Ben più contrariato fu quando riuscì a comprendere che
io facevo della sua opera e di lui stesso oggetto di particolare studio
scientifico: da allora in poi non volle assolutamente più darmi alcuna
delucidazione sul Nuovo Mondo.
Giovanni Marro
Nel
1945 l'artista francese Jean Dubuffet conia il fortunato neologismo “Art Brut”,
volendo con esso perimetrare e far emergere all'attenzione culturale una
pluralità di fenomeni estetici che cominciano a stagliarsi alla coscienza del
mondo occidentale circa alla metà del
diciannovesimo secolo. Gli autori che Dubuffet fa oggetto di una radicale
rivalutazione estetica si caratterizzano per la capacità di attingere
strategicamente alla declinazione socialmente interdetta della loro soggettività:situati
nell'esperienza dell'handicap mentale, della psicosi (avente in prevalenza per
oppressivo teatro l'istituzione psichiatrica) o dell'eccentricità sociale
rispetto agli attori del mondo dell'Arte e di qualsivoglia ambiente creativo
che trovi il proprio baricentro in modalità collettivamente condivise dell'
esperienza estetica, questi artisti si collocano in un rapporto di costante
eccedenza rispetto agli assetti linguistici dominanti. Dubuffet non è esente
dalla lezione degli psichiatri che, dal diciannovesimo secolo, hanno
collezionato le produzioni artistiche dei loro pazienti, in un processo storico
che ha visto la valutazione diagnostico-psicopatologica entrare sempre più in
tensione con il coglimento del valore estetico delle opere “diverse”(si pensi a
figure di studiosi come Paul Meunier, Hans Prinzhorn o Walter Morgenthaler,
primo esegeta dell'opera di Adolf Wolfli, il trasgressivo“creatore
schizo”recluso nel manicomio di Waldau).Tuttavia il pittore francese si muove nell'ottica
sovversiva di una critica al culturalismo artistico la quale, benchè fin troppo
unilaterale, lo pone in grado di delegittimare, in nome di un individualismo
anarchicamente sfrenato, ogni riconduzione dell'esperienza creatrice nell'alveo
di una intersoggettività intesa quale orizzonte primario dell'operare.
Quest'ultima trova il proprio lampante disconoscimento in pratiche
artistiche(esemplarmente quelle dei grandi
autori psicotici) caratterizzate da un più o meno profondo solipsismo
creativo,nelle quali il rapporto con il pubblico non costituisce l'obiettivo
privilegiato di un'opera che vive, secondo la chiave di lettura dubuffetiana,
nella tendenziale estraneità alle nozioni estetiche proprie di quella modalità
socialmente condivisa del pensiero che è la cultura. L'artista Outsider
rappresenta indubbiamente,in tale ottica radicale, l'unico reale fattore di
resistenza ai sempre più inesorabili processi di omologazione estetica che
attraversano il villaggio globale e che trovano il loro momento di criticità in
modalità soggettive,quali quelle dei creatori devianti, declinate nel senso di
un autocentrismo che ne pone in essere un' inesauribile indocilità ai processi
inclusivi. Si può ricordare come l'antropologo e psichiatra Giovanni Marro,agli
inizi del novecento, tentasse di esorcizzare il Nuovo Mondo, sconvolgente
scultura di ossa bovine del suo paziente (il carabiniere Francesco Toris,
recluso nel Regio Manicomio di Collegno con la diagnosi di paranoia)
riducendola agli stereotipi del delirio quale recupero dei primi stadi della
filogenesi umana e includendola artificiosamente nella categoria del primitivo,
intrinsecamente squalificata agli occhi di un europeo di cultura colonialista.
Tuttavia, il successivo percorso evolutivo della ricezione dell'arte irregolare
presenta un progressivo rovesciarsi delle originarie logiche escludenti:mentre
il mondo culturale di un Marro praticava
la neutralizzazione estetica delle opere irregolari tramite il distanziamento
scientifico obiettivante della museificazione antropologica (precorrendo la
feroce stigmatizzazione nazista dell'arte dei folli, funzionale alla messa in opera, in nome della “razza ariana”, dello sterminio di
questi ultimi nell'Olocausto psichiatrico) oggi si manifesta un' insidiosa
attitudine alla legittimazione inclusiva delle prassi estetiche devianti che
trova forse la più emblematica modalità nella strumentalizzazione in chiave
arte-terapica di esse.
Pensando
ai più magistrali protagonisti della creatività Outsider italiana, dal grande
Carlo Zinelli a Davide Mansueto Raggio,da Marco Raugei a Curzio Di
Giovanni e all'eccentrico orbitare delle
loro opere ai margini della galassia visiva di un mondo sempre più globale, si
può agevolmente constatare come ne costituiscano,nel senso etimologico,
l'impronosticabile ,irriducibile, ed emancipativo de-lirio: non è pertanto
possibile rinunciare alla radicalità di un impegno teorico e politico volto a
mantenere attivo un costante sommovimento sismico degli strumenti linguistici e
interpretativi pertinenti a quell'uomo
normalizzato globale che trova nel confronto con le espressioni della
trasgressione estetica estrema la propria afasia e l'occasione, spaventosa e
destabilizzante, di una non reversibile diversione dalla morsa reclusiva dei
propri paradigmi.
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