Angelo Righetti, una vita in prima linea per la chiusura dei manicomi, lancia un allarme: “Sta vincendo la cultura della segregazione. Migliaia di vecchi negli istituti”
Siamo immersi nella logica della
segregazione e non lo sappiamo. Le nostre città si sono riempite di
piccoli lager. Piccole celle in cui rinchiudere gli anziani, i malati
mentali, i deboli. E poi ci stupiamo della nostra solitudine, ci
domandiamo il perché di certe tragedie familiari. Che altro può
succedere, nel deserto di rapporti umani in cui viviamo?» è un fiume di
pensieri corrosivi, Angelo Righetti. Psichiatra cresciuto alla scuola di
Franco Basaglia, ha combattuto per la chiusura dei manicomi. E continua
a farlo, ogni giorno, pagando di tasca sua, per dimostrare a tutti che
il recupero delle persone malate e l’integrazione sociale non sono solo
utopie da ex sessantottini. Per questo, dal lindo e funzionale
dipartimento di Salute mentale di Parma si è fatto trasferire ad Aversa,
in una delle zone con i parametri di benessere più bassi d’Europa, alla
direzione del Dipartimento socio-sanitario. Vita: Parliamoci francamente, dottore: chi gliel’ha fatto fare? Angelo Righetti:
Mi sono reso conto di vivere in una realtà dove ormai il benessere ha
consentito di istituzionalizzare ogni cosa, e ha fatto collassare tutti i
legami sociali. Niente più nonni, niente più malati, niente più
bambini. Eppure, ho sempre pensato che almeno la vita non potesse
diventare un optional da graduare a seconda delle nostre esigenze? Vita: Al Nord, insomma, è andata persa la cultura della vita… Righetti:
Sono andate perse molte cose. Prima i valori, poi le persone. E di
questa filosofia dell’esclusione non vediamo nemmeno i contorni, perché
sono sfumati, ottimistici, funzionalistici. Basti pensare a cos’hanno
fatto con i vecchi: ne sono stati messi via 28mila in Emilia Romagna,
60mila in Lombardia, 30mila in Piemonte. Stiamo lagerizzando centinaia
di migliaia di persone, a costi pazzeschi, che nessuna comunità può
sopportare. Quando si allontana un vecchio da un quartiere, si perde una
biblioteca, si perdono centinaia di legami sociali, si desertificano i
rapporti umani. Vita: Stessa cosa per i malati? Righetti:
Peggio. Si comincia sempre da loro, dai matti. E non a caso: sono i più
indifesi, i più dissidenti, incapaci di indossare le camicie strette
dentro le quali noi viviamo. Nel ’68 noi abbiamo attaccato la violenza
delle istituzioni che si concretizzava nei manicomi. Abbiamo cercato gli
strumenti per disarticolarla e riconsegnare al corpo sociale le persone
finalmente liberate. Oggi però abbiamo un altro problema, di fronte al
quale siamo impreparati. Vita: Quale? Righetti:
L’istituzionalizzazione della violenza, che risponde alla domanda di
sicurezza dei cittadini. Cos’altro è, se non questo, la tolleranza zero?
Un’espressione rassicurante e abusata, che significa forza, violenza,
eliminazione della diversità, mancata accoglienza. E questo, non mi
stancherò mai di ripeterlo, è un crinale pericolosissimo. Vita: Dove ci porterà? Righetti:
Non posso guardare nel futuro, ma se guardo al passato vedo la spirale
del nazismo. I primi a essere sterminati furono i matti, gli
handicappati e i diversi, sulla base di una collocazione
etico-scientifica che diceva che quelle persone non sarebbero mai
guarite, e che erano un peso per la società. Quelle radici di non
riconoscimento dell’altro sono le stesse di oggi. Mentre noi parliamo
amabilmente di strutture protette, per evitare di usare la parola
manicomi, connotiamo un gruppo di persone come incomprensibili,
inguaribili, inutili. Continuiamo a blaterare sulla necessità di questi
piccoli caravanserragli, e poco importa che siano da 50 o 20 posti,
siamo all’istituzionalizzazione della sopraffazione. Vita: In tutto questo, come fa a dare un senso al suo ruolo professionale? Righetti:
Ho due scopi nella vita, che mi hanno portato fino a qui. Uno è
distruggere gli ospedali psichiatrici giudiziari. L’altro è aumentare il
livello di presenza e integrazione dei bambini e degli anziani nella
nostra società. E qui, nel Sud, dove la legalità è continuamente messa
in discussione, trovo che esista ancora una radice di coscienza sociale,
una cultura della vita e di solidarietà verso i deboli. Vita: Cosa pensa dell’idea di riforma del sistema psichiatrico? Righetti:
La necessità di una nuova legge è una pura e semplice invenzione:
abbiamo già tutti gli strumenti legislativi per gestire l’assistenza ai
malati. E non c’è nemmeno questo allarmante aumento di situazioni
connotate come “malattia mentale”. Il problema è che si tende a
omologare la patologia con il disagio esistenziale, la tristezza con la
depressione, anche se non hanno nulla a che spartire: la psichiatria ha
invaso la vita delle persone, offrendo una risposta per tutti i
problemi. è il grande sogno panpsichiatrico che durerà solo lo spazio
del piazzamento dell’ultimo prodotto antidepressivo. Vita: Un business, insomma. Righetti:
Il più grande del secolo. La produzione di antidepressivi ha reso più
di qualsiasi altro affare e in Occidente ha un mercato gigantesco. E una
spalla nella psichiatria di stampo psicofarmacologico. Vita: Perché dovrebbe essere più tranquillizzante avere una malattia psichica che gestire la propria tristezza esistenziale? Righetti: Perché
questa nostra società è posseduta da una forma di psicologismo
d’accatto, che dà le ragioni di ogni cosa. Ci fornisce schemi semplici
di causalità con cui tranquillizzarci e convivere. Ormai qualsiasi
disagio, da quelli giovanili a quelli femminili, quelli degli anziani,
fino a tutte le categorie di malattie poco curabili, è diventato di
pertinenza psichiatrica. E la psichiatria sta industrializzando i nostri
bisogni e le soluzioni. […]
http://www.vita.it/it/article/2002/07/25/la-denuncia-di-un-grande-psichiatra-metti-via-il-matto/15209/
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