lunedì 27 luglio 2020

Liberiamo la salute

Intervento del collettivo nell’ambito del Convegno CO.CO.CO “Convivi col Covid”, Tavole rotonde col virus al centro.

Chi siamo
Il collettivo raccoglie/unisce operatrici e operatori, educatrici ed educatori, infermiere e infermieri critici, individualità e sensibilità coinvolte e solidali, impegnate nel dibattito sull’antipsichiatria con la Rete NoPsichiatria, con la Rete Oltre i Recinti nel dibattito su relazioni e collettività fuori dallo spazio normativo dell’istituzione, e con la Rete di iniziativa anticarceraria, contro repressione, carcere e Cpr.
Siamo un collettivo di sostegno e auto-mutuo aiuto, non ci sono ‘esperti’ nel gruppo, piuttosto si condividono esperienze e saperi nell’ascolto reciproco, partendo da ciò che ognuna sa e da ciò che si è vissuto come persone coinvolte e solidali, e/o come tecnici critici all’interno delle istituzioni (sanitarie, socio-sanitarie, educative o di disagio sociale).
Quanto più saperi e vissuti sono resi accessibili tanto più le risposte possono essere efficaci, come collettivo è questo quello che ci anima.
Partendo dalle riflessioni del collettivo antipsichiatrico AltreMenti di Xm24 abbiamo deciso di portare avanti azioni e riflessioni comuni su salute, medicina, educazione, contro reparti,  strutture, carceri, CPR, istituzioni totali normalizzate dove il bisogno diventa profitto e controllo, e in cui si consuma la repressione di quantx vengono consideratx marginalx e/o non performanti rispetto alle necessità della società della prestazione, della produzione e del capitale.
Crediamo nella possibilità di creare legami nuovi liberi dal controllo in un’ottica di reciproca cura, ci sforziamo di sostenere tutte quelle realtà e individualità che rifiutano la coercizione come possibilità e lottano contro la repressione e l’oggettivazione dei bisogni delle oppresse e degli oppressi in questa società.
Il nostro sguardo è dichiaratamente libertario perché anti-autoritario, contro lo sfruttamento dell’unx sull’altrx.

Tecnico come addetto all’oppressione. Scienza, capitalismo e sfruttamento

Viviamo in una realtà dove ormai il “benessere” (di alcuni) e il “progresso” (del sistema capitalistico) hanno consentito l’istituzionalizzazione di ogni aspetto della vita e fatto collassare tutti i legami sociali.
Si va verso la società dell’algoritmo.
L’alienazione è funzionale all’ottimizzazione del profitto da parte di chi detiene il potere. Ridurre la fludità dei discorsi per separarli, renderli misurabili, prevedibili, quindi controllabili ai fini produttivo-capitalistici. Deresponsabilizzazione e frammentazione. Alienazione. Oggettivazione delle relazioni, mercificazione fin anche delle coscienze.
Gli anni ’80 hanno “asfaltato” tutto quel proliferare di cultura-pensiero collettivo emerso negli anni ’60/’70. La repressione dei movimenti sociali ha visto così anche la fine del movimento anti-istituzionale e relegato tutto il sapere prodotto dall’epoca in una sfera “utopistica”.
Siamo convint* che oggi, dato il sentimento di lotta che sta attraversando molte coscienze, abbiamo la responsabilità di riprendere e recuperare il discorso dov’era stato lasciato.
Oggi piu che mai dobbiamo lavorare ad una comunità critica se vogliamo demolire i paradigmi dello sfruttamento con cui ci tengono incatenatx tutti e tutte.
L’istituzione agisce a più piani: all’alienazione delle persone istituzionalizzate segue quella degli ‘operatorx-operax’: lavoratori ricattati dal salario e dalla gabbia istituzionale senza nessuna reale libertà “operativa”, oppure allineati al pensiero dominante spersonalizzante che vede professionalità sempre più normative al servizio di istituzioni sempre più oggettivanti e repressive. Lo abbiamo visto in molte, troppe, situazioni di abuso e omertà all’interno di reparti, strutture, istituzioni. 
“Se il tecnico professionale è il funzionario – consapevole o inconsapevole  –  dei  “crimini  di pace” che si perpetrano nelle nostre istituzioni, in nome dell’ideologia dell’assistenza,  della  cura,  della  tutela dei malati e dei più deboli, o in nome dell’ideologia  della  punizione  e  della riabilitazione,  può  essere  utile  mettere in piazza, non solo lo stato di violenza e  arretratezza  –  ancora  reale,  ancora pressochè identico – delle nostre istituzioni repressive quanto i meccanismi  attraverso  cui  la  scienza giustifica e legittima queste istituzioni? E queste conoscenze possono diventare patrimonio della classe subalterna, così che  fra  le  sue  rivendicazioni  essa  esiga una  scienza,  da  essa  controllata,  che risponda  ai  suoi  bisogni,  consapevole dei  modi  e  dei  meccanismi  attraverso cui la scienza borghese può continuare anon  rispondervi?”
“La posta in gioco è ora il rapporto tra il tecnico, la scienza e la sua pratica “di cui le masse sono l’oggetto”, una volta che il tecnico-   in particolare   quello delle scienze  umane  –  abbia  riconosciuto che il suo ruolo, in questo sistema sociale, è quello di manipolare il consenso attraverso  le  ideologie  che  egli  stesso produce e mette in atto.   Che gli intellettuali  e  i  tecnici  di  una  società borghese, così come tutte le sue istituzioni, esistano per salvaguardare gli interessi,  la  sopravvivenza  del  gruppo dominante e i suoi valori, è cosa ovvia. Ma non è altrettanto automatico riconoscere  e  individuare,  nella  pratica quotidiana, quali siano i processi attraverso  i  quali  gli  intellettuali  o  i tecnici continuano a produrre – ciascuno nel  proprio  settore  –  ideologie  sempre nuove che mantengono  inalterata  la  loro  funzione di manipolazione e di controllo. Il tecnico borghese vive una condizione di alienazione da cui può uscire rompendo la condizione di oggettivazione  in  cui  vive  l’oppresso.  Il modello che il tecnico rappresenta automaticamente nella logica del capitale  è  il  passaggio  dall’oppressione all’alienazione,  cioè  l’identificazione  da parte della classe oppressa nei valori che egli  esprime  e garantisce.  E’  quindi  solo dalla  ricerca  di  uno spazio reciproco di soggettivazione  che  possono  scaturire  i bisogni  e,  insieme,  il  tipo  di  risposte necessarie,  ed  è  nella  comune  ricerca  di una  liberazione  pratica  che  il  tecnico tradisce il   proprio committente.   In questo caso,   il   ruolo,   la classe di appartenenza,  il  prestigio  lo  tutelano relativamente agli occhi del committente tradito, perché egli smaschera i meccanismi attraverso cui le ideologie sono strumenti di manipolazione e di controllo, insieme alla stessa classe manipolata e controllata. Il  che  significa  mettere  in  piazza  i segreti di famiglia, quelli che di solito conosce  solo il  padre  e  che  neppure  i figli devono sapere,altrimenti avrebbero poco rispetto per il padre e per la famiglia.”*
Queste parole tratte dal libro “Ricerche sugli intellettuali e sui tecnici come addetti all’oppressione” a cura di Franco Basaglia e Franca Ongaro (1975) dove hanno preso parola ai tempi molti tecnici critici, sono tra le domande che hanno mosso la nostra riflessione fin dall’inizio.

Oltre la dicotomia salute/malattia

“Bisogna capire che il valore dell’uomo sano e malato, va oltre il valore della salute e della malattia; che la ‘malattia’  come  ogni  altra contraddizione  umana  può essere usata  come  occasione  di appropriazione  o  di alienazione di  sé,  quindi  come  strumento  di liberazione o di dominio.”
“La malattia,  nel  diventare  di  pertinenza esclusiva  di  una  medicina  organizzata come corpo separato, non è che l’espressione  dell’organizzarsi  del  corpo sociale   a partire   dalla divisione   del lavoro e dalla divisione in sfere separate di tutti i fenomeni umani.”
” ‘Salute’ e ‘malattia” non possono più essere  considerati  fenomeni  naturali, ma  sono  questioni  che  chiedono  – entrambe  – uno  sguardo  storico  e critico. 
Se  il  problema  della  malattia  mentale ha aperto la strada,   attraverso le trasformazioni   de-istituzionalizzanti, adesso la battaglia riguarda lo smontaggio del   paradigma di una società medicalizzata”.
Così scriveva Franca Ongaro nel suo ‘Salute/malattia, le parole della medicina nel 1982. 
Il sapere tecnico, l’industria della cura, oggi non si diversifica più dai prodotti industriali, la sua riduzione a merce segue le leggi del mercato, il corpo, così come il sapere, per passare il filtro istituzionale-accademico deve essere fruibile all’economia di Stato, quindi “spendibile” e perciò aproblematico.
Verrebbe da domandarsi cosa intendiamo per salute, malattia, collettività e se ci interessa prendere parola.
Ci interessa la salute di chi? La salute per chi? Per chi detiene il potere? Per gli oppressi e le oppresse?
Riconosciamo il nostro posizionamento? Privilegi di ognuna ognuno?
Che strumenti mettiamo in atto per proteggerla, sostenerla, quali lotte?
La coercizione in ambito sanitario diventa legittima?
Sappiamo interrogarci sul modo in cui le nostre società intendono gestire/controllare la nostra relazione con la vita, quindi con la salute, con la malattia, con la sofferenza, col dolore?
Ci accorgiamo oggi di non avere molte voci critiche, di avere difficoltà nel reperire informazioni corrette affidabili e non pregiudiziali, oltre che voci in grado di smascherare i piani di potere su cui si fonda il paradigma medico. Il controllo repressivo è piu forte dove l’istituzione viene messa meno in discussione dalla collettività. 
Non possiamo accettare che la salute delle oppresse e degli oppressi diventi un’occasione per sperimentare nuove forme di repressione e militarizzazione delle nostre città.
Crediamo che in questi mesi durante i quali tutti abbiamo sperimentato una qualche forma di isolamento imposto, abbiano messo in luce la necessità da parte dei movimenti o piu in generale di chiunque si opponga a questo esistente di affrontare temi quali la riappropriazione e l’autogestione della salute e dei corpi a fronte di una palese espropriazione delle capacità decisionale e di autodeterminazione del sé, il tutto con una delega assoluta e spesso non volontaria al potere del tecnico, dell’esperto, della scienza che mai come oggi mette in luce la sua assoluta parzialità, la sua fallibilità il suo essere, nell’attuale contesto socio economico strumento al servizio e plasmato dal potere.

Infantilizzazione/psichiatrizzazione del corpo sociale

Il processo di infantilizzazione delle comunità e degli individui che le compongono è palese.
In nome di una generale irresponsabilità collettiva, lo Stato nella sua peggiore veste paternalistica ha gestito a suon di decreti l’ennesima “emergenza”. Il tutto intriso dalla retorica patriottica e nazionalista, del ‘siamo tutti sulla stessa barca’, un’unità necessaria alla narrazione spettacolare

domenica 26 luglio 2020

Di botte, di farmaci e di morti al CPR di Gradisca

Fonte: https://evasioni.info
Tratto da https://nofrontierefvg.noblogs.org/post/2020/07/18/di-botte-di-farmaci-e-di-morti-al-cpr-di-gradisca/

DI BOTTE, DI FARMACI E DI MORTI AL CPR DI GRADISCA

18/07/2020

6 mesi dalla morte di Vakhtang, 4 giorni dalla morte di un’altra persona.

DI BOTTE, DI FARMACI E DI MORTI AL CPR DI GRADISCA
Anche questa volta, la prima versione della notizia della morte di un giovane di 28 anni nel CPR di Gradisca è quella di una rissa tra detenuti, seguita poi dalla versione più in voga al momento: la morte per overdose.
Fino a prima della lunga serie di rivolte dei detenuti nelle carceri italiane del marzo scorso, una delle versioni preferite da polizia e quindi dai media era “edema polmonare”, così per Stefano Cucchi, così per Vakhtang Enukidze, entrambi morti in seguito ai pestaggi dei loro carcerieri, nonostante il capo della polizia Gabrielli abbia trovato “offensivo” il paragone.
Le sommosse di marzo in oltre trenta carceri italiane vengono sedate al prezzo di 14 morti sul groppone dello Stato – i secondini circondano le carceri armi in pugno, a Modena i parenti hanno riferito di aver sentito distintamente spari – che si affretta a a comunicare che i decessi sono stati causati “per lo più” da overdose di psicofarmaci e metadone. Da quel momento è un continuo. Solo per rimanere qui da noi, il 15 marzo scorso dentro il carcere di via Udine muore Ziad, un prigioniero di 22 anni a seguito della somministrazione di metadone e psicofarmaci in dosi eccessive, una settimana fa muore nel carcere del Coroneo di Trieste Nicola Buro, ufficialmente per arresto cardiaco, “che potrebbe essere stato causato da un abuso di farmaci”.
Ora è toccato a un uomo albanese rinchiuso al CPR di Gradisca, morto tre giorni fa, quando anche a un suo compagno di stanza, poi ricoverato, stava per toccare la stessa sorte.
Si scatena subito tra i soliti media locali la gara a riportare la versione che dipinga al meglio la prefettura: prima una rissa, poi ogni sforzo viene devoto a creare l’immagine dei detenuti-tossici (si sa, il posto dei tossici dovrebbe essere la galera) e dello smercio di sostanze all’interno del CPR. Il Prefetto Marchesiello dice che va tutto bene e sotto controllo (e ci mancherebbe, tanto i migranti posso andarsene quando vogliono, come diceva a gennaio in un’intervista), la sindaca DEM Tomasinsig constata con la consueta retorica democratica che “in quella struttura ci sono numerose persone con alle spalle una storia di problemi psichici, o di dipendenze” (quindi è normale che finiscano dove sono), un ex dipendente del vecchio CIE racconta che “c’è chi ricorre ai farmaci puramente per “sballarsi” ed ammazzare il tempo” (tanto non hanno altro da fare) e, ciliegina sulla torta, la testimonianza anonima di un esperto poliziotto che parla di “sotterfugi”, “favori tra detenuti” e “mercati interni”. Al giornalista naturalmente sfugge il fatto che ognuna di queste figure è interessata e parte attiva del mantenimento del campo di deportazione di Gradisca.
Il punto non è se e quanti psicofarmaci ogni detenuto assume, il loro utilizzo non è mai stato un “mistero” all’interno delle strutture di reclusione.
Il problema semmai è l’esistenza di istituzioni totali di reclusione e annientamento quali sono le carceri e i CPR, con il loro portato di violenze, umiliazioni, abusi e morte.
Galere e CPR sono accumunati dall’uso di metodi “soft” come la somministrazione di farmaci, spesso all’insaputa dei detenuti o in dosi sproporzionate, utili alla sedazione di quegli individui più inclini a rivoltarsi.
Non ci stanchiamo di ripetere che tutto questo è materialmente realizzabile non solo grazie alla locale Prefettura, all’esercito e alle varie guardie in tenuta antisommossa sempre pronte a picchiare duro ad un fischio dei secondini-operatori della Cooperativa EDECO (ormai con tre morti nel pedigree, non si dimentichi Sandrine Bakayoko morta a Conetta nel 2017), ma anche grazie agli/le infermeri/e, alle operatrici legali, e tutti quei collaboratori indispensabili al funzionamento del lager.
Infine due parole sulla cosidetta Garante comunale dei detenuti Giovanna Corbatto: la notizia della sua visita al CPR viene diffusa su tutti i media diversi giorni prima della data da lei concordata con la Prefettura, quando – dato il suo ruolo – sarebbe potuta entrare nel CPR senza preannunciarsi, verificando così meglio le reali condizioni del campo. Di sicuro in questo modo non potrà vedere il sangue che ricopriva il cuscino e il pavimento vicino al letto sul quale è morto l’uomo albanese, e che i suoi compagni di cella volevano fosse visto, come non potrà vedere molti altri particolari non ripresi dagli “occhi” della videosorveglianza.
Ai rinchiusi/e va la nostra solidarietà.
Che i muri di tutti i CPR possano cadere!

giovedì 23 luglio 2020

C'è chi i manicomi li libera e chi invece li inaugura

fonte: ex Opg liberato http://jesopazzo.org

di Giuliano Granato


Quando il 2 marzo 2015 sono entrato per la prima volta in quello che era stato un Ospedale Psichiatrico Giudiziario, e che oggi è l'Ex Opg Je so’ Pazzo!, sapevo ben poco di cosa fosse un “manicomio”. Ne avevo l’immagine che avevo preso dai film, da qualche articolo, da qualche chiacchierata con psichiatri.

Dopo i primi giri per quel luogo sconfinato i cui corridoi facevano paura nell’abbandono cui erano stati lasciati, mi sono messo a studiare. Mi sono immerso in letture che mi consigliavano. Qualcosa di taglio più storico, qualcosa che indagava la struttura repressiva di quei luoghi. Ciò che però mi colpì più d’ogni altra cosa fu la lettura di testi scritti da ex internati, che raccontavano la propria storia, la propria reclusione, le torture subite., il "bello" che malgrado tutto quelle istituzioni totali non erano riuscite a strappare dalle loro anime. I primi mesi sono stati frenetici per attività portate avanti, incontri, presentazioni di libri.

Sono nate traiettorie che a distanza di tempo avrebbero dato vita a nuove ricerche, come quella di Antonia Bernardini sviluppata da Dario Stefano Dell'Aquila e Antonio Esposito, il cui spunto è nato da una mimosa che piantammo l’8 marzo 2015 e che dedicammo a lei, internata morta bruciata, legata al letto, nel manicomio femminile di Pozzuoli, reclusa per aver risposto male a un agente della Polfer.

L’incontro più segnante fu quello con Sabatino Catapano, scomparso da poco. Venne all’Opg, ci parlò della sua esperienza, gli orrori, la capacità di resistere. Ricordo perfettamente che alla famiglia di un altro internato, scioccata dallo stato in cui aveva ritrovato il proprio caro, suggerì di ritornare a brevissimo, di non lasciar passare tempo, di non lasciarlo solo. “Perché altrimenti arriva la morte” – disse.




E arriviamo a questi giorni. A un altro annuncio in pompa magna del Presidente De Luca, che ha sbandierato l’inaugurazione di una residenza psichiatrica ad Arzano. De Luca si gonfia perché si tratta della “più grande” struttura di questo tipo. 40 posti contro strutture più piccole, che al massimo possono contenere 20 persone.

Eppure, se De Luca avesse studiato un po’ saprebbe che non c’è proprio nulla di cui vantarsi. La “più grande” residenza psichiatrica è semplicemente un “deposito pacchi” più grande di quelli esistenti. Un luogo che ripropone la stessa logica del manicomio. La caratteristica fondamentale è quella dell’isolamento dei pazienti. Loro dentro e tutto il mondo fuori.
Io l’ho imparato da Sabatino che la cosa forse più importante è la comunità. E quello che ho appreso da Sergio Piro è che il contatto umano è ciò di cui un essere umano ha più bisogno. Legami, contatto, ascolto… Esattamente l’opposto del modello che De Luca ha celebrato.

De Luca è uno che esalterebbe la Bastiglia se solo fosse stata più grande. Perché non vede la sofferenza e l’oppressione, ma solo la metratura. Forse può essere un buon agente immobiliare – non me ne voglia la categoria, che tra l’altro spesso suda in situazioni difficilissime!, ma il Presidente di una Regione come la Campania proprio no...

sabato 18 luglio 2020

Presidio per Alice

Segnalazione del Collettivo Artaud

http://www.ondarossa.info/newsredazione/2020/07/psichiatria-presidio-alice

dai microfoni di Radio Onda Rossa come collettivo antipsichiatrico
Antonin Artaud torniamo sulla vicenda di Alice una ragazza di 26 anni
rinchiusa che il padre non riesce a vedere dal giorno del ricovero. Con
lui abbiamo organizzato un presidio. Di seguito la lettera del padre.

https://artaudpisa.noblogs.org/post/2020/05/29/lettera-di-denunica-di-u

Commentiamo anche la proposta del ministro Speranza di fare il TSO a chi
non vuole sottoporsi al ricovero causa Covid.

https://artaudpisa.noblogs.org/

mercoledì 8 luglio 2020

Violentata e poi rinchiusa in un manicomio per bimbi: la storia di una 17enne

Jasmin, dopo una violenza sessuale, portata a forza in una comunità psichiatrica. Protesta fuori il Bambino Gesù per impedire che la ragazza venga “reinternata”.

Violentata e poi rinchiusa in una comunità psichiatrica, una sorta di manicomio per bambini, senza mamma e fratello. La storia della 17enne agita la popolazione facendo esplodere una protesta spontanea fuori dal Bambino Gesù dopo era stata portata per dei controlli.

Mercoledì sera infatti un gruppo di cittadini si è raccolto all’entrata del Pronto Soccorso dell’ospedale Bambino Gesù per chiedere la liberazione di Jasmin (nome di fantasia) scappata tre giorni fa dalla struttura dove era ricoverata. La ragazzina gridava a gran voce di volere la sua dottoressa di fiducia mentre la trascinavano dall’ambulanza al reparto, come ha riferito la mamma che ha dichiarato di non voler più accettare i trattamenti disumani a cui viene regolarmente sottoposta la figlia.
La storia di Jasmin
Jasmin, cittadina inglese, a seguito di una violenza sessuale e delle cicatrici di questa esperienza era stata trasferita per qualche mese in Italia dalla mamma per dimenticare e superare la violenza e i traumi subiti. La mamma si era rivolta ai servizi territoriali in cerca di aiuto. La ragazza desiderava solo parlare con un consulente personale, ma da lì è iniziato il suo percorso psichiatrico.
Diagnosticata immediatamente border line e dislessica (solo perché non parla bene l’italiano) la 17enne diventa oggetto di una serie di persecuzioni. La ragazza non è d’accordo, e la madre cerca dunque di opporsi a diagnosi e psicofarmaci, col risultato di perdere la responsabilità genitoriale. A questo punto per la ragazza, con un Decreto del Tribunale per i Minorenni, si aprono le porte per una deportazione coatta in una casa ad alto contenimento, un vero e proprio manicomio per bambini in cui viene segregata e subisce trattamenti invasivi, fino all’ultimo episodio in cui viene portata al Pronto Soccorso dell’Ospedale Bambino Gesù in condizioni di perdita di coscienza transitoria da ipo-perfusione cerebrale globale provocata dalla somministrazione di farmaci. L’avvocato ha denunciato anche periodiche aggressioni fisiche da parte di altri ospiti della struttura psichiatrica, ma dopo le cure in Pronto Soccorso Jasmin fu riportata nella stessa struttura.
La giovane poche ore dopo è scappata dalla comunità e si è data alla macchia. Dopo tre giorni di fuga, la mattina del 30 giugno, ha chiamato la madre. Si è fatta promettere che l’avrebbe difesa e che non avrebbe permesso che venisse internata nuovamente in comunità. La mamma le ha fatto questa promessa e Jasmin è tornata a casa. La mamma ha quindi avvertito le autorità che la ragazza si trovava al sicuro a casa sua. Purtroppo, a quanto riferisce la mamma, la ragazza sarebbe stata prelevata e portata con l’inganno al Bambino Gesù.
La Dottoressa Palmieri, informata della richieste della bambina, si è recata sul posto ed è riuscita ad incontrare i responsabili sanitari dichiarando ufficialmente la propria disponibilità a prendere personalmente in carico la ragazza insieme ad un team di professionisti che possono seguirla rispettando le volontà di Jasmin di essere seguita dalla sua dottoressa di fiducia e ricevere finalmente le cure di cui ha bisogno: ascolto, attenzione, disintossicazione e tutte le attenzioni della sua mamma e di suo fratello. Jasmin, in poche parole, potrebbe essere seguita fuori dal manicomio da professionisti di fiducia della famiglia. L’avvocato aveva già depositato nei giorni precedenti la richiesta che la ragazza fosse seguita così come desidera la famiglia, privatamente e da personale di fiducia. Invece, Jasmin continua a essere pesantemente sedata, trattenuta contro la sua volontà e contro la volontà delle persone che la amano e vogliono proteggerla.

La protesta fuori dal Bambino Gesù

Max Massimi era presente durante la protesta fuori dal pronto soccorso dell'ospedale Bambino Gesù, ha ripreso quanto accaduto ed ha lanciato il fatto attraverso i social a livello nazionale sulla sua pagina Facebook. Max, riportando quanto espresso dalla Professoressa Palmieri, ha dichiarato che “se Jasmin deve diventare un simbolo, se suo malgrado Jasmin deve diventare un simbolo, ebbene, Jasmin sarà il simbolo di questa lotta che da parte nostra sarà sempre più ferma. Non ci stiamo più. Giù le mani dai bambini, i bambini non si toccano! Tutti con Jasmin. Tutti con i 40.000 bambini vittime di questo sistema”.
Forse anche a seguito della protesta popolare, i sanitari hanno garantito alla Dottoressa di fiducia della famiglia che la bambina non è sottoposta a Trattamento Sanitario Obbligatorio, ma è solo trattenuta in osservazione. Purtroppo alle 7 di mattina, quando i cittadini si erano allontanati Jasmin è stata deportata nuovamente nella struttura da cui era fuggita.

 Segnalato da Senza Numero