La parzialità della visione psichiatrica viene messa in
scacco dalla dipendenza culturale mostrata dalla diagnosi. Non è comprensibile
infatti come uno sciamano africano e uno psicotico europeo, pur possedendo
metaforicamente gli stessi sintomi (deliri, allucinazioni), vengano trattati in
modo così diametralmente opposto dalle culture di appartenenza. Se lo sciamano
è una figura di tutto rispetto al vertice della gerarchia di una qualsiasi
tribù africana (poniamo ad esempio i Vatussi), l’individuo visionario e
delirante che vive nelle nostre città è un cliente fisso dei CPS o del reparto
di psichiatria, impegnati costantemente a monitorare quantità e qualità delle
sue allucinazioni. Se la psichiatria vuole essere considerata una scienza
medica, le sue diagnosi non dovrebbero essere così influenzate dalla comunità
di appartenenza e dal pensiero corrente. Qualsiasi altro paragone con qualsiasi
altra branca della medicina non regge e non può reggere il confronto. Ad
esempio, un’insufficienza cardiaca è tale in qualsiasi contesto culturale; aver
mangiato sano e condotto una regolare attività fisica può fare la differenza e
ciò dipende dalla cultura di appartenenza, ma un infarto è tale in qualsiasi
parte del mondo. Il richiamo costante alla neurologia, alle immagini
diagnostiche di ultima generazione o al patrimonio genetico non risolvono la
questione, sempre aperta, di una scienza medica costantemente impegnata nella
ricerca di correlati biologici che dopo secoli di storia tardano ancora ad
arrivare. Un imbarazzante segreto spesso ben celato dai discorsi degli
psichiatri e dalla loro aura ammantata dall’ autorevolezza del camice bianco.
Veronika
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