4 dicembre 2019
Di Agnese Baini.
«In un’azione di rovesciamento
istituzionale, il rifiuto dell’istituzione potrebbe essere il primo
passo comune a tutti i livelli, internati ed équipe curante».
Franca Ongaro Basaglia, 1968
Nell’
episodio di novembre di Ghinea, una newsletter femminista, si accennava ad un articolo sul penitenziario femminile di Pozzuoli:
Da qui il mare non si vede, ascoltare le donne del carcere di Pozzuoli,
scritto da Luigi Romano e Gaia Tessitore, avvocati dell’associazione
Antigone. Il carcere femminile di Pozzuoli è situato all’interno di un
convento poi trasformato in manicomio giudiziario e ora – con un leggero
e insignificante cambio di destinazione d’uso – un carcere. Una vera
Istituzione, mal gestita, in cui ci sono poche regole di sopravvivenza:
rispettare le gerarchie e non discutere.
Si scopre così che quando qualche
detenuta ha qualche problema, per esempio non riesce a dormire (per
l’umidità, per il riscaldamento rotto, per i rumori incessanti di
sottofondo) vengono somministrati (regalati?) psicofarmaci.
Benzodiazepine per risolvere problemi di gestione.
Benzodiazepine e ansiolitici
sono quotidianamente somministrati in carcere, anche in mancanza di una
specifica diagnosi. Alla mancanza di un percorso di sostegno
psicologico, si sopperisce con la contenzione chimica continua, a bassa
intensità. Molte donne ci raccontano di compresse di cui non conoscono
neanche il nome, ma solo l’effetto: «Mi fa dormire». Quando chiedo se le
usino anche fuori, quasi tutte dicono di no, non ne hanno fatto mai uso
prima. «Ma basta che chiedi, ti danno quello che vuoi per farti stare
tranquilla».
Una pillola per risolvere problemi
Questo è ciò che avviene. Si può tranquillamente chiamare contenzione chimica:
non ci sono delle persone davanti, con i proprio bisogni, ma dei
problemi che vengono risolti facilmente somministrando qualsiasi cosa
venga in mente pur di non avere disturbo. A me questo fa schifo.
I problemi (causati da una pessima
gestione) non si possono risolvere con un farmaco, non bisognerebbe
nemmeno arrivare a pensarlo. Invece, viene fuori che una persona
detenuta su due abusa di psicofarmaci e circa il 46% delle prescrizioni
che avvengono dentro le mura del carcere riguarda psicofarmaci,
soprattutto ansiolitici. Non ci si rende conto che una persona arriva in
un ambiente disumano, privato di ogni suo bene, allontanato da
qualsiasi relazione umana di amicizia o di amore, lanciato nel vuoto
dove il tempo non passa e nessuno si occupa di lui/lei. Il supporto
psicologico, come a Pozzuoli, non esiste e la soluzione è far sparire la
sofferenza e il disagio – disagio che è lo Stato stesso a creare
mantenendo vive queste istituzioni – riempiendo di psicofarmaci. Gli
psicofarmaci non risolvono problemi, anzi è stato dimostrato che causano
danni collaterali enormi: una persona che assume psicofarmaci ha
un’aspettativa di vita di 15 anni inferiore alla media.
Per approfondire la questione dell’abuso
degli psicofarmaci e di come siano diventati una nuova forma di
contenzione, si può leggere
Il manicomio chimico di Piero Cipriano.
[Per tornare sempre sul mio amato pop,
sarebbe bello che nelle canzoni e nei film non si parlasse di
psicofarmaci come fossero caramelle alla frutta, perché dalla mia
piccola bolla sembra quasi che se dichiari di prendere ansiolitici tu
sia fico: «Xananas / Vieni a rilassarti, gioia / Xananas / Ne prendo un
po’ anche da sola / Xananas / Peccati di gola / Xananas / È sempre l'ora
per un po’ di».]
Di cosa parliamo quando parliamo di carcere
Questa assurda situazione che si verifica a Pozzuoli e non solo,
dovrebbe farci rimettere in discussione l’esistenza delle strutture
carcerarie: per queste donne di Pozzuoli e per tutte quelle persone che
l’Istituzione priva di dignità e di libertà.
In Italia ci sono 191 Istituzioni
carcerarie. A marzo 2019 erano intrappolate al loro interno 60.0512
persone – su 46 mila posti disponibili. La regione con più detenuti è la
Lombardia. Le donne sono 2.659 (4,4% del totale). Di quasi 200
istituti, solo 4 sono esclusivamente femminili (di cui uno è quello di
Pozzuoli). C’è una media di quattro suicidi al mese. Non sto esagerando,
questi sono i
dati diffusi dalla Polizia Penitenziaria.
Altri dati sono elaborati
dall’associazione Antigone, che dalla fine degli anni ’80 si dedica ai
diritti delle persone detenute; ogni anno redige un “rapporto sulle
condizione di detenzione” –
qua si può trovare l’ultimo relativo al 2018. La Corte di Strasburgo ha stabilito che bisogna garantire ad ogni persona detenuta
3 metri quadri di spazio, se questo non viene rispettato si tratta di
trattamento inumano e degradante.
Si scopre però che solo 16 carceri in Italia garantiscono questi tre
metri quadri di spazio (lo spazio occupato da un letto matrimoniale è
leggermente più grande). La Polizia penitenziaria parla di 61 suicidi,
Antigone di 67 – era dal 2009 che non c’era un numero così alto: si
tratta di un suicidio ogni 4/5 giorni. Anche se ce ne fosse soltanto 1
all’anno sarebbe terribile.
Questi dati dimostrano l’insostenibilità dell’Istituzione carcere.
Facciamola rotolare questa testa del re!
Qualche settimana fa, intorno ad un
tavolo parlando delle REMS, ho chiesto perché non riusciamo a
riconoscere il carcere come un luogo di reclusione totale, un luogo che
dimostra che con la detenzione non si risolvono i problemi ma li si
alimentano, un luogo in cui il soggetto che vi entra perde il suo essere
un soggetto. La risposta non arriva, non riusciamo a vedere il carcere
come un’istituzione che va distrutta e fatta sparire dalla faccia della
terra. E non ci riusciamo mentre discutiamo all’interno degli spazi del
parco San Giovanni a Trieste, quello che è stato un manicomio per quasi
un secolo e che ora è stato trasformato in uno dei posti più magici che
io conosca. Anzi, non stiamo nemmeno mettendo in discussione l’esistenza
del carcere e ogni tanto qualcuno se ne esce con qualche frase che
sottolinea la necessità della pena detentiva. Questo un po’ preoccupa.
Una persona mi ha detto di leggere un testo del 1984,
Tagliare ancora la testa del re (qualche frase sparsa si può trovare
qua):
Dal momento in cui l’internato entra in
carcere, o poco tempo dopo, non ha più importanza il suo reato né tanto
meno la sua storia. Assume l’abito dell’istituzione e da quel momento
l’identità del carcerato. In ordine a questa nuova identità sarà giorno
per giorno visto, osservato, giudicato. Perché quel che conta è che egli
sia appiattito e riconvertito in una scheggia seriale di una istituzione normativa. A nessuno interesserà più il suo reato, il suo perché. A noi sì.
Dovremmo indirizzare lì le nostre forze,
i nostri pensieri, il nostro agire: dove le vulnerabilità sono
maggiori. Dove ci sono delle persone in carcere, trattenute in
condizioni disumane, riempite di psicofarmaci per non dar fastidio. Non
possiamo avere il lusso di pensare che queste persone siano Altro da
noi, che siano detenute quindi criminali quindi pericolose.
Sempre qualche settimana fa, un’altra persona ha ripreso una frase potente, can the subaltern speak?,
aggiungendo altri verbi: se le subalterne non possono parlare, possono
almeno ballare? Cantare? Camminare? Io mi chiedo: possono le detenute di
Pozzuoli, fare una qualsiasi azione?
La risposta è no, quindi facciamo subito rotolare la testa del re perché questa risposta va cambiata.