Riporto per intero le riflessioni del Professor Ugo Morelli, tratte dal suo blog
www.ugomorelli.eu
Non si parla esplicitamente di psichiatria o TSO, ma il discorso è comunque interessante e parallelo alle tematiche di cui ci occupiamo in questo blog. Il "modo di pensare" comune descritto da Morelli è infatti spesso caratteristica dell'approccio di alcune persone anche al problema della salute mentale.
Buona lettura.
Veronika
Assistiamo ad uno strano fenomeno che sta
prendendo piede anche con l’amplificazione di una certa stampa: potremmo
chiamarlo, un po’ paradossalmente, l’invidia verso i mendicanti. Sta
montando, infatti, una tensione che fa apparire la presenza di persone
in difficoltà che approfitterebbero in diversi modi della nostra
società, dei nostri servizi e della nostra carità, il principale
problema di cui occuparsi. Il fatto è che, da come se ne parla,
sembrerebbe che quelle persone vivano una condizione invidiabile. Si
leggono meticolose stime sui loro presunti redditi; si annotano gli usi
impropri dei servizi disponibili; si mette a punto un apparato di
considerazioni che si avvicina all’accanimento. Non stiamo parlando,
qui, della necessità indiscutibile di rispettare le regole vigenti nei
luoghi in cui si vive, da parte di tutti. Né stiamo trascurando il
problema dell’aumento della povertà e del disagio sociale, o
dell’opportunismo e dell’accattonaggio che si porta dietro. Il
riferimento è più sottile: riguarda una certa concentrazione di
attenzione, quasi ossessiva, su chi porterebbe via risorse alla nostra
comunità raggiungendo in tal modo livelli di vita di cui si parla quasi
con una punta di invidia. Questo è il paradosso. Come accade sempre i
paradossi indicano qualcosa. L’impressione che si ha è che siamo di
fronte ad un ennesimo segnale della pervasività dell’indifferenza e di
una posizione paranoide nella nostra realtà sociale. Quella posizione
merita analisi e attenzione. Com’è noto la paranoia porta alla ricerca
delle ragioni di ciò che non va sempre in quelli che stanno intorno a
noi assolvendo sempre noi stessi. Fino alla definizione di capri
espiatori a cui attribuire responsabilità e colpe di tutto quello che
non va. Uno degli effetti più problematici di climi sociali siffatti è
la perdita di assunzione di responsabilità diretta e di un certo rigore
nell’esame di realtà. Solo responsabilità e rigore possono aiutare a
capire e indirizzare l’azione nelle giuste direzioni per il
miglioramento e lo sviluppo del vivere civile. Allora chiediamoci
seriamente chi di noi sarebbe effettivamente contento di vivere
chiedendo l’elemosina, seppur in condizioni di opportunismo o sarebbe
felice di sfruttare, per vivere, servizi di cui non ha diritto o,
ancora, si sentirebbe contento di fare il furbo o il clandestino sui
mezzi pubblici. Conviene perciò prestare attenzione a non farsi prendere
la mano quando il pregiudizio e la xenofobia tendono ad alimentare
ragionamenti che confondono la parte con il tutto. Conviene altresì
distinguere tra ciò che devono fare la legge e gli organismi di
controllo per far rispettare le regole del vivere civile, e quello che
possiamo fare noi nel tenere aperto il giudizio e la forza delle
relazioni e del legame sociale per creare una società più accogliente e
capace di dialogo tra le differenze. Non abbiamo bisogno di soffiare sul
fuoco dell’esclusione e di rinforzare quell’ “extra” che mettiamo
innanzi alla parola “comunitario” quando diciamo, appunto,
“extracomunitario”. Quell’ “extra” è forse il meno attuale e il più
antistorico dei prefissi. Eppure lo usiamo nel linguaggio corrente e non
ci aiuta a comprendere le vie per creare una società plurale, che
mentre tutela le regole del vivere civile, contrasti ogni forma di
creazione di capri espiatori e di steccati escludenti.
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