Ausmerzen,
per chi parla tedesco, ha un suono dolce, ma significa qualcosa di duro
che va fatto in primavera. Prima della transumanza, gli agnelli e le
pecore che non reggeranno la marcia, andranno soppressi.
Tutto comincia nel 1920 dalla pubblicazione di un libro. Karl Binding
e Alfred Hocke, il primo professore di diritto penale a Lipsia, il
secondo di clinica psichiatrica all’Università di Friburgo pubblicano Die Freigabe der Vernichtung lebensunwerten Lebens (Il permesso di annientare vite indegne di vita).
L’incontro di un giurista e di uno psichiatra istruisce un dispositivo
terribile e inumano che sperimenta le pratiche dello sterminio e aprirà
la strada ai campi di concentramento. Essi affermano che la vita degli
handicappati, dei bambini disabili, degli schizofrenici cronici negli
ospedali psichiatrici sia una vita indegna. “Non c’è dubbio alcuno”,
scrive Binding, “che negli ospedali psichiatrici ci siano persone
viventi la cui morte rappresenta per loro la redenzione e, per la
società e lo Stato, una liberazione.” E ancora, secondo le parole di
Hocke, essi sono “gusci umani, totalmente vuoti”.
Alla fine si afferma che la loro uccisione non può costituire “alcun
crimine”, ma anzi un atto medico consentito e lecito. L’accezione di
‘cronico’ ha il significato di inguaribile, di perduto: in psichiatria è
la limpida conseguenza delle teorie positiviste e del grande successo,
non solo europeo, del lavoro di Cesare Lombroso.Quanto sta accadendo e accadrà fino quasi alla fine degli anni ‘50 rappresenta forse l’apoteosi della psichiatria biologica, dell’eugenetica, del mito della razza, del sogno della bonifica umana. Le conseguenze sono indicibili, i numeri non restituiscono quell’orrore e tuttavia saranno circa 70.000 i bambini fatti sparire e più di 200.000 i disabili e i pazzi cronici. Ma ancora gli effetti e le conseguenze di questa scellerata ideologia medico-psichiatrica non si concludono in quel tempo, gli anni ’30 e ’40, e in quello spazio, la Germania nazista, ma si trascinano in teorie e pratiche che sottendono talvolta anche in termini sfacciatamente palesi l’operare intorno alle persone con disturbo mentale, oggi.
“Questa è la storia di uno sterminio di massa di cui si parla solo in certi convegni di psichiatria. Ci sarà un motivo per cui altrove non se ne parla? Credo sia perché sappiamo che ci fu uno sterminio, lo sappiamo già che c’erano i campi di sterminio. I dettagli non ci interessano più perché la sostanza non cambia. È roba che fa star male, ci vuole uno sforzo per rimetterci mano. I nazisti, il male, la guerra… vien da dire basta prima di cominciare.”
Gli psichiatri di per sé sono stati sempre molto refrattari a riconoscere questa storia. La rimozione è stata gigantesca. Tant’è che c’è voluto quasi mezzo secolo, prima che se ne parlasse in un convegno internazionale di psichiatria. È stato Michael von Cranach, più volte in visita nei servizi psichiatrici di Trieste, direttore dell’istituto psichiatrico di Kaufbeuren, ad avviare una lunga e puntigliosa ricerca negli archivi dell’ospedale psichiatrico da lui diretto nella regione di Monaco di Baviera. Per la prima volta, i risultati della ricerca furono presentati al nono congresso mondiale di psichiatria ad Amburgo nel 1999.
Anche a Trieste una ricerca sugli archivi condotta da Lorenzo Toresini, Bruno Norcio e Mariuccia Trebiciani ha potuto accertare il passaggio nei reparti di San Giovanni dei militari nazisti col compito d’individuare non solo gli Ebrei ricoverati, ma anche gli “indegni”.
Ma a cosa serve mettere in luce questa storia? A cosa serve se oggi non facciamo fatica a riconoscere nelle pratiche psichiatriche in Italia come nel resto del mondo, ovunque, culture che ancora non riescono ad abbandonare quelle radici?
È evidente che quando parliamo della psichiatria, che qui per brevità defininiamo ‘nazista’, stiamo parlando della psichiatria trionfante della fine del secolo XIX e dell’espansione endemica delle istituzioni manicomiali. Se in quella oscura temperie storica gli 'schizofrenici' venivano uccisi materialmente, fatti scomparire fino all’ultimo brandello della loro concreta testimonianza di esseri viventi, in tutti gli altri Paesi milioni di persone venivano impedite a vivere. Tutte indegne. Tutte di danno. Tutte di peso. Tutte rigorosamente catalogate dalla scienza psichiatrica e messe in attesa di una morte liberatoria in un non-luogo e in un non-tempo.
Gli ospedali psichiatrici sono stati chiusi in Italia, ma non nel resto del mondo. E in Italia continuano a essere attivi sei ospedali psichiatrici giudiziari, benchè la loro chiusura sembri essere imminente. È alla portata di tutti cogliere in questi luoghi, benché ammodernati, gli stessi meccanismi di oggettivazione e annientamento. Ma anche se uscissimo da questi istituti, per prestare attenzione alle moderne pratiche biologiche, lasciandoci incantare dalle immagini colorate del cervello, troveremmo le stesse ideologie scientifiche. È recente il maldestro tentativo di recuperare le neuroscienze e la genetica a sostegno dell’oggettiva presenza di determinanti biologici che sarebbero responsabili dei comportamenti, della malattia, della possibilità di definire la guaribilità o l’inguaribilità.
Sono note le sentenze della Corte d’appello di Trieste del 2009 e del GUP di Como dell’agosto 2011. Una sorta di brutale psichiatrizzazione delle neuroscienze in chiave neolombrosiana. È quanto mai ovvio che le accademie devono abbandonare un modello scientifico così riduttivo e inattuale e la presupponenza di voler spiegare nella freddezza dei laboratori il male della mente.
Sono straordinari naturalmente i contributi che le ricerche in campo genetico e neuroscientifico mettono a disposizione, ma va ricordato oggi che il mondo scientifico sempre più non nega l’importanza delle componenti biologiche, genetiche, psicologiche, ma le iscrive in un variegato terreno di possibilità che altro non sono che le singole vite, la cartografia della vita della persona, dove il cromosoma interagisce, si modifica, cresce a dismisura o scompare negli infiniti e incalcolabili percorsi relazionali, nei luoghi negli sguardi, nei successi, nei fallimenti. Alla luce di queste visioni che hanno prodotto esperienze luminose, appare stridente e tragica la persistenza di pratiche psichiatriche, che loro malgrado non riescono ad allontanarsi dai paradigmi scientifici che sembrano inesorabilmente occupare il campo. Rimane incomprensibile l’entusiasmo manicheo che scienziati, psichiatri, ancorché brillanti e intelligenti manifestano per le false profezie delle genetiche e delle neuroscienze psichiatrizzate, così come fu grande la passione per la mastodontica psichiatria manicomiale.
Nelle sentenze di Trieste e di Como ancora una volta l’incontro scellerato di una biologia psichiatrica e di una giurisprudenza in cerca di parametri oggettivi per misurare l’umana sofferenza, rischiano di produrre disastri. Non accadde la stessa cosa nel 1920 nell’incontro del giurista Binding e dello psichiatra Hocke?
Molti hanno potuto vedere le immagini rubate dai carabinieri o dalla finanza in sedicenti comunità trerapeutiche dove si esercita la manutenzione di persone oramai inesistenti, alla stregua delle sedie, dei banchi e dei tavoli. Hanno colpito le immagini dei manicomi giudiziari, risultato dell’inchiesta della Commissione del Senato. Quelle immagini, anche al più distratto osservatore, ripropongono con parole e pratiche agghiaccianti il legame con quelle culture e con quelle ideologie. In Italia è il Codice Rocco a governare “la follia criminale”. Il Codice penale del 1930, dove quelle culture giuridiche erano nell’aria e le teorie della malattia, specie in Italia erano dominio di Cesare Lombroso. Ebbene, quell’aria e quella prepotenza si respira nei tribunali e nei manicomi giudiziari quando si occupano delle miserie umane, dei limiti dell’umana comprensione, di uomini e di donne sempre a rischio di scomparire al nostro sguardo.
L’ospedale psichiatrico giudiziario di Aversa è intitolato a Filippo Saporito, entusiasta direttore dei manicomi criminali e generoso propugnatore delle teorie della bonifica umana. Dove si deve intendere non l’annientamento fisico degli inadatti, dei disturbatori, dei pazzi in fondo, ma la loro minuziosa catalogazione e collocazione fuori da ogni contratto.
Molti avranno avuto modo di vedere il filmato della terribile morte in diretta di Francesco Mastrogiovanni. Tantissimi subiscono questo trattamento che tutti non fanno fatica a definire inutile, antiterapeutico, violento. E tuttavia le psichiatrie della biologia, del farmaco, della pericolosità, della sicurezza, del controllo sociale continuano ad applicarlo.
Studenti, familiari, operatori, colpiti dalla visione di quel documento hanno chiesto: “com’è possibile che infermieri e medici passavano davanti a quel letto di contenzione e non si accorgevano di quanto quell’uomo soffrisse e della morte imminente?” Cosa si può rispondere? Cosa posso rispondere? Che quegli operatori sono sadici? Che è la banalità del male? Che è il menefreghismo imperante? Viene da ricordare quegli infermieri che caricavano sugli autobus con i vetri oscurati i bambini per destinazione ignota. Non era a loro ignota quella destinazione ed essi non erano degli aguzzini. Tornando a casa la sera abbracciavano i loro bambini, giocavano con il loro cane nel giardino, esprimevano affetto e comprensione. La domanda è incalzante: come mai questi non vedevano? Novanta ore di agonia e tortura diventano invisibili. Quando, dopo quattro giorni, la morte arriva, non Mastrogiovanni, ma il suo corpo diventa visibile. E allora: perché non lo vedevano? La risposta non può che essere quanto mai certa e tragica: non potevano più vedere Francesco Mastrogiovanni.
In questa giornata particolare (27 Gennaio nota) crediamo sia giusto che la nostra memoria storica si dilati a tutte le tragedie riferite al genere umano, dallo sterminio degli ebrei ai crimini che ogni giorno si consumano nei paesi più poveri del mondo e di cui quasi mai sappiamo, dalle sopraffazioni istituzionali a quelle private, dal mondo dell’infanzia ai disabili, affinchè la nostra cultura non si fregi di pericolosa amnesia rispetto ad alcun essere umano.
di Silvia D’Autilia e Peppe Dell’Acqua
[Parte del testo riportato è in via di pubblicazione negli atti del convegno del 27 gennaio 2014 tenutosi a Trieste – “La medicina nella shoah”.]
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