Testo scritto per il blog CripHumAnimal – [leggi la versione inglese / read English version]
Da qualche anno, nell’ambito dell’attivismo antispecista e dei
critical animal studies, si parla della resistenza animale. Contestando
le retoriche paternaliste in stile “we are the voice of the voiceless”,
molto diffuse fra i difensori dei diritti animali, alcuni gruppi e autori
sottolineano che i nonumani si ribellano quotidianamente allo
sfruttamento: evadono dagli allevamenti, dagli zoo e dai laboratori,
fuggono dai camion diretti al mattatoio, aggrediscono i domatori nei
circhi, si rifiutano di collaborare, si lasciano morire in tutti i
luoghi di prigionia. Il collettivo Resistenza Animale,
in Italia, documenta da anni queste ribellioni e cerca di favorire la
solidarietà, accanto a una visione dell’attivismo in cui gli umani non
siano più gli eroici salvatori degli altri animali, ma compagni di lotta
posizionati al loro fianco.
Non
è un caso, probabilmente, che questo nuovo approccio alla liberazione
animale abbia destato interesse nel movimento antipsichiatrico,
favorendo dei momenti di dibattito
sull’intersezione fra le due lotte. In particolare, Giuseppe Bucalo,
attivista e autore che ha creato, in Sicilia, reti di sostegno ai
“matti” libere dall’interferenza delle istituzioni e del sapere
psichiatrico, ha espresso una forte affinità con la resistenza animale.
Secondo Bucalo, vi sono molte analogie fra il controllo che la società
opera nei confronti dei modi di pensare non incasellabili nella
razionalità standard e il controllo dei nonumani che provano a
disattendere il ruolo che è stato loro assegnato dalla nostra società.
Lo stupore, l’ansia e la violenza repressiva suscitate dai cosiddetti
“malati di mente” e dagli animali fuggitivi nello spazio pubblico, per
esempio, sono molto simili. Il testo di Sarat Colling “Animal without Borders”
mostra come fino a poco tempo fa – e talvolta ancora oggi – gli animali
in fuga siano descritti dai giornali come “impazziti” come “matti”.
Per Bucalo, anche le procedure di riabilitazione forzata che la
psichiatria elabora per disciplinare le vite di chi non si piega alla
“normalità” sono strategie di addomesticamento, con riferimento
all’addomesticamento degli animali – dalla tigre cui si insegna a
ripetere una serie di esercizi funzionali allo spettacolo, al cane cui
si impongono una serie di regole di vita stabilite dal padrone umano. Il caso dei cani randagi è emblematico. Lo stesso Bucalo racconta che in Sicilia ha dovuto chiedersi in che modo intervenire – e se intervenire
– di fronte a cani “senza padrone”. La mentalità dell’animalismo
mainstream, di fronte a un cane vagante sul territorio, è spesso simile a
quella della psichiatria di fronte al “folle”: si vede solo un soggetto
“fuori luogo”, pericoloso per la società e in pericolo al tempo stesso,
e quindi da tutelare senza chiedersi quali siano i suoi reali bisogni.
Il che significa, nella maggiorparte dei casi, rinchiuderlo in un
manicomio o in un canile per il suo stesso bene. Nella
narrazione degli incontri con i cani liberi o con gli animali “da carne”
in fuga – ma anche nelle pratiche di contenzione, di sedazione o
abbattimento – questi soggetti imprevisti sono spesso
infantilizzati e disabilizzati. Persino quei cani che scelgono
liberamente di vivere in branco ai margini degli insediamenti umani
senza ambire alle “comodità” di un’abitazione, e che non hanno
particolari problemi di sostentamento o di salute, vengono considerati
delle vere e proprie vittime da tutelare, incapaci di provvedere a se
stesse. Un tipico esempio di disabilizzazione – oltre a quella molto concreta cui sono sottoposti i prigionieri nonumani,
cui viene tagliato il becco, rese inutilizzabili le zampe, tagliate le
corde vocali – è quello degli appelli a catturare le mucche fuggite dal
mattatoio perché nelle foreste “non sono in grado sopravvivere”.
Oltre che di una questione strettamente politica, si tratta di una
questione di comunicazione. Il dispositivo psichiatrico, secondo Bucalo,
induce a leggere i messaggi non usuali di alcuni individui attraverso
la lente della “malattia mentale”. Ciò porta a vedere conflitti fra
persone là dove non necessariamente esistono, e, quando esistono, a
darne una lettura riduttiva che impedisce di comprenderne la natura ed
entrare in dialogo per risolverlo. Analogamente, il fatto di utilizzare
etichette ipersemplicistiche come “cavallo imbizzarrito” o “toro
scatenato” impedisce di cogliere l’espressione di un disagio dei
nonumani relativo alle proprie condizioni di vita. Se la psichiatria
parte dall’assunto di una distinzione quasi ontologica fra “sani” e
“malati”, condannando i secondi all’incomunicabilità, in modo simile lo
specismo rende i nonumani letteralmente senza voce, nonostante
l’etologia e l’esperienza millenaria di rapporto con gli animali
“domestici” dimostrino che umani e nonumani sono perfettamente in grado
di comunicare, se soltanto lo desiderano.
tratto da: https://resistenzanimale.noblogs.org
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