mercoledì 24 aprile 2013
Un anno di internamento in più
Il 31 marzo scorso era la data in cui 
“ufficialmente” i sei OPG (Ospedali Psichiatrici Giudiziari) presenti in Italia, 
dovevano chiudere. Almeno secondo le disposizioni della legge 9/2012. Il termine 
chiudere forse può essere fuorviante. In realtà si stabiliva che gli attuali 
“ospiti” (1400 circa) avrebbero ricevuto le cure necessarie in strutture 
sanitarie. Alla fine è stato tutto rimandato al 1 aprile del 2014. Se ne riparla 
fra un anno. In fondo neanche tanto tempo considerando che gli uomini e le donne 
cui ci si riferisce sono da decenni reclusi in strutture disumane. Un anno in 
più o in meno che vuoi che sia! Bisognerebbe sentire i diretti interessati cosa 
ne pensano e magari organizzare un’evasione di massa da strutture disumane 
considerate non degne di un paese civile secondo il Comitato per la prevenzione 
della tortura del Consiglio d’Europa che le visitò nel 2008. Bisognerebbe 
chiedere il parere a tutti gli internati e a tutti coloro che subiscono o hanno 
subito la costrizione della propria libertà in quelle che, il sociologo Goffman, 
chiama istituzioni totali. Le istituzioni totali sono i conventi, le caserme, le 
carceri – in certi casi i collegi e gli ospedali – i manicomi e tutti quei 
luoghi dove sono ravvisabili le seguenti caratteristiche: uno stretto controllo 
dall’alto da parte di una componente della popolazione (staff) rispetto ad 
un’altra (ospiti); l’essere una società altra a se stante che ti può portare a 
vivere in totale esclusione/separazione da quella umana in generale; una 
organizzazione gerarchica formalizzata della struttura, dei tempi e della vita 
al suo interno (orario dei pasti, relazioni, divieti, etc.). Non bisogna certo 
dilungarsi per dire come tutto ciò vada rifiutato, ma è bene conoscerne 
caratteristiche e definizioni. In questo la triste sorte degli internati degli 
OPG diventa così l’esempio negativo di cosa siano questi luoghi di tortura e 
sofferenza, le cui normative fanno capo al fascista Codice Rocco del 1930, e che 
ancora si applicano nelle sei strutture che si trovano a Napoli, Aversa, 
Barcellona Pozzo di Goto, Castiglione delle Stiviere, Montelupo Fiorentino e 
Reggio Emilia. Ancora un anno dunque. Lungo, infinito, in cui tutto può 
accadere. Alla fine però ci sarà la fine di una pena senza fine? Forse. O si 
andrà in tanti piccoli manicomietti, gestiti da cooperative private? Qualcuno si 
è chiesto se le 1400 persone di questi sei lager di stato hanno una famiglia, 
potranno essere seguiti, sostenuti, aiutati da qualcuno? Chi li aiuterà? In che 
tessuto sociale verranno reintegrate? E come? Queste ed un milione di altre 
domande fra tecnicismo, retorica e profondo senso della dignità umana devono 
necessariamente accompagnarsi alla vicenda, al fine di avere il miglior esito 
possibile. Sarà difficile, molto. Anche perché la questione non riguarda solo i 
1400 individui segregati, e le loro storie, i loro nomi, le loro vite negate, 
etc., ma interessa anche tutto il mondo che sta ed è stato loro attorno. Chi ha 
gestito questi OPG, con quali soldi, quali incarichi, progetti e obiettivi? Chi 
sono i professionisti che dirigono e lavoravano in queste strutture? Il pensiero 
che li riguarda assume un aspetto sociale e culturale che pone l’interrogativo 
di come e quanto il loro lavorare e vivere – magari senza accorgersene – sia 
presente nella società immediata che li circonda, sia testimonianza di questa e 
quanto venga alimentato da essi stessi, ingranaggi di un meccanismo stritolatore 
di cui inconsapevolmente, in qualche caso, sono i portatori cronici di 
un’infezione gerarchica pericolosa. E tutto ciò in una società malata come la 
nostra, non solo perché affetta dalle patologie veicolate dallo stato e dal 
mercato, ma perché impoverita di tutto il patrimonio difensivo (verrebbe da dire 
di anticorpi sociali) sviluppato dalle lotte antifasciste, sindacali, civili, di 
cui rimane solo un tenue e nebuloso ricordo in un quadro sociale italiano dove 
alla comunità viene contrapposto l’atomizzazione individualista, ai diritti 
vengono preferiti i privilegi, in una guerra fra poveri infinita. Pur stando nel 
paese della riforma basagliana della psichiatria, ancora c’è qualche ciarlatano 
che preferisce legare, imbottire di sedativi, bruciare neuroni con la TEC 
(Terapia elettroconvulsivante, meglio nota come elettroshock). Pur stando nel 
paese dove sono stati chiusi i manicomi, non è detto che tutte le loro 
caratteristiche non siano state traghettate per intero all’interno dei piccoli 
reparti di psichiatria. La vicenda Mastrogiovanni è esemplificativa in merito. E 
non basta. Si deve ricordare che quanto detto in merito all’essere vittima di 
una istituzione totale valga in generale anche per chi si ritrova impiccato in 
cella, o vola da una finestra di una questura (Giuseppe Pinelli), o viene 
massacrato di botte durante un fermo (Giuseppe Uva), o muore in un CIE (Fatih) o 
all’aria aperta, in una strada di Ferrara (Federico Aldovrandi) e … l’elenco non 
finirebbe più, ma quanto detto serve unicamente a contestualizzare il problema 
dei 1400 internati e della società che li circonda. E’ difficile dire come dare 
un aiuto a loro durante questo anno, in termini di calore umano, relazioni, vita 
dignitosa (dormire, mangiare, ridere, etc.), e così via. Di certo in termini 
politici e di informazione seguire le loro sorti, sostenere la loro liberazione, 
parlarne (ma non basta) sono le prime cose utili da fare.
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
 
Nessun commento:
Posta un commento