di Giuseppe Bucalo
“Una linea è stata tracciata fra se stesso e se stesso
e fra se stesso e gli altri.
Si nega che questa linea sia stata tracciata.
Non c’è nessuna linea.
Ma non provate ad attraversarla”.
(R.D. Laing)
E' un errore tragico (a cui non sembra sfuggire neanche il più
avvertito dei rivoluzionari) continuare a pensare alla "questione
psichiatrica" come alla ricerca del modo più efficace e terapeutico di
rispondere ad una malattia, alla sofferenza o al disagio degli
individui.
La maggior parte delle critiche alla psichiatria sembrano
nascere (e nascono) quando l'opinione pubblica, non senza un pizzico di
ipocrisia, si avvede che la stessa "tradisce" questo nobile scopo.
Ci si indigna, si organizzano campagne, si denunciano abusi e pratiche
inumane, ma si resta ancorati al "che fare ?" in alternativa, invece di.
Al di là di qualsiasi nefandezza sia stata e sia commessa a suo
nome, il dovere di "prendersi cura" delle persone che si afferma
soffrano, siano malate o esprimano un disagio mentale, rimane un obbligo
morale ed etico da assolvere, indiscutibile e indiscusso.
Se non
la psichiatria, si dice, forse la psicoterapia, la naturopatia, il
dialogo aperto, l'agopuntura, l'astrologia, la dieta ...qualsiasi cosa
pur di non "abbandonare" o "lasciare a se stesse" le persone.
Il
tutto può funzionare (e sembra funzionare) se e quando le persone
condividano di "stare male" e di avere necessità di un aiuto; se e
quando le persone che ritengono di aver bisogno di un aiuto, condividono
l'aiuto che siamo disposti ad offrire.
Diversamente, quando le
persone si oppongono o ritengono di non aver bisogno di alcun aiuto, la
"cura" si trasforma d'incanto in una "pena" e "il prendersi cura" in una
"tortura".
Non c'è "buona" pratica o intenzione che tenga.
Nel
momento in cui l'opinione di "chi cura" diverge da quella di chi "deve
essere curato", la psichiatria o il prendersi cura si rivelano per
quello che sono: la negazione del valore, della libertà di scelta e
dell'esistenza stessa dell'altro.
Ha un bel dire Franco Basaglia
che la follia «è una condizione umana. In noi la follia esiste ed è
presente come lo è la ragione. Il problema è che la società, per dirsi
civile, dovrebbe accettare tanto la ragione quanto la follia», quando i
Basagliani e la gente di buon senso continuano a pensare che è
preferibile essere (considerati) normali e che dalla follia bisogna
"guarire", essere curati o, come si usa dire adesso, "riaversi"
(recovery).
Il fatto o la necessità che si debba "guarire", essere
curati o riaversi dalla normalità, non sembra all'ordine del giorno e il
solo porre la questione ci accomuna al popolo dei deliranti divergenti
bisognosi di "cure".
Su cosa basiamo tutte le nostre certezze sul
primato della "normalità" ? Non tanto, o non solo, sulla convinzione che
nessuno potrebbe "davvero" dire, fare, pensare o credere le cose che
chi è definito "folle" dice, fa, pensa o crede; ma piuttosto sul fatto
che nessuno di noi potrebbe mai desiderare di essere trattato come
matto.
Se, a rigor di logica, non possiamo dire che la follia sia
una condizione di umana sofferenza, infatti, possiamo certamente
affermare che l'essere trattati come folli, certamente fa soffrire e ci
lascia in balia del giudizio e del potere altrui.
Potremmo dire che
la "follia" non è tanto una condizione umana, quanto un'etichetta
sociale che si applica, a seconda dei luoghi e dei tempi, ad alcune
condotte e modi di essere umani e che produce la progressiva perdita da
parte della persona cosi designata del suo potere e della sua libertà di
scelta.
Questa progressiva perdita della propria autonomia
personale e sociale, non è tanto o solo dovuta a scelte individuali, ma è
il frutto del sistematico disconoscimento del punto di vista del
"bisognoso di cure", primo fra tutti l'affermazione di non avere bisogno
di cure.
Il "rifiuto delle cure" rimane in sé un tabù e la cartina
di tornasole dell'ipocrisia e della mistificazione del pensiero
psichiatrico.
Finché le persone accettano la normalità come norma e
condizione naturale dell'uomo e cercano di adeguarsi alle aspettative
dei "curatori", tutto può apparire sensato e finanche "terapeutico". Non
appena i "pazienti designati" rivendicano il valore e il diritto a
sentire ed essere quello che sono, ecco che scatta la coartazione
fisica, chimica o sociale con l'invalidazione, anche giuridica, dei
propri diritti e la "presa in carico" della propria esistenza da parte
dei "curatori".
E' chiaro che chi è definito "folle" ha un'unica e
sola alternativa: accettare il punto di vista di chi intende, ha il
dovere o l'obbligo di curarlo. Egli deve smettere di fare quello che fa,
pensare quello che pensa, dire quello che dice. Deve fare abiura
pubblica del suo credo e convertirsi alla fede psichiatrica.
Chi non
lo fa, quando riesce a sfuggire all'internamento o all'intrattenimento
psichiatrico, rimane imprigionato in quello che i buddisti chiamano "il
passaggio di frontiera privo di porte".
Un non luogo che sta fuori
dalla realtà condivisa e che non è segnato sulle mappe. Impossibile da
trovare ma su cui ci si ritrova senza sapere "come" ma conoscendo bene
tutti i "perché".
E allora forse non servono "curatori", ma
esploratori capaci di raggiungerci e compagni di viaggio capaci di
accettare il rischio di perdersi o di ritrovarsi (perché come dice
Horderlin "La dove c'é il pericolo, cresce anche ciò che salva").
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