domenica 29 settembre 2019

LE PORTE SONO ILLUSORIE

il mito delle buone pratiche in psichiatria di Giuseppe Bucalo

una video testimonianza autoprodotta da un reparto psichiatrico a "porte aperte"
Si autodefiniscono Spdc "a porte aperte". Sono reparti di psichiatria (il 10% del totale) che affermano di operare senza contenzione e coercizione.
Fra questi quello di Caltanissetta.

Possiamo crederci ? Dobbiamo farlo ?
La "porta aperta" in psichiatria è solo un mito.
Intanto perché è il frutto di una concessione da parte dell'operatore (e non un diritto esigibile da chi è ricoverato). Con lo steso arbitrio con cui viene aperta, essa può essere chiusa, legalmente, in ogni momento.
Non dimentichiamo inoltre che la contenzione "meccanica" è solo una delle infinite strategie che la psichiatria usa per bloccare (e rendere innocui) i suoi utenti involontari.
Gli psicofarmaci da tempo, e in modo più efficace e accettabile, hanno sostituito le fasce di contenzione. Tanti dei sostenitori del superamento della contenzione meccanica (che definiscono come una vera e propria forma di tortura), non hanno da ridire invece sulla liceità del TSO o della somministrazione forzata di psicofarmaci. Al contrario.
Queste strategie, a differenza della contenzione meccanica, vengono considerati dagli psichiatri delle buone pratiche "atti medici" e, quindi, non sindacabili né catalogabili come forme di violenza, sopraffazione o abuso.
La "porta aperta" del reparto psichiatrico in realtà non è una via d'uscita. Una volta varcata la soglia e definita "malata", la persona non ha più alcun potere nel gestire la propria vita. Non ha più un fuori dove andare, uno spazio privato, un rifugio o un territorio inviolabile in cui vivere.
La contenzione non è una pratica: è un sistema che va aldilà dei servizi psichiatrici e coinvolge l'intero contesto familiare e sociale del "contenuto".
Non mi stupisce che gli utenti involontari di questi reparti no restraint, quando non sono rimbecilliti e bloccati dagli psicofarmaci, possano scegliere di non attraversare le porte tenute aperte dai propri carcerieri. Sanno, come ebbi a sentire da un ex internato molti anni fa, che "le porte sono illusorie. E che di là tu puoi trovare tre o quattro infermieri che ti fanno sei o sette fiale di serenase endovena o quasi".


domenica 22 settembre 2019

Montichiari 19/10/19 - No elettroshock - No abusi e morte nei reparti

 

SABATO 19 Ottobre a MONTICHIARI (BS) – alle ore 15 c/o ingresso reparto Via G. Ciotti 154, PRESIDIO INFORMATIVO CONTRO L’USO DELL’ELETTROSHOCK E CONTRO GLI ABUSI NEI REPARTI PSICHIATRICI STOP ELETTROSHOCK, STOP ABUSI E MORTI NEI REPARTI !


Vorremmo chiamare a sostegno dell’iniziativa tutte le realtà che hanno a cuore la libertà della persona nel poter disporre della propria vita, dei propri ricordi e dei propri pregi e difetti. Per dare continuità al presidio di Giugno scorso a Pisa riproponiamo il testo informativo sulla TEC/ELETTROSHOCK dove si spiega bene in cosa consiste questa pratica: ”L’elettroshock oggi viene chiamato TEC (terapia elettroconvulsiva) ma rimane la stessa tecnica inventata nel 1938 da Cerletti e Bini. Si tratta di corrente elettrica che passando dalla testa e attraversando il cervello produce una convulsione generalizzata.          
Migliorandone le garanzie burocratiche, così come introducendo alcune modifiche nel trattamento, vedi anestesia totale e farmaci miorilassanti, non si cambia la sostanza della TEC. A più di ottanta anni dalla sua invenzione, possiamo affermare che l’elettroshock è l’unico trattamento, che prevede come cura una grave crisi organica dei soggetti indotta a tale scopo, mai dichiarato obsoleto.
Perché questo trattamento medico – che per stessa ammissione di molti psichiatri che lo hanno applicato e che continuano ad applicarlo – è stato utilizzato in passato come metodo di annichilimento dell’umano, come strumento di tortura, come mezzo repressivo contro la disobbedienza, non viene dichiarato superato dalla storia e dalla scienza?
È sufficiente praticare un’anestesia totale per rendere più umana e dignitosa la sua applicazione? Basta chiamarla terapia per renderla legittima?
Possono dei benefici temporanei, che per avere effetto devono comunque essere accompagnati dall’assunzione di psicofarmaci, essere un valido motivo per usare questo trattamento? Si possono ignorare gli effetti negativi dell’elettroshock?
In Italia, sul finire degli anni novanta, i presidi sanitari dove era possibile praticare l’elettroshock erano nove – sei pubblici e tre privati. Venne presentata una campagna, “Sdoganare l’elettroshock”, dai più illustri psichiatri organicisti aderenti all’AITEC (Associazione Italiana Terapie Elettroconvulsive), che principalmente chiedeva due cose: un aumento dei presidi autorizzati tale che si potesse coprire la richiesta di una struttura ogni milione di abitanti e la promozione di iniziative culturali tese ad una rivalutazione di quella che era la percezione pubblica dell’elettroshock. Fu così che gli apparati politici italiani intervennero in materia predisponendo, per la prima volta, un percorso teorico e normativo che identificasse delle linee guida condivise tra apparati istituzionali pubblici e privati e le richieste della psichiatria.
In Italia negli ultimi anni si tende a incentivare l’utilizzo delle terapie elettroconvulsive, non solo come estrema ratio ma anche come prima scelta. Per esempio nel trattamento delle depressioni femminili entro i primi tre mesi di gravidanza, poiché ritenuto meno pericoloso degli psicofarmaci nei primi periodi di gestazione umana. Anche per quanto riguarda ipotetici problemi di depressione post partum la TEC viene addirittura pro-posta quale terapia adeguata e meno invasiva per le neo mamme rispetto agli psicofarmaci o ad un Trattamento Sanitario Obbligatorio.
Nel 2011 le strutture ospedaliere coinvolte, cioè quelle che hanno eseguito almeno una TEC in un anno, erano 91. Nel triennio che va dal 2008 al 2010, 1.406 persone sono state sottoposte a elettroshock. La maggioranza dei trattamenti riguarda le donne, 821 contro 585 uomini, e la fascia d’età va in media dai 40 ai 47 anni. Nel 2008 i pazienti over 75 che hanno subito la TEC erano 21, l’anno dopo 39.
Oggi i centri clinici dove si fa l’elettroshock sono 16 e i pazienti all’incirca 300 l’anno.
I meccanismi di azione della TEC non sono noti. Per la psichiatria «rimane irrisolto il problema di come la convulsione cerebrale provochi le modificazioni psichiche» e «non è chiaro quali e in che modo queste modificazioni (dei neurotrasmettitori e dei meccanismi recettoriali) siano correlate all’effetto terapeutico» (G. B. Cassano, Manuale di Psichiatria). Ma per chi subisce tale trattamento la perdita di memoria e i danni cerebrali sono ben evidenti e possono essere rilevati attraverso autopsie e variazioni elettroencefalografiche anche dopo dieci o venti anni dallo shock.
Ciò che resta di certo, quindi, è la brutalità, la totale mancanza di validità scientifica e l’assenza di un valore terapeutico comprovato.
Ci teniamo, quindi, a ribadire che nonostante le vesti moderne l’elettroshock rimane una terapia invasiva, una violenza, un attacco all’integrità psicologica e culturale di chi lo subisce. Insieme ad altre pratiche psichiatriche come il TSO, l’elettroshock è un esempio, se non l’icona, della coercizione e dell’arbitrio esercitato dalla psichiatria. Il percorso di superamento dell’elettroshock e di tutte le pratiche non terapeutiche deve essere portato avanti e difeso in tutti i servizi psichiatrici, in tutti i luoghi e gli spazi di cultura e formazione dove il soggetto principale è una persona, che insieme ai suoi cari, soffre una fragilità.”

COLLETTIVO ANTIPSICHIATRICO CAMUNO – CAMAP camap@autistici.org                            

COLLETTIVO ANTIPSICHIATRICO ANTONIN ARTAUD PISA – antipsichiatriapisa@inventati.org 

COLLETTIVO SENZANUMERO – ROMA – senzanumero@autistici.org

 


giovedì 12 settembre 2019

CRIMINI di PACE: ELENA 19 ANNI ARSA VIVA IN UN REPARTO PSICHIATRICO

Riceviamo e pubblichiamo il seguente comunicato scritto dal Collettvo Antipsichiatrico di Bergamo 
e dal Collettivo Antonin Artaud di Pisa condividendo pienamente il messaggio e la voglia di chiarezza 
per quanto accaduto ad Elena Casetto.

CRIMINI di PACE: ELENA 19 ANNI ARSA VIVA IN UN REPARTO PSICHIATRICO

Il 13 agosto, nell’ ospedale papa Giovanni XXIII di Bergamo, divampa un incendio. A seguito di ciò muore una ragazza di diciannove anni, legata ad un letto di contenzione. Il suo nome è Elena. La direzione sanitaria si affretta, attraverso gli organi di stampa, a giustificare la contenzione come forma di tutela esercitata proprio “a beneficio” della paziente, rea di aver precedentemente tentato il suicidio.

La morte di Elena, è sicuramente un dramma personale che esige cautela nell’ affrontarlo. Rispettando soprattutto  il dolore di chi l’ha amata. Tuttavia non si può neppure considerare un episodio isolato.
Vorremmo ricordarli tutti e tutte. Nome per nome. Ma la lista di quanti e quante hanno perso la vita in reparto in circostanze, per certi versi analoghe, è  interminabile. Le morti in spdc (Servizi psichiatrici diagnosi e cura) esprimono realisticamente lo stato dell’ arte della democratica psichiatria post manicomiale a più di 40 anni dall’ entrata in vigore della legge 180. La mesta continuità con cui si verificano evidenzia la contraddizione di una presa in carico giustificata dalla cura del paziente, che passa attraverso la coercizione, la disumanizzazione, il panottismo.

Come mai una pratica, che la legge contempla come eccezione e rispetto alla quale ha elaborato protocolli d’ applicazione, viene esercitata con sistematicità e in modo assolutamente “discrezionale” ? I reparti ospedalieri restano non luoghi di rimozione della coscienza collettiva. Universi concentrazionari  dove si consuma ferocemente la separazione fisica e concettuale tra sani e malati. La segregazione  a cui i/le pazienti sono sottoposti/e  registra quanto ancora sia in voga il paradigma manicomiale. Quanto la psichiatria  declini il proprio intervento in chiave custodialistica. Quasi a voler ancora salvaguardare le relazioni sociali dalla contaminazione con lo stato morboso.

Inoltre, in nome della tanto sbandierata sicurezza, ogni stanza è dotata di telecamera, collegata ad un pannello situato in un luogo centrale del reparto. Dietro al monitor si presume esserci un infermiere/sorvegliante. Viene da chiedersi: come mai la tecnologia a disposizione del personale  si è rivelata inefficace circa lo scopo per la quale è stata impiegata? Perché non ha messo in sicurezza i pazienti? In verità dietro alle lenti si rifrange l’occhio clinico, programmato per registrare quei comportamenti “utili” all’economia delle diagnosi. Proprio le pratiche che sussistono nei reparti  rivelano i motivi economico politici a suffragio dei neo manicomi. Non luoghi deputati a dar visibilità alla malattia mentale. A dargli un nome che rientri nella tassonomia diagnostica. Il tema della sicurezza è una scusa per aggirare la normativa sulla privacy. Un alibi utile ad accreditare l’ associazione tra comportamento deviante e valutazione clinica.

Ciò che viene comunemente percepito come una misura di tutela, si rivela così un buon strumento per definire con più enfasi, il profilo patologico del paziente. D’altronde, quest’ ultimo potrà impugnare le riprese video a crimine già avvenuto, quando è ormai vittima conclamata di un abuso. La storia di Mastrogiovanni dice forse qualcosa?

La 180 è una rivoluzione tradita. Oggi dei suoi principi ispiratori non resta che la retorica. Eppure, dalla lettura del presente, emergono le stesse contraddizioni di sempre!
La triste vicenda di Elena non può esser archiviata come un incidente o un episodio di malasanità. Fermare le morti in spdc vuol fare i conti con i diritti negati, con lo stato d’ abbandono che vivono i/le pazienti. Una deprivazione che si esprime ad un livello fisico, affettivo, quanto giuridico.
“…E dunque, non chiedere mai per chi suona la campana: suona per te” .

La morte di Elena è un fatto che riguarda tutti. Per questo viene spontaneo scandire, anche con rabbia, due parole: verità e giustizia.
La morte di Elena è un ulteriore crepa, nel muro di menzogne e complicità, che la psichiatria clinica erige intorno alle proprie pratiche e alla propria cultura.

BASTA MORTI NEI REPARTI PSICHIATRICI!!
Alcune persone di Bergamo – il Collettivo Antipsichiatrico Antonin Artaud di Pisa

domenica 8 settembre 2019

FIRENZE VENERDI’ 20 SETTEMBRE alle ore 18

All’interno della 9° edizione della Vetrina Anarchica e Libertaria c/o  Tuscany hall                 
(ex Obihall) via Fabrizio De Andrè angolo Lungarno Aldo Moro 

La Biblioteca Franco Serantini Edizioni e il Collettivo Antipsichiatrico Antonin Artaud presentano:“DIVIETO D’INFANZIA. Psichiatria, controllo, profitto.”

a cura di Chiara Gazzola e Sebastiano Ortu, edizioni BFS
Saranno presenti gli autori.
per info e programma completo della Vetrina:
https://www.autistici.org/ateneolibertariofiorentino/vetrina.htm

mercoledì 4 settembre 2019

Ricordando Elena Casetto

Simona Vinci ricorda Elena Casetto
Una vicenda ancora da chiarire. Ma senza dubbio drammatica, angosciante. La morte della giovane Elena Casetto, nemmeno ventenne, bruciata mentre era legata al letto d’ospedale, ha scosso moltissime persone, compresa la scrittrice Simona Vinci (autrice, tra gli altri, del romanzo Dei bambini non si sa niente, vincitore del Premio Elsa Morante e tradotto in dodici paesi) che dopo aver letto la notizia ha pubblicato un post sulla sua pagina Facebook che vi proponiamo integralmente.

IL POST DELLA SCRITTRICE
“Elena Casetto. Osio di Sopra. Senza nessuna vergogna o freno inibitorio, tale era il bisogno di saperne di più, l’ho cercata sui social e ho fatto una ricerca google ma in rete, le uniche tracce eloquenti riguardo questa ragazza che avrebbe compiuto vent’anni a ottobre – lo riporta un comunicato redatto da qualcuno che evidentemente qualcosa in più lo sa – sono la data e le circostanze della sua morte: 13 agosto 2019, ore 10, torre 7 piano III del reparto di psichiatria – anzi: “servizio del territorio” – dell’ospedale GIovanni XXIII di Bergamo, morta carbonizzata senza che nessuno facesse in tempo a salvarla nonostante i numerosi tentativi.
Le fiamme pare siano divampate proprio dalla stanza nella quale la ragazza, sedata, era legata – negli articoli si legge “bloccata” – a un letto di contenzione per uno “stato di grave agitazione” e da più parti si legge che “pare” sia stata proprio lei – sedata e legata! – ad appiccare l’incendio, ma non sia ancora come. Sherlock Holmes vorrebbe resuscitare per esaminare il caso e risolvere l’enigma.
Da qualche altra parte ho letto un macabro dettaglio: che i resti del suo corpo sono stati ritrovati a terra, una gamba ancora legata con una cinghia al letto. È la fantasia a briglia sciolta del cronista? È la terribile realtà? Come si può morire in questo modo? Come si può aver vissuto, in quel modo, mi chiedo io. Diciannove anni. Chi era questa ragazza, che sofferenze deve aver patito, quali danni subito e quale destino le è toccato, mentre era letteralmente nelle mani di chi avrebbe dovuto sor-VEGLIARLA, accudirla, aiutarla. È possibile che nel 2019 dopo tutte le battaglie fatte in nome della libertà e della dignità di ogni singolo individuo – soprattutto se sofferente – e anche se “pericoloso per sé e per gli altri” – si possa morire bruciati e legati a un letto di contenzione?
Le indagini sono in corso, ne sapremo di più, per ora quello che sappiamo è che se la pratica della contenzione meccanica è normata per legge in maniera molto restrittiva e deve essere utilizzata solo come extrema ratio, in realtà in molti “reparti” psichiatrici degli ospedali italiani si pratica eccome. C’è un profilo senza volto e senza informazioni su Fb che risponde al nome di Elena Casetto. Il buio, il nulla, il vuoto. Se davvero questo è il nome della ragazza e se è lei ad essersi registrata, sarebbe stato molto meno angoscioso e atroce trovarci dei fiori su quella home, dei gattini, una frase, i versi di una canzone, un selfie, piuttosto che quell’identità pencolante, allusiva ma muta. Una specie di monito: ci sono ma non esisto. È questo che grida la sua morte”.
da qui

Elena “la poetessa” morta bruciata in ospedale – Manuela D’Alessandro
“Le nostre strada sono sconnesse/ i nostri figli ridotti in schiavitù / I nostri cuori senza amore/ Ho paura di restare”. Nei versi della poesia intitolata ‘Terra de bandidos’ con cui vinse un premio,  Elena Casetto, morta carbonizzata a 19 anni in un letto del reparto di psichiatria dell’ospedale ‘Papa Giovanni’ di Bergamo, esprimeva la paura di restare in Brasile, il paese di origine della madre.  La sua fine invece è arrivata il 13 agosto in Italia, dove aveva raggiunto la madre India, 47 anni, in circostanze ancora tutta da chiarire.  E’ in corso un’indagine della Procura di Bergamo per omicidio colposo a carico di ignoti e, nei giorni scorsi, sia il ‘Garante nazionale delle persone detenute o private della libertà personale’, che si  è costituito parte offesa nel procedimento, sia la Regione Lombardia, attraverso una commissione di verifica, hanno chiesto di accertare la verità. “Elena  sognava di studiare filosofia ad Amsterdam o a Londra e dedicarsi alla poesia e alla musica – racconta all’AGI Gege Silva, amico brasiliano della ragazza e della mamma, che non lascia un attimo in questi giorni di dolore  – Ha vissuto per sette anni a Salvador de Bahia da sola, studiava ed era autonoma. Suo padre, italo-svizzero, è morto nel 2012. Non ha mai tentato di suicidarsi quando era lì, come è stato scritto dai giornali, anche se offriva di ansia in modo molto forte”. Nei mesi scorsi, la madre l’aveva convinta a raggiungerla in Italia e avevano affittato un appartamento a Osio Sopra, vicino a Bergamo. L’8 agosto Elena ha tentato il suicidio. “Voleva buttarsi giù da un ponte ma è stata fermata dai carabinieri. Ricoverata prima a Brescia, è stata poi portata nell’ospedale di Bergamo. Quando la mamma è andata a trovarla, l’ha trovato in sedia a rotelle e imbottita di farmaci e ha chiesto ai medici di portarla via da lì. Per spiegare com’era Elena, un giorno ha domandato alla madre di portarle da casa i trucchi perché voleva  ‘sistemare’ le altre pazienti. L’11 agosto, Elena aveva implorato la madre di essere portata a casa dicendole di non essere pazza e che si sentiva trattata male’. Questo messaggio si trova nel cellulare di Elena che è stato sequestrato”. La mattina del 13 agosto, Elena prova di nuovo a  togliersi la vita, stavolta stringendosi un lenzuolo al collo. Viene salvata da due infermieri che decidono di sedarla e contenerla. In queste situazioni, il protocollo prevede che ogni 15 minuti il paziente venga sorvegliato visivamente e ogni 30 minuti per controllare i parametri vitali. Da fonti ospedaliere si è appreso che l’allarme  anti-incendio è scattato intorno alle 10. Elena è stata trovata dai Vigili del Fuoco bruciata nel suo letto. “Aveva un braccio e una gamba ancora legati, mi è stato detto – racconta Gege – tanto che io non me la sono sentita di fare il riconoscimento del corpo che mi era stato chiesto. L’incombenza è toccata all’avvocato”.  Dall’autopsia è emerso che la ragazza aveva sul corpo un accendino bruciato, col quale potrebbe avere appiccato le fiamme, anche se è da capire come sia stato possibile che l’abbia fatto da legata. Va tenuto anche conto che i materiali erano ignifughi.  Nei reparti di psichiatria, è possibile fumare ma sotto sorveglianza. E’ possibile che la ragazza abbia nascosto l’accendino nelle parti intime. L’indagine condotta dal pm Letizia Ruggeri, che ha sequestrato per qualche giorno il reparto di psichiatria, dovrà chiarire se ci siano stati deficit di sorveglianza da parte del personale sanitario o se qualcosa non abbia funzionato nella prevenzione e nella gestione dell’incendio a livello di organizzazione. “La morte di una giovane donna  ci addolora profondamente – hanno fatto sapere dall’ospedale dopo la morte di Elena – abbiamo espresso alla famiglia tutta la nostra vicinanza e continueremo a stare vicini a chi ha vissuto questo dramma. Attendiamo l’esito degli accertamenti in corso”. Molte persone si sono rivolte ai familiari per rivolgere solidarietà e pagare le spese del funerale di Elena. La sua morte ha riattivato i dibattito sulle contenzione dei malati e sulla sorveglianza negli ospedali. I promotori della campagna nazionale ‘E tu slegalo subito’ hanno scritto una lettera alle autorità regionali e governative chiamate a vigilare sulla salute in cui riconoscono “le difficoltà nelle quali versano gli operatori dei servizi, che lavorano spesso in condizioni di carenza di organico” ma sottolineano che “se la giovane Elena non fosse stata legata non avrebbe trovato quell’orribile morte”.  “Ci ricorderemo di te felice, piena di gioia e con la certezza che l’amore per il prossimo, la natura, la musica, la poesia, possa farci vivere nella speranza di un mondo migliore”,  ha scritto la madre sul suo profilo Facebook, restituendo il volto sorridente alla figlia che sul social era iscritta ma non aveva mai messo una sua fotografia.

fonte: http://www.labottegadelbarbieri.org

Fabrizio e Lucia liberi ora!

Riceviamo dal Collettivo Artaud e condividiamo:

Il dott. Fabrizio Cinquini e sua moglie Lucia Pescaglini sono entrambi stati privati della libertà personale: lui è detenuto nel carcere “lager” medioevale di san Giorgio di Lucca (di cui continueremo a chiedere la chiusura per l’indegnità della struttura per tutti e tutte i reclusi e le recluse), lei agli arresti domiciliari.

Cinquini e la moglie sono accusati di detenzione ai fini di spaccio di sostanze stupefacenti, in particolare cannabis.

Conosciamo bene il dottor Cinquini, spesso abbiamo collaborato insieme e ci siamo informati sull’accaduto. Il risultato è paradossale perché questa pare essere, a nostro avviso, una vera e propria persecuzione. La caserma dei carabinieri di Marina di Pietrasanta ha (volutamente?) “confuso” per cannabis illegale, della canapa regolarmente denunciata e già inventariata nel precedente provvedimento penale di giugno sempre nei loro confronti. A questo si aggiunge il sequestro di denaro, di cui era in possesso perché gli era appena stato dissequestrato nell’ambito del precedente provvedimento.

I militari dell’Arma si sono introdotti in casa del dottor Cinquini come se entrassero in casa di un criminale e non di un uomo che esercita la professione medica con una coerenza ed una abnegazione decisamente superiori alla media.

Cinquini si trova in carcere per burocrazia e proibizionismo e l’indagine che nuovamente lo coinvolge toglie risorse a tutti noi, arricchisce le mafie e tiene un uomo dietro le sbarre per oltre 40 giorni, in attesa di un’analisi che, siamo certi, confermerà trattarsi di cannabis light perfettamente in regola con l’attuale normativa.

Cinquini in questi anni ha aiutato migliaia di pazienti a reperire cannabis terapeutica a basso costo, autodenunciandosi, e pagando per questo, per mostrare a tutti l’assurdità della precedente legge Fini-Giovanardi sulle droghe (cancellata per incostituzionalità nel 2016).

Cinquini è uno dei massimi esperti di cannabis terapeutica al mondo, in un’Italia che invece di valorizzare e finanziare il suo lavoro lo arresta a causa dell’incapacità e dell’arroganza dell’apparato repressivo, che ritiene questo medico un delinquente perché si ostina a produrre alcune (poche) piante destinate alla madre malata di Alzheimer e di amici gravemente ammalati. Quelle che aveva erano peraltro in stadio vegetativo e quindi prive di THC.

Cinquini è soltanto un medico che ha fatto un giuramento, conosce le potenzialità dei principi attivi della cannabis e quindi sente il dovere morale di aiutare chi sta male.

L’Osservatorio antiproibizionista-Canapisa crew e il collettivo antipsichiatrico Antonin Artaud di Pisa, sostengono con forza le attività del dottor Cinquini e chiedono che possa attendere il processo (assurdo) al di fuori del carcere lager di san Giorgio. Non avendo commesso alcun reato ci dovremo far carico tutti noi del risarcimento a carico dello Stato per l’ennesima e ingiusta detenzione ad opera di giudici che non conoscono neppure le leggi che dovrebbero far applicare (in questo caso la 242/16).

Tutta questa confusione, quest’accanimento giudiziario, non a caso si esprime su un medico che si oppone da sempre alla lobby del mercato farmaceutico ed ha un approccio medico decisamente contrario all’uso di psicofarmaci, qualora non sussista un pericolo concreto: un medico che offre prima di tutto il suo tempo, il suo ottimismo, il suo sorriso, per motivare le persone a diventare medici di sé stessi e curarsi attraverso lo stile di vita sano.

Cinquini e la moglie sono il contrario di persone socialmente pericolose: sono 2 intellettuali che hanno aiutato migliaia di persone gratuitamente e senza pretendere nulla in cambio.

Come Osservatorio antiproibizionista-Canapisa crew e come collettivo antipsichiatrico Antonin Artaud, siamo molto preoccupati per la lunga detenzione di una persona che ha già raccontato in un libro (Dottor cannabis. La storia di un medico antiproibizionista - Ediz. Dissensi 2016), gli abusi subiti in quella struttura carceraria.

Come Osservatorio antiproibizionista-Canapisa crew e come collettivo antipsichiatrico Antonin Artaud, troviamo inaccettabile che in attesa della fine delle ferie dei laboratori forensi si debba accettare che un uomo per bene e sua moglie siano privati della libertà personale. Il loro caso dimostra ancora una volta in modo esemplare la stupidità del proibizionismo.

Come Osservatorio antiproibizionista-Canapisa crew e come collettivo antipsichiatrico Antonin Artaud, chiediamo alle forze dell’ordine di occuparsi di quei profili criminali che davvero provocano danni e hanno un costo per l’intera collettività e di lasciare in pace la famiglia Cinquini che per l’ennesima volta si trova ristretta senza aver fatto del male a nessuno.




Fabrizio e Lucia liberi ora!



Osservatorio antiproibizionista-Canapisa crew
www.osservatorioantipro.org

Collettivo antipsichiatrico Antonin Artaud
artaudpisa.blogspot.com _______________________________

domenica 1 settembre 2019

Intervista Collettivo SenzaNumero

Intervista con il Collettivo SenzaNumero su Radio Onda Rossa per la presentazione del giornale a-periodico antipsichiatrico.
Clicca sul link sotto e buon ascolto.

Intervista Collettivo Senzanumero

link Radio Onda Rossa: https://www.ondarossa.info/

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