L’Associazione Psichiatrica Americana ha incluso nel suo manuale diagnostico, il DSM, il “lutto prolungato”. Il DSM ha avvolto le persone sofferenti in esistenze diagnostiche, cucite addosso a loro in modo da oscurare i loro vissuti, secondo la necessità dello psichiatra sarto di ampliare la sua produzione di vestiti. Il mercato di psichiatria deve offrire sempre una novità, se non la sua espansione si ferma. Non diversamente fanno le case di abbigliamento: piuttosto che interpretare i gusti, o promuovere un loro rinnovamento, spesso preferiscono costruirli come se fossero la nostra pelle.
Tuttavia i vestiti sono meno costrittivi per la nostra soggettività e, tutto sommato, l’ampiezza delle scelte ci consente sempre una personalizzazione del loro uso. La diagnosi psichiatrica, invece, è sempre di più una divisa che fa della sofferenza una gabbia esistenziale inespressiva. Più si moltiplicano le sue forme più i soggetti che abbiglia si trovano separati dallo spazio del dolore condiviso con gli altri.
Il lutto prolungato è conosciuto da sempre. È del tutto fisiologico in perdite molto gravi. Dalla perdita di un figlio, specialmente se unico, non ci si riprende mai del tutto: convivere con il dolore è umano. Ciò non significa che si perde la propria ragione del vivere. Altre volte la persistenza del lutto è legata all’importanza della persona perduta nella propria storia o all’intensità del legame con essa (si può soffrire più a lungo per un amico e non per un familiare, per uno dei genitori o per uno/a dei fratelli/sorelle). Molto dipende dal momento della vita in cui ci si trova, dall’età, dalla disponibilità di relazioni personali reali o potenziali che consentono di ritrovare, in altre forme, l’oggetto perduto nel mondo esterno, ma anche di mantenerlo vivo nella memoria fatta di emozioni e di sentimenti.
A volte il lutto difficile da risolvere è dovuto a catastrofi finanziarie dalle quali non ci si riesce a riprendere, da disastri naturali o da guerre che cambiano radicalmente il proprio modo di vivere, da esili forzati. L’elaborazione della perdita dipende molto dalle possibilità reali di ripresa, la persistenza delle cause che l’hanno determinata la complica seriamente.
In tutte le situazioni in cui la stagnazione del dolore della perdita fa parte delle circostanze avverse della vita (della cattiva sorte), l’assunzione dei farmaci (ansiolitici o antidepressivi) può dare sollievo e la psicoterapia (psicoanalitica e non) può aiutare ad alleggerire, superare l’invischiamento delle emozioni e l’appesantimento esistenziale. Non di rado il lutto si protrae a causa del desiderio di sostare nel dolore, senza aver fretta di andarsene, perché è così che si può andare più in profondità nella ricerca del proprio senso di esistere.
In tante circostanze si resta prigionieri della perdita perché essa riattiva aree melanconiche (il desiderio mutilato del suo oggetto) o depressive (l’inerzia psichica che sostituisce il desiderio) pregresse. Non necessariamente la sofferenza si manifesta con un quadro depressivo acclarato, ma bisogna avere poca dimestichezza con lo sguardo clinico (l’osservazione dei segni del malessere che coglie il loro accennare, alludere e non li fissa in rigide formule predeterminate di lettura) per non sapere che l’elemento depressivo può manifestarsi con forme spurie, grigie, ma persistenti. Identificare il lutto prolungato, un’area estesa e variegata del disagio psichico in cui la separazione tra fisiologico e patologico non sempre è chiara, come disturbo psichiatrico a sé stante, è privo di senso.
La crisi della psichiatria americana non pare vicina a una fine. A parte la collusione con le case farmaceutiche e il tecnicismo crescente, preoccupa la sua tendenza a vedere la sofferenza da fuori, incapace di ascoltarla, di apprendere dalla relazione con essa.
fonte: ilmanifesto
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