martedì 31 luglio 2018

MEGLIO MORTI CHE MATTI

di: Giuseppe Bucalo
note a margine delle campagne per i diritti civili delle persone sottoposte a trattamenti psichiatrici
Ogni battaglia per il riconoscimento dei diritti civili, parte sempre dal riconoscimento dell'altro come soggetto inviolabile, responsabile e libero di scegliere.
Nel campo della libertà di scelta terapeutica ci si fa forti del diritto al rifiuto delle cure sancito dall'articolo 32 della Costituzione ("Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana") e si afferma che è nella libera e informata volontà dell'individuo, l'unica e sola giustificazione all'intervento terapeutico del medico.
La battaglia per il diritto alla libertà di scelta terapeutica ha prodotto in questi anni, fra l'altro, il riconoscimento del diritto di ciascuno a dettare disposizioni rispetto al proprio fine vita, rifiutando interventi che ne possano allungare, oltremodo e fuori dalla sua libera scelta, l'esistenza.
E' pacifico e, ormai, universalmente accettato che le persone debbano e possano avere diritto di scegliere se accettare o meno le cure proposte dai medici, finanche nel caso estremo in cui questa scelta li porti alla morte.
La determinazione dei paladini dei diritti civili e della libertà di scelta terapeutica si arresta solo di fronte alle cure psichiatriche.
Per l'ordinamento e il senso comune puoi scegliere di morire ma non di rimanere matto.
L'imperativo della cura psichiatrica (oltreché sancita dalla legge 180 che regola il TSO per "malattia mentale") è tale da fornire alla psichiatria una sorta di obbligo e di licenza ad agire con ogni mezzo a sua disposizione. Tant'è che i "limiti imposti dal rispetto della persona umana", sanciti dal dettato costituzionale, vengono spesso superati con il beneplacito e la comprensione da parte della magistratura e dell'opinione pubblica.
Eppure oltre un secolo di storia delle pratiche psichiatriche dovrebbe far sorgere il dubbio sulla inutilità, la crudeltà e la violenza di tali "cure" e sulla liceità della loro somministrazione coatta. Potrebbe dare a ciascuno il coraggio di dire con chiarezza che "cure" tanto invasive e diagnosi tanto stigmatizzanti, non possono mai essere poste in essere senza la richiesta esplicita e il consenso informato di chi le subisce.
Siamo stati capaci, come società scientifica, di assegnare il nobel per la medicina alla lobotomia e alla malarioterapia. Siamo stati capaci di dedicare un ospedale (quello di Lisbona) a chi ha sperimentato la lobotomia.
Siamo stati (e siamo) capaci, come società civile, ad assistere alla morte fisica, civile e sociale di migliaia di esseri umani rei solo di lesa realtà, di essere semplicemente se stessi e di non rispondere più alle aspettative di chi sta loro intorno.
Ma non riusciamo ancora a dire: basta !
Di fronte alla morte di Francesco Mastrogiovanni, di Giuseppe Casu, di Andrea Soldi, di Mauro Guerra ... non osiamo dire che il trattamento sanitario obbligatorio (TSO) va abolito e che va riconosciuto agli utenti (in)volontari della psichiatria il diritto proprio di ogni cittadino di rifiutare le cure.
A volte mi chiedo cosa ci serve ancora, quale altra prova.

domenica 29 luglio 2018

Manicomi, storie di donne rinchiuse perché ribelli

Rinchiuse perché diverse, donne ribelli che non volevano piegarsi alle rigide regole del ventennio fascista. A quarant'anni dalla legge Basaglia, che ha sancito la chiusura dei manicomi, Annacarla Valeriano, racconta le storie e i volti di chi in quei luoghi ha racchiuso la propria esistenza.
Si chiama Malacarne. Donne e manicomio nell'Italia fascista (edito da Donzelli) e come si legge tra le sue pagine dà voce a tutte le recluse che venivano definite pazze, ‘diverse e squilibrate’, inadatte a ‘vivere una vita ragionevole’, come imponeva il regime. 
Attraverso le cartelle cliniche delle donne del manicomio Sant’Antonio Abate di Teramo, l’autrice, ripercorre la storia a partire dall’ultimo decennio dell’Ottocento, fino alla metà del Novecento, un momento in cui i manicomi assumono dei contorni molto particolari.
Vengono rinchiuse, infatti, tutte ‘quelle donne che si discostano dall’ideale fascista della sposa e madre esemplare e che con le loro condotte intemperanti, con le loro esuberanze, con la loro inadeguatezza fisica, rischiano di intaccare il patrimonio biologico e morale dello Stato’.
La ‘malacarne’ appunto, ovvero personalità più o meno eccentriche che non rispecchiano i canoni e i compiti imposti, cos’ il manicomio ha il dovere di ripristinare la normalità.
“Uno dei luoghi in cui attuare una politica di sorveglianza che annulla i diritti individuali in nome dell’ordine pubblico”, scrive Valeriano.
malacarne

Chi finiva in manicomio quindi?

“Quelle donne che si rifiutano di conformare il proprio stile di vita agli ideali proposti dal fascismo e che, proprio per questa ragione, hanno bisogno di essere rieducate attraverso la disciplina manicomiale per riportare le loro condotte entro i recinti di una normalità biologicamente e socialmente costruita”.

venerdì 27 luglio 2018

Morte Mauro Guerra: “Almeno lo hai beccato, maresciallo?”

Della morte di Mauro Guerra spuntano i video. Il carabiniere: “Almeno lo hai beccato, maresciallo?”
E’ uno dei dialoghi registrati e ripresi il pomeriggio del 29 luglio 2015, quando il 32enne Mauro Guerra viene ammazzato dal maresciallo che comandava la stazione di Carmignano.
Della morte di Mauro Guerra spuntano i video. Il carabiniere: “Almeno lo hai beccato, maresciallo?”

“Almeno lo hai beccato, maresciallo?”, chiede al suo superiore il carabiniere. “Si”, risponde. “Hai fatto bene, marescià (dice così), hai fatto bene. Quel bastardo, figlio di troia” e altri improperi seguono. E’ uno dei dialoghi registrati e ripresi dalla telecamera di un carabiniere il pomeriggio del 29 luglio 2015, quando il 32enne Mauro Guerra viene ammazzato dal maresciallo che comandava la stazione di Carmignano. Quello fu un pomeriggio tragico, pieno di errori, dicono gli avvocati di parte civile. Il primo è stato costringere il malcapitato Mauro Guerra a sottoporsi a un TSO perché gli stessi carabinieri (senza avvallo medico) lo consideravano “violento è pericoloso”.
I militari intervenuti erano però sprovvisti di provvedimenti scritti o mandati giudiziari, per questo Mauro si era rifiutato di seguirli. A seguito di una trattativa avviata verso mezzogiorno e cominciava a farsi sempre più complicata, i carabinieri iniziano a filmare il dialogo con Mauro. Nelle immagini si vede chiaramente che Guerra si trova a una decina di metri da casa sua, quando viene bloccato da alcuni agenti, raggiunti via via da diversi rinforzi. I video dimostrano una tensione via via crescente: Mauro ironico e sarcastico cerca di allontanare i militari, lui, laureato in economia, sa che nessuno può prelevarlo in assenza di un documento. Mauro appare irritato, ma mai aggressivo. Il giovane riesce comunque a tenersi a una certa distanza dai carabinieri pur continuando a chiedergli di andarsene: “Non avete alcun diritto di stare qui” continua a ripetere. E’ palese dai suoi comportamenti e dalle argomentazioni che porta, che riteneva volessero imporgli qualcosa di cui non avevano il diritto, visto che la procedura di TSO è molto chiara e non può essere presa d’iniziativa senza la richiesta del sindaco. E il Guerra senza forzature o colluttazioni riesce a saltare il cancello di casa e a entrare nel giardino di casa.
A petto nudo, in tuta, è palesemente preoccupato. Gli agenti entrano, il pressing continua da due ore. Gli animi si scaldano, Mauro Guerra si vede braccato e gli agenti sono determinati a portare a termine la loro iniziativa. C’è un momento in cui Mauro Guerra, quando capisce che non c’è via d’uscita, sfida quasi gli agenti prendendo un bilanciere, sbattendolo però a terra, mai brandendolo contro di loro i militari. Poi succede quello che è stato tante volte raccontato, ma che le immagini non mostrano, la fuga in mutande e la corsa fino a dove è stato poi raggiunto. Quello che accade, gli spari e l’omicidio, e’ inquadrato in ritardo e da molto lontano. Le immagini andranno viste e riviste per poter essere certi di ciò che si ha di fronte. Restano però quelle parole: “Almeno lo hai beccato, maresciallo? Hai fatto bene, marescià (dice così), hai fatto bene. Quel bastardo figlio di…”. Anche i video saranno visionati in aula alla presenza dei giudici, del pm e della difesa.
fonte:http://www.padovaoggi.it



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domenica 22 luglio 2018

LA LIBERTA' NON E' TERAPEUTICA.Parole in/di libertà a 40 anni dalla Legge 180.

speciale SICILIA LIBERTARIA luglio/agosto 2018    http://www.sicilialibertaria.it
Con articoli di Chiara Gazzola, di Giuseppe Bucalo (Soccorso Viola) e del collettivo antipsichiatrico Antonin Artaud. Sotto e in allegato il contributo del collettivo antipsichiatrico Antonin Artaud


L’Italia è l'unico paese al mondo dove dal 1978 con la legge 180 i Manicomi sono stati aboliti. Ma la riforma del sistema psichiatrico si è rivelata più verbale che materiale: ai cambiamenti formali non sono seguite differenze sostanziali delle condizioni di vita dei soggetti internati. Quello che è certo è che la rivoluzione psichiatrica all’italiana ha riguardato solo i luoghi della psichiatria, ma non i trattamenti e le logiche sottostanti. La legge 180 non ha impedito alla psichiatria di riorganizzarsi intorno al paradigma biologico e a ridurre le pratiche alternative ad un ruolo di secondo piano rispetto alle terapie farmacologiche.
L’uso massiccio di sostanze e un corredo di narrazioni consolatorie hanno permesso alla psichiatria di mitigare l’impatto sociale del crollo del modello segregazionista e ripresentarsi quale garante credibile del controllo, confinando lo scandalo dei manicomi dentro una storia passata. Ma ad oggi nei 320 reparti psichiatrici, gli SPDC (Servizio Psichiatrico Diagnosi e Cura e solo in una ventina di essi non si usa la contenzione meccanica) e nelle oltre 3200 strutture psichiatriche residenziali e centri diurni sul territorio in molti casi si sono conservati i dispositivi e gli strumenti propri dei manicomi, quali il controllo del tempo, dei soldi, l’obbligo delle cure, il ricorso alla contenzione.
La legge Basaglia mantiene dunque inalterato il principio di manicomialità, in base al quale chiunque può essere arbitrariamente etichettato come “malato mentale” e quindi rinchiuso. Lo stesso Franco Basaglia, che è scomparso nel 1980 solo due anni dopo l'entrata in vigore della legge 180, mise spesso in guardia rispetto a facili entusiasmi dovuti alla chiusura dei manicomi, considerando tale traguardo, non sufficiente ad alterare quei meccanismi di delega sociale conferita alla psichiatria come il controllo e il contenimento dei comportamenti giudicati disturbanti: ”E’ una legge transitoria, fatta per evitare il referendum e perciò non immune da compromessi politici. Attenzione quindi alle facili euforie. Non si deve credere di aver trovato la panacea a tutti i problemi del malato di mente con il suo inserimento negli ospedali tradizionali. La nuova legge cerca di omologare la psichiatria alla medicina, cioè il comportamento umano al corpo, è come se volessimo omologare i cani alle banane”.
Se l'articolo 32 della Costituzione garantisce il diritto alla libera scelta del luogo di cura e quindi la volontarietà degli accertamenti sanitari, con la legge 180 e la successiva 833/78 non si sono chiusi gli OPG (Ospedali psichiatrici Giudiziari) oggi trasformati in REMS (Residenze Esecuzione Misure di Sicurezza) e non si è vietato pratiche disumane come la contenzione meccanica e l’elettroshock. Invece si stabiliscono dei casi in cui il ricovero può essere effettuato indipendentemente dalla volontà dell'individuo: è il caso del TSO (trattamento sanitario obbligatorio) e dell' ASO (accertamento sanitario obbligatorio).
La legge stabilisce che il TSO può essere eseguito solo se sussistono tre condizioni: l'individuo presenta alterazioni psichiche tali da richiedere urgenti interventi terapeutici; l'individuo rifiuta la terapia psichiatrica; l'individuo non può essere assistito in altro modo rispetto al ricovero ospedaliero.
Subito ci troviamo di fronte ad un problema: chi stabilisce lo “stato di necessità” della cura psichiatrica, l'urgenza dell'intervento terapeutico? E, in che modo si dimostra che il ricovero ospedaliero è l'unica soluzione possibile? Risulta evidente che le condizioni di attuazione di un TSO rimandano di fatto al giudizio arbitrario di uno psichiatra, giudizio cui generalmente il sindaco, che dovrebbe insieme al giudice tutelare agire da garante del paziente, di norma non si oppone.
Il rifiuto delle cure è praticamente l'unica delle condizioni a poter essere invalidata, ma è frequente che il ricovero prosegua anche se il paziente non rifiuta le cure.
Il ricovero, durante il quale si sottosta ad un regime terapeutico imposto, ha una durata di 7 giorni e può essere effettuato solo all'interno di reparti psichiatrici di un ospedale pubblico; deve essere disposto con provvedimento dal sindaco del comune di residenza su proposta motivata da un medico e convalidata da un medico psichiatra operante nella struttura sanitaria pubblica. Dopo aver firmato la richiesta di TSO, il sindaco deve inviare il provvedimento e le certificazioni mediche al giudice tutelare operante sul territorio il quale lo deve notificare e, entro 48 ore, convalidare o meno. Lo stesso procedimento deve essere seguito nel caso in cui il TSO venga rinnovato oltre i 7 giorni.
Se in teoria la legge prevede il ricovero coatto solo in casi limitati e dietro il rispetto rigoroso di alcune condizioni, la realtà testimoniata da chi la psichiatria la subisce è ben diversa. Con grande facilità le procedure giuridiche e mediche necessarie per effettuare il TSO vengono aggirate, nella maggior parte dei casi i ricoveri coatti vengono eseguiti senza rispettare le norme che li regolano e spesso seguono il loro corso semplicemente per il fatto che quasi nessuno è a conoscenza delle normative e dei diritti di cui gode il ricoverato. Molto spesso prima arriva l'ambulanza per portare le persone in reparto psichiatrico (SPDC) e poi viene fatto partire il provvedimento.
Diffusa è la pratica di mascherare tramite pressioni e ricatti, i TSO con ricoveri volontari. Spesso il paziente viene trattenuto dopo lo scadere del TSO in regime di TSV (trattamento sanitario volontario) senza essere messo a conoscenza del fatto che può lasciare il reparto, oppure, persone che si recano in reparto in regime di TSV vengono poi trattenute in TSO al momento in cui richiedono di andarsene. L'ASO funziona come trampolino di lancio per portare la persona in reparto, dove verrà poi trattenuta in regime di TSV o TSO a seconda della propria accondiscendenza agli psichiatri.
Tutto questo è frutto non solo delle potere medico-psichiatra, ma anche delle pressioni e intimidazioni più o meno dirette che le persone subiscono in ambito familiare e sociale.
Per i pazienti ricoverati in TSO e considerati “agitati” si ricorre ancora al''isolamento e alla contenzione fisica, mentre i cocktails di farmaci somministrati mirano ad annullare la coscienza di sé della persona, a renderla docile ai ritmi e alle regole ospedaliere. Molto spesso il depot (la puntura intramuscolo bisettimanale o mensile) è un metodo invasivo vissuto come un’intrusione forzata che comporta indesiderabili effetti collaterali, tra i quali grave rallentamento delle capacità cognitive e confusione mentale, che non si devono strumentalmente considerare sintomi patologici ma esclusivamente effetti della terapia psichiatrica somministrata per depot. Inoltre la “comodità” per il CIM (Centro Igiene Mentale) dell'iniezione mensile, rispetto alla terapia per somministrazione orale, non giustifica l'esposizione del paziente a effetti indesiderati tanto violenti, fisicamente rischiosi e psicologicamente devastanti. Il grado di spersonalizzazione ed alienazione che si può raggiungere durante una settimana di TSO ha pochi eguali, anche per il bombardamento chimico a cui si è sottoposti.
Ecco come l'obbligo di cura oggi non significhi più necessariamente la reclusione in una struttura, ma si trasformi nell'impossibilità di modificare o sospendere il trattamento psichiatrico sotto costante minaccia di ricorso al ricovero coatto sfruttato come strumento di ricatto e repressione.

Collettivo Antipsichiatrico Antonin Artaud
antipsichiatriapisa@inventati.org
artaudpisa.noblogs.org 335 7002669
via San Lorenzo 38 56100 Pisa

domenica 15 luglio 2018

Lucca – La Croce Rossa costringe al TSO una ragazza che voleva lasciare la tendopoli

Le informazioni disponibili in rete sono poche ma sufficienti per mettere insieme gli elementi di una vicenda emblematica della serie stratificata di oppressioni che schiacciano i vissuti delle donne che decidono di migrare.
Stiamo parlando della storia di una ragazza diciannovenne proveniente dalla Nigeria, arrivata in Italia con la figlia di 18 mesi. Com’è evidente in un regime di frontiere serrate e sempre più fatte arretrare verso il Mediterraneo, prima, e verso i Paesi di origine e transito, poi, chi riesce ad arrivare in Europa presenta subito richiesta di asilo, anche solo per ottenere un pezzo di carta e organizzarsi la vita o la fuga altrove.
Non sappiamo e non ci interessa la motivazione dietro questa scelta, sta di fatto che questa ragazza decide di fare domanda di asilo e scattano subito le maglie del paternalismo di stato: viene trasferita in una struttura protetta per donne con figl* minori gestita dalla croce rossa italiana.
Anche qui si potrebbe scrivere un trattato sul ruolo infame della CRI nella gestione dei flussi migratori, limitiamoci a ricordare che sempre a gestione CRI è il campo per transitanti localizzato a Ventimiglia, vicino alla frontiera francese, più volte segnalato da chi lotta contro le frontiere e da ONG e associazioni che hanno recentemente indirizzato una lettera ai governi francese e italiano per segnalare la violazione dei diritti fondamentali delle persone in transito, anche dei minori.
Ma che importa, alla croce rossa viene data la gestione di una casa protetta per donne e minori nonostante la retorica buonista sulla “buona accoglienza”, in italia – come altrove – funziona che se fai domanda di asilo, vieni messo in un centro di accoglienza e devi attenerti al regolamento interno del centro.
Ti allontani? Diventi irrintracciabile e quindi per le autorità di polizia stai rinunciando di fatto alla domanda di asilo.
Vuoi andare a vivere da un’altra parte? Impossibile perché le questure sempre più (in particolar modo quelle di Milano, Roma e Bologna) non accettano la dichiarazione di domicilio, ma pretendono la residenza, una vera e non quella fittizia. Quindi se non puoi permetterti un regolare contratto di affitto o se nessuno dichiara di ospitarti, o ti compri una residenza finta oppure anche lì bye bye, irrintracciabile e niente procedura di asilo.
Ti lamenti di come ti viene imposto di vivere nel centro? Anche qui la repressione arriva fulminea: sono sempre più frequenti i casi di revoca dell’accoglienza, di procedimenti penali aperti per danneggiamento, violenza privata e lesioni, di trasferimenti forzati da un centro all’altro.
Così si articola un sistema infantilizzante e paternalista che impone alle persone in viaggio di vivere alle condizioni decise da chi detiene il potere, nell’attesa che sempre chi questo potere lo detiene si riunisca per valutare la veridicità delle storie che impone alle persone di raccontare di fronte a perfetti sconosciuti (i membri delle commissioni territoriali per il diritto d’asilo), persone bianche e privilegiate che sedute a un tavolo si passano le carte da cui dipenderà poi il rilascio di uno status di protezione.
Questa desolante panoramica c’entra ovviamente con la vicenda di cui stiamo parlando: la ragazza diciannovenne decide che al centro della CRI non ci vuole stare. Chiede di andarsene. Le fanno un TSO e la ricoverano coattamente nel reparto di psichiatria dell’ospedale “Versilia”. La figlia? affidata dal tribunale per i minori di Firenze ai servizi sociali. A quanto pare lei dal reparto sta protestando contro questa decisione, contro questo ricovero violento e – come sempre sono i TSO – autoritario, coercitivo e immotivato.
Tutto questo accade in un Paese che – al di là della rampante retorica razzista e nazionalista che infiamma gli animi dei più – si batte il petto per la famiglia, per la donna sposa e madre, contro la tratta, contro lo sfruttamento. Quando però la donna si ribella a questa spinta vittimizzante, viene dichiarata pazza, incapace di badare alla figlia. Subentrano le istituzioni che diventano immediatamente i soggetti più adeguati a decidere per lei, per la sua salute, per il benessere di sua figlia.
Niente di nuovo ovviamente, se pensiamo alla funzione di normalizzazione coercitiva che la psichiatria ha esercitato sui corpi delle donne e dei soggetti non binari e conformi alla norma sin dagli albori, a partire dalla diagnosi di isteria. Un brivido si aggiunge pensando all’entusiasmo di chi ha condiviso la dichiarazione della Società italiana di psichiatria in risposta a Salvini.
L’esito di questa vicenda è incerto, probabilmente non emergeranno pubblicamente ulteriori risvolti. La potenza della violenza delle istituzioni e delle frontiere però emerge con tutta la sua forza. Come sempre.
Puoi anche leggere un altro nostro contributo: “TSO (trattamenti sanitari obbligatori) – La repressione psichiatrica contro i migranti in protesta”
fonte:https://hurriya.noblogs.org

sabato 14 luglio 2018

Le tolgono la figlia di 18 mesi e viene ricoverata in Psichiatria

Una storia di immigrazione e di disperazione. Una vicenda approdata in Versilia dalla tendopoli della Croce Rossa di Lucca, questa,  che vede protagonista una giovane profuga nigeriana, appena 19enne, che con la figlia di 18 mesi era stata inserita in un luogo protetto per madri con minori dell’interland versiliese. Lei, richiedente asilo politico, secondo il suo racconto, ha chiesto di uscire dalla comunità, e del fatto è stato interessato il Tribunale dei Minori di Firenze. Ma l’epilogo di questa vicenda è stato che la bimba le è stata tolta, affidata ai servizi sociali, e la giovane madre è stata ricoverata nel reparto di Psichiatria dell’ospedale “Versilia”diretto dal professor Mario Di Fiorino. Un ricovero immotivato, secondo la paziente, che non si considera pazza: come ogni mamma a cui viene tolto il proprio figlio, non si è data pace, e probabilmente è andata in escandescenze. Quale il suo destino prossimo? La giovane madre, cosi riferisce, non sa nemmeno dove sia stata messa la figlia. La vicenda è al momento nelle mani dell’ufficio immigrazione della Prefetura e i servizi sociali della città delle Mura. Sperando che non diventi un rimpallo senza soluzione.

fonte: versiliatoday.it

martedì 10 luglio 2018

"Avevo solo le mie tasche": quarantadue anni di manicomio, senza una diagnosi

La storia drammatica di Alberto Paolini che ha potuto scrivere i suoi pensieri - divenuti un libro di memorie, pubblicato dalla casa editrice "Sensibili alle foglie" - solo su piccoli frammenti di carta da nascondere nelle tasche



mercoledì 4 luglio 2018

ALTRI COMUNICATI di SOLIDARIETA’ con il COLLETTIVO ARTAUD di PISA

Sotto altri comunicati di solidarietà con il Collettivo Antipsichiatrico Antonin Artaud che ci sono arrivati ultimamente:

Ci uniamo a tutte le realtà che hanno già espresso la loro solidarietà al collettivo antipsichiatrico Antonin Artaud di Pisa, e ai due compagni sotto processo. Molto ci lega ai compagni e alle compagne del collettivo Artaud: difficile riassumerlo in poche righe di comunicato. Quello che qui ribadiamo è che il lavoro decennale, instancabile del collettivo Artaud è stato – ed è tutt’ora – per noi più di uno stimolo alla riflessione: è uno sguardo indispensabile che scava sotto l’apparente neutralità delle istituzioni mediche e psichiatriche, è un posizionamento quotidiano, concreto e politico. Sempre al vostro fianco, con tutta la solidarietà, la stima e l’affetto che ci legano a voi.Un abbraccio collettivo
 Ambulatorio Medico Popolare – Milano
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SOLIDARIETA’ DAI TUTTI PAZZE DEL BAROCCHIO SQUAT
Ci è giunta la notizia, divulgata dal collettivo antipsichiatrico Antonin Artaud di Pisa, che due compagni facenti parte di esso sono stati denunciati con l’accusa di aver minacciato una persona rivoltasi a loro per uscire dalle maglie della cura psichiatrica, con un certificato da presentare al medico per evitare di ricevere un TSO (Trattamento Sanitario Obbligatorio). Questa volta però il medico sopra citato, ergendosi a super eroe della legalità, ha deciso di riferire alla persona in questione che queste si stavano muovendo al di fuori della legge, e per questo motivo per due compagni a fine Maggio è iniziato il processo con l’accusa di violenza privata. Il paradigma tra legalità e illegalità non ci appartiene e riponiamo piena fiducia nei modi di agire e di autogestire la lotta alla psichiatria dei compagni e delle compagne di Pisa, con tutte le difficoltà che questa scelta comporta. Per questo motivo mandiamo tutta la nostra solidarietà ai due compagni imputati e a tutto il collettivo Antonin Artaud, ricordandoci sempre la loro vicinanza e partecipazione alle giornate di lotta che abbiamo attraversato nel 2015, quando la regione Piemonte aveva scelto proprio il Barocchio per realizzare una REMS (Residenza per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza). Un’idea “geniale” sgomberare una casa occupata da 23 anni allora, 26 adesso, in un luogo di coercizione e detenzione psichiatrica. Grazie alla lotta e alla tenacia di tutte le persone che ci hanno sostenuto tutto ciò non è avvenuto e siamo ancora qui per resistere e lottare contro ogni prigione e gabbia, fisica e mentale, ben consapevoli che se non qui, lo Stato ha costruito e costruirà altrove le proprie strutture punitive (come nel caso della REMS “Anton Martin” ubicata nella struttura del Fatebenefratelli di San Maurizio Canavese, contro la quale non sono mancate le proteste) e sempre dovrà scontrarsi con la nostra posizione. Di seguito il link del collettivo Artaud di Pisa https://artaudpisa.noblogs.org/
Barocchio Squat – 7 Giugno 2018 Grugliasco
__________________________
Solidarietà ai compagni del Collettivo Antonin Artaud di Pisa, da anni impegnati nella lotta contro la psichiatria e che per la loro solidarietà alle sue vittime ora vengono accusati ingiustamente di
violenza privata. L’ennesimo tentativo di sgretolare la resistenza di chi si oppone agli abusi della psichiatria. Abbiamo avuto il piacere di conoscere il Collettivo Antonin Artaud durante la lotta contro la REMS di Grugliasco (che non fu mai realizzata) e nei percorsi ed incontri antipsichiatrici organizzati in
Torino e dintorni. Percorsi fondamentali per smascherare l’istituzione
manicomiale che, sotto altre spoglie, continua la repressione e
l’annullamento fisico e morale di coloro, uomini e donne, considerati
non idonei, non integrabili nella società, malati.
Scriviamo questo comunicato perchè sosteniamo il loro mettersi in
gioco, da anni, non solo nella critica radicale al sistema psichiatrico
ma anche nell’aiutare coloro che cercano di uscirne. La psichiatria non ci appartiene, il corpo e la mente sono nostri e nessuno può violarli.
Un abbraccio solidale.
Fenix Occupata – Torino
Mezcal Squat – Collegno

domenica 1 luglio 2018

Caso Mastrogiovanni, nuove condanne dalla Cassazione per medici e infermieri

Il processo per la morte del maestro elementare Francesco Mastrogiovanni si conclude con nuove condanne.
Una notizia inaspettata considerato che il Procuratore Generale della Corte di Cassazione con un lungo intervento durato oltre due ore, nella giornata di ieri aveva chiesto l’annullamento della sentenza di condanna senza rinvio per gli infermieri coinvolti nella vicenda, sia per l’accusa di sequestro di persona che per omicidio colposo. Per i medici, invece, la richiesta era stata di conferma per il reato di falso in atto pubblico e di annullamento con rinvio per l’accusa di sequestro di persona. Nelle richieste del procuratore Orsi era stato quindi demolito tutto l’impianto accusatorio relativo alla morte di Mastrogiovanni, deceduto all’ospedale di Vallo della Lucania dopo un ricoverato in regime di trattamento sanitario obbligatorio. A 24 ore dalle richieste del Pg è giunta la decisione del presidente della Corte di Cassazione, Fumo.
Per quanto riguarda i medici è stato rigettato il ricorso e rideterminata la pena di Rocco Barone e Raffaele Basso ad un anno e tre mesi; di Amerigo Mazza e Anna Angela Ruberto a 10 mesi. Rigettato il ricorso di Michele Di Genio per il quale è stata dichiarata irrevocabile la condanna per il delitto previsto dagli articoli 110 c.p. (concorso di reato) e 605 c.p. (sequestro di persona). Per quest’ultimo, invece, i giudici hanno annullato la sentenza relativamente al reato di falsità ideologica (art. 479 c.p.) in concorso, con rinvio per nuovo esame sul punto alla Corte d’Appello. Rigettato il ricorso (senza rinvio) anche di Michele Della Pepa per il quale è confermata la pena.
Annullata senza rinvio ai fini penali la sentenza per gli imputati condannati per il delitto  previsto dall’art. 586 del c.p. (morte come conseguenza di altro reato) e 110 c.p. (concorso), essendo il reato estinto per prescrizione. Annullati anche gli effetti civili con rinvio al giudice civile competente in grado di Appello. Per quanto concerne gli infermieri, invece, sono arrivate nuove condanne: Giuseppe Forino, Alfredo Gaudio, Nicola Oricchio e Massimo Scarano condannati a 8 mesi; Antonio De Vita, Maria D’Agostino Cirillo, Antonio Tardio, Massimo Minghetti, Maria Carmela Cortazzo, Raffaele Russo a 7 mesi di reclusione.
Annullata la sentenza per Antonio Luongo essendo i reati a lui ascritti estinti per morte dell’imputato.
fonte:https://www.infocilento.it