mercoledì 27 maggio 2020

Se lo dice anche lo psichiatra

Angelo Righetti, una vita in prima linea per la chiusura dei manicomi, lancia un allarme: “Sta vincendo la cultura della segregazione. Migliaia di vecchi negli istituti”

Siamo immersi nella logica della segregazione e non lo sappiamo. Le nostre città si sono riempite di piccoli lager. Piccole celle in cui rinchiudere gli anziani, i malati mentali, i deboli. E poi ci stupiamo della nostra solitudine, ci domandiamo il perché di certe tragedie familiari. Che altro può succedere, nel deserto di rapporti umani in cui viviamo?» è un fiume di pensieri corrosivi, Angelo Righetti. Psichiatra cresciuto alla scuola di Franco Basaglia, ha combattuto per la chiusura dei manicomi. E continua a farlo, ogni giorno, pagando di tasca sua, per dimostrare a tutti che il recupero delle persone malate e l’integrazione sociale non sono solo utopie da ex sessantottini. Per questo, dal lindo e funzionale dipartimento di Salute mentale di Parma si è fatto trasferire ad Aversa, in una delle zone con i parametri di benessere più bassi d’Europa, alla direzione del Dipartimento socio-sanitario. Vita: Parliamoci francamente, dottore: chi gliel’ha fatto fare? Angelo Righetti: Mi sono reso conto di vivere in una realtà dove ormai il benessere ha consentito di istituzionalizzare ogni cosa, e ha fatto collassare tutti i legami sociali. Niente più nonni, niente più malati, niente più bambini. Eppure, ho sempre pensato che almeno la vita non potesse diventare un optional da graduare a seconda delle nostre esigenze? Vita: Al Nord, insomma, è andata persa la cultura della vita… Righetti: Sono andate perse molte cose. Prima i valori, poi le persone. E di questa filosofia dell’esclusione non vediamo nemmeno i contorni, perché sono sfumati, ottimistici, funzionalistici. Basti pensare a cos’hanno fatto con i vecchi: ne sono stati messi via 28mila in Emilia Romagna, 60mila in Lombardia, 30mila in Piemonte. Stiamo lagerizzando centinaia di migliaia di persone, a costi pazzeschi, che nessuna comunità può sopportare. Quando si allontana un vecchio da un quartiere, si perde una biblioteca, si perdono centinaia di legami sociali, si desertificano i rapporti umani. Vita: Stessa cosa per i malati? Righetti: Peggio. Si comincia sempre da loro, dai matti. E non a caso: sono i più indifesi, i più dissidenti, incapaci di indossare le camicie strette dentro le quali noi viviamo. Nel ’68 noi abbiamo attaccato la violenza delle istituzioni che si concretizzava nei manicomi. Abbiamo cercato gli strumenti per disarticolarla e riconsegnare al corpo sociale le persone finalmente liberate. Oggi però abbiamo un altro problema, di fronte al quale siamo impreparati. Vita: Quale? Righetti: L’istituzionalizzazione della violenza, che risponde alla domanda di sicurezza dei cittadini. Cos’altro è, se non questo, la tolleranza zero? Un’espressione rassicurante e abusata, che significa forza, violenza, eliminazione della diversità, mancata accoglienza. E questo, non mi stancherò mai di ripeterlo, è un crinale pericolosissimo. Vita: Dove ci porterà? Righetti: Non posso guardare nel futuro, ma se guardo al passato vedo la spirale del nazismo. I primi a essere sterminati furono i matti, gli handicappati e i diversi, sulla base di una collocazione etico-scientifica che diceva che quelle persone non sarebbero mai guarite, e che erano un peso per la società. Quelle radici di non riconoscimento dell’altro sono le stesse di oggi. Mentre noi parliamo amabilmente di strutture protette, per evitare di usare la parola manicomi, connotiamo un gruppo di persone come incomprensibili, inguaribili, inutili. Continuiamo a blaterare sulla necessità di questi piccoli caravanserragli, e poco importa che siano da 50 o 20 posti, siamo all’istituzionalizzazione della sopraffazione. Vita: In tutto questo, come fa a dare un senso al suo ruolo professionale? Righetti: Ho due scopi nella vita, che mi hanno portato fino a qui. Uno è distruggere gli ospedali psichiatrici giudiziari. L’altro è aumentare il livello di presenza e integrazione dei bambini e degli anziani nella nostra società. E qui, nel Sud, dove la legalità è continuamente messa in discussione, trovo che esista ancora una radice di coscienza sociale, una cultura della vita e di solidarietà verso i deboli. Vita: Cosa pensa dell’idea di riforma del sistema psichiatrico? Righetti: La necessità di una nuova legge è una pura e semplice invenzione: abbiamo già tutti gli strumenti legislativi per gestire l’assistenza ai malati. E non c’è nemmeno questo allarmante aumento di situazioni connotate come “malattia mentale”. Il problema è che si tende a omologare la patologia con il disagio esistenziale, la tristezza con la depressione, anche se non hanno nulla a che spartire: la psichiatria ha invaso la vita delle persone, offrendo una risposta per tutti i problemi. è il grande sogno panpsichiatrico che durerà solo lo spazio del piazzamento dell’ultimo prodotto antidepressivo. Vita: Un business, insomma. Righetti: Il più grande del secolo. La produzione di antidepressivi ha reso più di qualsiasi altro affare e in Occidente ha un mercato gigantesco. E una spalla nella psichiatria di stampo psicofarmacologico. Vita: Perché dovrebbe essere più tranquillizzante avere una malattia psichica che gestire la propria tristezza esistenziale? Righetti: Perché questa nostra società è posseduta da una forma di psicologismo d’accatto, che dà le ragioni di ogni cosa. Ci fornisce schemi semplici di causalità con cui tranquillizzarci e convivere. Ormai qualsiasi disagio, da quelli giovanili a quelli femminili, quelli degli anziani, fino a tutte le categorie di malattie poco curabili, è diventato di pertinenza psichiatrica. E la psichiatria sta industrializzando i nostri bisogni e le soluzioni. […]
http://www.vita.it/it/article/2002/07/25/la-denuncia-di-un-grande-psichiatra-metti-via-il-matto/15209/

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