria personale, recente vicenda. “Tribolavo da mesi perché vedevo il mio Andrea non stare bene! Da gennaio ad adesso, sono stata da quattro medici psichiatri e neuropsichiatri. Non capivo perché soffrisse così: sudorazione improvvisa, agitazione continua, non riusciva a dormire più di cinque ore, poi appena alzato iniziava a camminare avanti e indietro. Spesso non era presente, gli parlavo e non mi guardava. Anche al centro diurno le operatrici erano preoccupate per il suo peggioramento. Andrea poi non riusciva nemmeno a mangiare da quanto era iperattivo: in pochi mesi ha perso 8 kg, era uno scheletro!”. Gli esami clinici, però, erano tutti negativi, “le risposte dei medici sempre la stesse: ‘è l’autismo, è l’età, è una brutta stereotipia’. A me però venne un dubbio: chiesi ai medici se potesse essere l’effetto paradosso del farmaco che stava assumendo”. I medici, però, lo escludevano categoricamente. “Mi raccomandarono di non sospenderlo, ma io, di testa mia, ho deciso di diminuire le dosi del farmaco, giorno per giorno: ora, da 15 giorni, lo abbiamo sospeso del tutto. E Andrea è rinato! Anche dal centro diurno mi hanno comunicato che sta molto meglio, che è tornato l’Andrea di un tempo: tranquillo, sereno, capisce subito il comando. Lui è rilassatissimo e io sono la mamma più felice del mondo”. Da questa personale esperienza, la mamma di Andrea trae lo spunto per lanciare un messaggio. “i migliori medici per i nostri figli siamo noi”. 
Esperienze diverse. In poche ore, il suo messaggio raccoglie numerosi consensi e commenti: alcuni hanno avuto esperienze simili e condividono la sua decisione, altri invece invitano alla prudenza. “Io non do mai la medicina a Felippe, neanche quando è molto agitato: piuttosto, gli canto una canzone e gli do un bicchiere di latte e lui di solito si rilassa”, racconta una mamma. Un’altra, invece, non riesce a sospendere la terapia: “Una volta ho chiesto alla psichiatra di diminuire il farmaco, che incide sui valori della transaminasi. Ma lei non vuole saperne…”. Racconta un’altra mamma: “Anche a me è successo con Amanda: io ero in un momento ‘no’ e come sempre lei ne risentiva, era molto irrequieta. La psichiatra mi ha obbligato a darle una medicina: la dose era minima, ma aveva l’effetto di una bomba. Il ciclo non arrivava, era più agitata del solito e io ero nel panico. Decisi di sospenderlo e tornò subito la ragazza fantastica di prima. Molti medici non capiscono i nostri figli e difficilmente riconoscono i propri errori”. Lo conferma un’altra mamma, Teresa: “Mio figlio ha 26 anni e so per esperienza diretta che le benzodiazepine provocano effetto paradosso! Negli anni ho fatto l'errore di seguire consigli sbagliati, provocandogli solo sofferenza! E' meglio tollerare momenti di nervosismo che usare tranquillanti: non aiutano, anzi fanno male. I nostri ragazzi hanno bisogno di chiarezza, metodo, continuità. Quando questo non è possibile, bisogna accettare anche i momenti più difficili. Ho fatto battaglie per far capire questo nei centri che frequenta: purtroppo il farmaco è comodo, la mentalità chiusa e i nostri ragazzi ne fanno le spese. Se è risaputo che hanno bisogno di chiarezza, dandogli un farmaco che li annebbia li aiutiamo?”. Non manca però, chi fa “l’avvocato del diavolo. In questo caso – scrive una mamma - la soluzione giusta era questa, ma fate attenzione a ridosare un farmaco, perché potrebbe essere pericoloso. Alcuni farmaci vanno controllati con esami del sangue per capirne la risposta del corpo. Mamma sei stata caparbia e brava, ma siate cauti...”.   
C’è, infine, chi prova a tirare le somme, appellandosi alla ricerca scientifica: “E' stato dimostrato scientificamente che i farmaci nell'autismo che in primis non curano i sintomi nucleari possono provocare in questi pazienti (come anche in pazienti con ritardo mentale) effetti paradosso. Informatevi, non serve sedare il bambino: per i comportamenti problematici è invece necessario agire precocemente, con interventi educativi adeguati. Non esistono studi sulla sicurezza di questi farmaci sul lungo periodo nell'autismo. Molte linee guida (vedi anche quella del NICE 2013 oltre che la nostra LG21) hanno già statuito che non devono essere utilizzati, perché il profilo rischio-beneficio non ne supporta l'utilizzo”. Ma ci sono casi in cui combattere l’autismo senza psicofarmaci è davvero difficile, come racconta, in questo caso, una sorella: “Una sera, se non avessimo portato mio fratello in psichiatria, avrebbe spaccato tutto: in tre, non riuscivamo a tenerlo. Da allora prende un bel po’ di farmaci e io mi sento in colpa…”. D’altra parte, la realtà è questa: “In certi casi – riferisce una mamma - o trovi tu un farmaco che li calmi, o te li calmano poi con un Tso all'ospedale...”. (cl)
Ringraziamo Beatrice per la gentile segnalazione.
Veronika

martedì 1 luglio 2014

La psichiatria rende liberi?

Di: Collettivo antipsichiatrico Antonine Artaud
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Oggi l’istituzione psichiatrica continua ad essere uno strumento di esclusione e controllo, ed ha enormemente ampliato il suo bacino d’utenza aumentando di anno in anno il numero delle “malattie mentali” da curare, ossia dei comportamenti “devianti” da uniformare. Tra questi rientra il consumo di sostanze psicoattive, che, se in passato era considerato un vizio, un piacere, oggi diviene sintomo di un disagio da trattare con cure psichiatriche, trasformando un problema sociale in una questione sanitaria.
Negli ultimi anni a causa del decreto Fini-Giovanardi ed alle nuove proposte di legge in materia psichiatrica, si è rafforzato il legame proibizionismo-psichiatria ed i consumatori di sostanze illegali sono diventati merce per le multinazionali farmaceutiche e per l’industria del recupero e della riabilitazione sulla base di una doppia diagnosi che li vede “malati mentali” in quanto drogati e “drogati” a causa della loro “malattia mentale”.
Nonostante si dimostri proibizionista nei confronti di chi consuma volontariamente sostanze, la psichiatria diffonde sul mercato molecole psicoattive e somministra trattamenti farmacologici che, sono spesso introdotti coercitivamente nel corpo delle persone.
Gli psicofarmaci, oltre ad agire solo sui sintomi e non sulle cause della sofferenza della persona, alterano il metabolismo e le percezioni, rallentano i percorsi cognitivi e ideativi contrastando la possibilità di fare scelte autonome, generano fenomeni di dipendenza ed assuefazione del tutto pari, se non superiori, a quelli delle sostanze illegali classificate come droghe pesanti, dalle quali si distinguono non per le loro proprietà chimiche o effetti ma per il fatto di essere prescritti da un medico e commercializzate in farmacia.
Siamo contro l’obbligo di cura, infatti non siamo a priori contro l’utilizzo di psicofarmaci ma pensiamo che spetti all’individuo deciderne in libertà e consapevolezza l’assunzione. Sentiamo pertanto l’esigenza di contrastare ancora una volta il perpetuarsi di tutte le pratiche psichiatriche e di smascherare l’interesse economico che si cela dietro l’invenzione di nuove malattie per promuovere la vendita di nuovi farmaci.
Il fine contenitivo di tali sostanze è evidente: la distribuzione di psicofarmaci è oramai prassi diffusa anche all’interno di altre istituzioni totali. Nei CIE (centri identificazione ed espulsione) gli psicofarmaci vengono spesso somministrati sia nascosti negli alimenti che forzatamente.
Le carceri italiane favoreggiano l’uso diffuso, abituale (tre volte al giorno) ed indiscriminato di sedativi, soprattutto benzodiazepine, per tenere a bada attraverso le cure psichiatriche i detenuti, che, pur non facendo uso di stupefacenti , vengono così indirizzati verso la psicofamacologia.
Invece di avere come fine primario la salute dei detenuti, i medici diffondono l’uso di psicofarmaci, che permette di controllare chimicamente l’umore, di lenire l’ansia della carcerazione. L’istituzione carceraria si serve della psichiatria per stemperare il conflitto, e garantirsi così un più semplice controllo della massa dei detenuti, costretti a subire gravi situazioni di degrado e sovraffollamento.
Ad oggi abbiamo circa 320 reparti psichiatrici, gli SPDC (Servizio Psichiatrico Diagnosi e Cura) e oltre 3200 strutture psichiatriche residenziali e centri diurni sul territorio dove in molti casi si sono conservati i dispositivi e gli strumenti propri dei manicomi, quali il controllo del tempo, dei soldi, l’obbligo delle cure, il ricorso alla contenzione fisica. La riforma del sistema psichiatrico si è rivelata più verbale che materiale: ai cambiamenti formali non sono seguite differenze sostanziali delle condizioni di vita dei soggetti internati. Quello che è certo è che la “rivoluzione psichiatrica all’italiana” ha riguardato solo i luoghi della psichiatria, ma non i trattamenti e le logiche sottostanti.
La legge 180 (nota come legge Basaglia) ha chiuso i manicomi nel 1978 ma mantiene inalterato il principio di manicomialità, in base al quale chiunque può essere arbitrariamente etichettato come “malato mentale” e quindi rinchiuso.
Se l’articolo 32 della Costituzione garantisce il diritto alla libera scelta del luogo di cura e quindi la volontarietà degli accertamenti sanitari, con la legge 180 e la successiva 833/78 si stabiliscono dei casi in cui il ricovero può essere effettuato indipendentemente dalla volontà dell’individuo: è il caso del TSO (trattamento sanitario obbligatorio) e dell’ASO (accertamento sanitario obbligatorio). Se in teoria la legge prevede il ricovero coatto solo in casi limitati e dietro il rispetto rigoroso di alcune condizioni, la realtà testimoniata da chi la psichiatria la subisce è ben diversa. Con grande facilità le procedure giuridiche e mediche necessarie per effettuare il TSO vengono aggirate, nella maggior parte dei casi i ricoveri coatti vengono eseguiti senza rispettare le norme che li regolano e spesso seguono il loro corso semplicemente per il fatto che quasi nessuno è a conoscenza delle normative e dei diritti di cui gode il ricoverato. Diffusa è la pratica di mascherare tramite pressioni e ricatti, TSO con ricoveri volontari. Spesso il paziente viene trattenuto dopo lo scadere del TSO in regime di TSV (trattamento sanitario volontario) senza essere messo a conoscenza del fatto che può lasciare il reparto, oppure, persone che si recano in reparto in regime di TSV vengono poi trattenute in TSO al momento in cui richiedono di andarsene. L’ASO funziona come trampolino di lancio per portare la persona in reparto, dove verrà poi trattenuta in regime di TSV o TSO a seconda della propria accondiscendenza agli psichiatri. Per i pazienti ricoverati in TSO e considerati “agitati” si ricorre ancora al”isolamento e alla contenzione fisica, mentre i cocktails di farmaci somministrati mirano ad annullare la coscienza di sé della persona, a renderla docile ai ritmi e alle regole ospedaliere. Il grado di spersonalizzazione ed alienazione che si può raggiungere durante una settimana di TSO ha pochi eguali, anche per il bombardamento chimico a cui si è sottoposti.
Negli ultimi anni è aumentato in Italia l’uso dell’elettroshock per i pazienti psichiatrici, ad oggi in Italia i presidi sanitari che praticano l’elettroshock sono 91 tra cliniche pubbliche e private. All’interno delle strutture sanitarie vengano fatte campagne di screening preventivi finalizzate all’incentivazione di tale terapia soprattutto per quanto riguarda ipotetici problemi di depressione post partum dove la TEC viene addirittura proposta quale terapia adeguata e meno invasiva per le neo mamme rispetto ad un Trattamento Sanitario Obbligatorio o volontario che impieghi gli psicofarmaci. Ci teniamo a ribadire che l’elettroshock è una disumana violenza e un attacco all’integrità psicologica e culturale dell’individuo che lo subisce. Insieme ad altre comuni pratiche della psichiatria come il TSO , la contenzione fisica, la terapia elettroconvulsivante è un esempio della coercizione e dell’arbitrio esercitato dalla psichiatria.
Il collettivo Antipsichiatrico Antonin Artaud è un gruppo di persone che si propone di sviluppare e diffondere una cultura antipsichiatrica e di contrastare gli usi e gli abusi della psichiatria attraverso attività di ricerca e di divulgazione e offrendo ascolto, solidarietà e supporto legale alle vittime della psichiatria.
Collettivo Antipsichiatrico Antonin Artaud- Pisa
per info: antipsichiatriapisa@inventati.org / www.artaudpisa.noblogs.org /3357002669