domenica 14 novembre 2021

La testimonianza

fonte: repubblica.it

Vitaliano Trevisan: "Io, un matto trattato senza pietà"
di Vitaliano Trevisan
Dopo il ricovero coatto in psichiatria, lo scrittore vicentino racconta la
sua esperienza. E denuncia le condizioni in cui si tengono i pazienti

Un uomo che cammina in piena luce, in Italia, è scoperto, nudo, indifeso.
\[…\] Cammina come una vittima, e come un colpevole. \[…\] È lì, scoperto,
inerme, esposto ai colpi, alle indagini, alle accuse. Non si può né
schermire, né difendere. È una condizione terribile: noi Italiani, non ci
possiamo difendere, mai, da nulla, né dall’assassino né dal giudice»
(Curzio Malaparte, Misura della Francia, Il Tempo, 4 dicembre 1952).

Né tantomeno, in un paese come l’Italia, ci si può difendere dallo
psichiatra, specie se, com’è il (fresco) caso di chi scrive, si è soggetti
a un A.S.O. (Accertamento Sanitario Obbligatorio), parente stretto del
famigerato, e ben più noto, T.S.O. (Trattamento Sanitario Obbligatorio),
ovvero accertamento e trattamento “psichiatrico” obbligatorio, giacché
sanitario sta qui per psichiatrico.

Iniziamo col dire che, del mio caso personale, non voglio e non posso dire
nulla, sia perché trattasi di questione strettamente privata, che peraltro
coinvolge anche dei minori; sia perché, anzi direi soprattutto, se dicessi
di aver subito l’accertamento psichiatrico in questione, e il successivo
internamento coatto, ingiustamente, sarebbe come se affermassi di non
essere pazzo, cosa che, com’è noto (vedi il famosissimo Comma 22) non è
possibile affermare.

Partiamo dalla fine, ovvero dalla lettera di dimissioni dell’Azienda Ulss
n.8 Berica, dell’Ospedale di Montecchio Maggiore, reparto di psichiatria,
firmata dal dott. Christian Di Marco, dove, oltre alla data del ricovero, 3
ottobre, e quella di dimissione, 13 ottobre, tra l’altro si legge: «Emesso
provvedimento di accertamento sanitario obbligatorio, paziente si recava e
ricoverava poi volontariamente in nosocomio per la valutazione ed il
ricovero».

Signor no, signore. Volontariamente, da domenica 3 ottobre, ho fatto solo
ciò che mi è stato permesso fare, cioè poco o nulla. Sulle circostanze del
mio “arresto sanitario”, per ragioni di spazio, dirò solo che l’Aso mi è
stato notificato, peraltro in forma esclusivamente verbale, nella stazione
dei Carabinieri di Crespadoro, mio comune di residenza, dal comandante
della stazione stessa, alla presenza di due vigili urbani del comando di
Arzignano, e un medico e due infermieri di un’unità del 118, venuti
appositamente in ambulanza per prelevarmi; ambulanza su cui sono costretto
a salire “volontariamente”, sotto la minaccia di un Tso.


L’accertamento vero e proprio, avviene infatti nell’Ospedale di Vicenza,
dove lo psichiatra di turno, dott. Gardellin, sempre sotto minaccia di un
Tso, mi costringe a ingurgitare, seduta stante, due compresse di tavor da
2,5 mg più due compresse di depakin da 500 mg. Così, io che, grazie a una
dieta ferrea, all’assunzione di pochi integratori vitaminici a base di
erbe, e a una disciplina fisica che seguo scrupolosamente, ormai da un paio
d’anni, non assumo più psico-farmaci, dopo circa venti minuti,
letteralmente svengo, per risvegliarmi la mattina seguente, intorno alle
cinque, in reparto, dove resto fino al pomeriggio verso le sedici, quando
un’altra ambulanza mi preleva e mi consegna al reparto psichiarico
dell’Ospedale di Montecchio Maggiore, dove vengo, sempre “volontariamente”,
ricoverato.

Cioè imprigionato, perché di questo si tratta, visto che tutte le finestre
hanno le sbarre, le porte sono chiuse a chiave e si è strettamente
sorvegliati, giorno e notte, da un manipolo di infermieri/e, che in realtà
sono, e per la maggior parte anche si comportano, dei secondini, che, come
tutti i sorveglianti che si rispettino, sono sempre pronti a sfogare la
propria frustrazione — le paghe sono basse e il lavoro ingrato — sui
pazienti/prigionieri, approfittando di un regolamento tanto assurdo quanto
legalmente discutibile, che prevede il sequestro dei cellulari, che vengono
concessi due ore la mattina, dalle 10 alle 12, e due al pomeriggio, dalle
16 alle 18, e dà la possibilità di fumare solo a orari prestabiliti, circa
ogni ora e mezza, all’aperto, in uno spazio chiuso, sotto la sorveglianza
di almeno un infermiere. E siccome gli infermieri e le infermiere hanno
sempre tanto da fare, come più o meno tutti i dipendenti pubblici, gli
orari saltano e, per telefonare o per fumare, tocca aspettare, o, nel caso
di un’emergenza, rassegnarsi a saltare il turno.

Il reparto, misto maschi e femmine e tutti i generi vari, occupa un’ala del
vecchio ospedale — ala ristrutturata, questo s’intende, ma ristrutturata
per gara d’appalto al “miglior prezzo di mercato”, cioè al ribasso — , si
compone di sei stanze da quattro posti letto cadauna, collegate da un
corridoio a L; una piccola sala mensa con annessa cucina, dove si
riscaldano e si servono, di malavoglia, le solite schifezze precotte,
ovvero la solita pasta scotta, riso scotto, carne e pesce del tutto
insapore eccetera, fornite, sempre in appalto al miglior prezzo eccetera,
dalla solita cooperativa che ha vinto il primo appalto almeno vent’anni fa,
e periodicamente ri-vinto tutti i successivi. Poi c’è la sala comune, che è
anche l’ingresso, con un grande tavolo per le attività comuni, e la
televisione. In bagni sono in tutto due, ma uno è spesso fuori uso. Ne
resta dunque solo uno, cui il prigioniero può accedere esclusivamente se
accompagnato da un’infermiera, che gli apre la porta chiusa a chiave e poi
aspetta, in anti-bagno, che il disgraziato abbia espletato, in tempi
ragionevoli, cioè brevi, i suoi bisogni corporali.

L’angolo inferiore sinistro del telaio in alluminio verniciato della
finestra del bagno è squarciato. Bel materiale l’alluminio: lamiere da 3/5
mm, resistenti, leggere, e, così scoperte, taglienti come un rasoio. Appena
esco, riferisco la situazione, con una certa veemenza e a gran voce, alla
capo-infermiera, che mi guarda sorpresa. L’angolo della finestra è rotto,
dice, e allora? E allora, dico, se solo avessi voluto, ora sarei steso con
le vene dei polsi recise. E voi, aggiungo quasi urlando, lasciate che i
vostri pazienti si chiudano a chiave in bagno con un rasoio a disposizione?
Lei non risponde. E per una volta, è il prigioniero a zittire il
sorvegliante. Il giorno seguente, quando vado in bagno, noto che lo
squarcio è stato malamente rabberciato con del nastro adesivo. Poi, ed è la
cosa più importante, ci sono loro, cioè noi: i pazienti psichiatrici. E,
sottoscritto a parte, chi sono questi prigionieri?

È presto detto: A., un ragazzo di 25 anni, dentro da quasi un anno, perché
a casa non lo rivogliono, così lui, e ha dei precedenti per consumo e
spaccio, scappato in Francia per evitare il Tso, e lì, dopo due mesi,
arrestato, imprigionato per mesi due, e infine estradato e internato in
attesa di essere accolto in una qualche comunità. Poi c’è F, 19 anni,
biondo, occhi azzurri, frangia sugli occhi, rapper maledetto che ha tentato
il suicidio, e ora è dentro per uso di sostanze stupefacenti e alcol, con
cui lego, chiacchiero di musica, e mi metto d’accordo per una session
post-prigionia. E G., 23 anni, anche lei bionda, pelle bianchissima, alta,
slanciata, bellissime mani che tremano, e bellissimo viso dell’est dagli
zigomi alti, tipico di questi luoghi, fresca di tre giorni di rianimazione
dopo un tentato suicidio. Ed E, madre sola di 45 anni con problemi di
alcolismo, cui i servizi sociali hanno appena tolto il figlio di anni 8. S,
27 anni, padre sardo e madre veneta, e perciò, così lui, sardo in Veneto e
veneto in Sardegna, sotto metadone da anni tre, parcheggiato in reparto in
attesa di essere accolto in comunità. Poi I. e C., due signore di una certa
età, una anche appena operata all’anca, dentro non so per cosa. E infine,
isolati in stanza in istato di contenzione, cioè legati al letto, un
vecchio demente e un cinquantenne, minorato dalla nascita, che continua ad
agitarsi, parlare e urlare, continuamente, giorno e notte, internato da un
paio di settimane, per dar modo alla madre, ormai ottantenne, che lo ha
sempre tenuto con sé, ma ormai non ce la fa più, di avere un paio di
settimane di respiro.

In questa compagnia, e non certo per merito di un personale scontroso e
permalosissimo, a partire da psichiatri e psicologi, i quali, se solo ci si
sogna di porsi con loro in rapporto dialettico, cioè si sfida il principio
di autorità, si irritano e non si peritano di interrompere il paziente
alzando la voce, e di zittirlo minacciando un trattamento obbligatorio, ma
forse proprio grazie a questo, i miei giorni di detenzione scorrono via
abbastanza velocemente. Il pomeriggio di mercoledì 13 ottobre, dopo aver
firmato una lettera di dimissioni falsa, abborracciata e piena di
inesattezze, vengo rilasciato.

Sono passate un paio di settimane. Lo shock è riassorbito. Sto scrivendo un
reportage, come fossi stato non un paziente, ma un inviato speciale in
incognito.
A questo riguardo, resta da dire una cosa. È una cosa che tutti più o meno
sanno, ma nessuno dice, e che gli statistici vari, sempre così pronti e
zelanti quando si tratta di fornire numeri e dati a supporto di questa o
quella teoria filo-governativa, si guardano bene dal rilevare, e la cosa
che resta da dire è che i ricoverati, tutti i ricoverati, a prescindere da
sesso e religione, hanno in comune una cosa: sono tutti, ripeto tutti
italiani, di classe proletaria e sottoproletaria. E sono bianchi. Perché
c’è poco da fare o da dire: è il proletariato e il sottoproletariato
italiano bianco, oggi, a rappresentare la classe sociale meno protetta di
tutte, la meno “vista” di tutte. Agli italiani bianchi di classe sociale
inferiore, l’assistenza sociale di stato può espropriare i bambini, mentre
la psichiatria di stato, dal canto suo, può internare a colpi di Aso e Tso,
e trattare ogni cosa a forza di psicofarmaci, senza che nessuna delle
innumerevoli associazioni che lotta per i cosiddetti diritti civili abbia
niente da dire.

Ai tempi di Berlusconi, in una delle mie rare apparizioni televisive,
Dandini mi chiese se fossi di destra o di sinistra. Risposi: forse sono di
destra, risposi, ma non di questa destra. Sono passati più di dieci anni.
Ora, dopo aver letto Gramsci, se qualcuno mi facesse la stessa domanda
risponderei: non so, forse sono di sinistra. Ma non di questa sinistra.



Nota
Ora quel reparto è stato chiuso
Il reparto di psichiatria dell’ospedale di Montecchio Maggiore (Vicenza) ha
chiuso lo scorso 3 novembre. L’intera struttura — che ha ospitato la
degenza coatta dello scrittore Vitaliano Trevisan il cui racconto
riportiamo in queste pagine — è stata trasferita al San Bortolo di Vicenza,
stessa azienda sanitaria Ussl 8 Berica. La decisione è arrivata come un
fulmine a ciel sereno in Veneto tanto da sollevare le domande del Partito
democratico: il capogruppo in Regione Giacomo Possamai ha posto se non
dubbi sulla trasparenza dell’operazione, almeno quesiti. «Quali sono le
ragioni della chiusura improvvisa del reparto di Psichiatria dell’ospedale
di Montecchio e del trasferimento al San Bortolo? E, soprattutto, sarà
realmente una scelta temporanea?», si chiede il consigliere regionale del
Veneto. Risponde l’Ussl in una nota: «Le degenze del servizio psichiatrico
saranno riattivate a Montecchio Maggiore una volta completato il nuovo
ospedale». Forse nel 2025.

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