venerdì 23 novembre 2018

IL PASSAGGIO DI FRONTIERA PRIVO DI PORTE

di Giuseppe Bucalo

“Una linea è stata tracciata fra se stesso e se stesso
e fra se stesso e gli altri.
Si nega che questa linea sia stata tracciata.
Non c’è nessuna linea.
Ma non provate ad attraversarla”.
(R.D. Laing)

E' un errore tragico (a cui non sembra sfuggire neanche il più avvertito dei rivoluzionari) continuare a pensare alla "questione psichiatrica" come alla ricerca del modo più efficace e terapeutico di rispondere ad una malattia, alla sofferenza o al disagio degli individui.
La maggior parte delle critiche alla psichiatria sembrano nascere (e nascono) quando l'opinione pubblica, non senza un pizzico di ipocrisia, si avvede che la stessa "tradisce" questo nobile scopo.
Ci si indigna, si organizzano campagne, si denunciano abusi e pratiche inumane, ma si resta ancorati al "che fare ?" in alternativa, invece di.
Al di là di qualsiasi nefandezza sia stata e sia commessa a suo nome, il dovere di "prendersi cura" delle persone che si afferma soffrano, siano malate o esprimano un disagio mentale, rimane un obbligo morale ed etico da assolvere, indiscutibile e indiscusso.
Se non la psichiatria, si dice, forse la psicoterapia, la naturopatia, il dialogo aperto, l'agopuntura, l'astrologia, la dieta ...qualsiasi cosa pur di non "abbandonare" o "lasciare a se stesse" le persone.
Il tutto può funzionare (e sembra funzionare) se e quando le persone condividano di "stare male" e di avere necessità di un aiuto; se e quando le persone che ritengono di aver bisogno di un aiuto, condividono l'aiuto che siamo disposti ad offrire.
Diversamente, quando le persone si oppongono o ritengono di non aver bisogno di alcun aiuto, la "cura" si trasforma d'incanto in una "pena" e "il prendersi cura" in una "tortura".
Non c'è "buona" pratica o intenzione che tenga.
Nel momento in cui l'opinione di "chi cura" diverge da quella di chi "deve essere curato", la psichiatria o il prendersi cura si rivelano per quello che sono: la negazione del valore, della libertà di scelta e dell'esistenza stessa dell'altro.
Ha un bel dire Franco Basaglia che la follia «è una condizione umana. In noi la follia esiste ed è presente come lo è la ragione. Il problema è che la società, per dirsi civile, dovrebbe accettare tanto la ragione quanto la follia», quando i Basagliani e la gente di buon senso continuano a pensare che è preferibile essere (considerati) normali e che dalla follia bisogna "guarire", essere curati o, come si usa dire adesso, "riaversi" (recovery).
Il fatto o la necessità che si debba "guarire", essere curati o riaversi dalla normalità, non sembra all'ordine del giorno e il solo porre la questione ci accomuna al popolo dei deliranti divergenti bisognosi di "cure".
Su cosa basiamo tutte le nostre certezze sul primato della "normalità" ? Non tanto, o non solo, sulla convinzione che nessuno potrebbe "davvero" dire, fare, pensare o credere le cose che chi è definito "folle" dice, fa, pensa o crede; ma piuttosto sul fatto che nessuno di noi potrebbe mai desiderare di essere trattato come matto.
Se, a rigor di logica, non possiamo dire che la follia sia una condizione di umana sofferenza, infatti, possiamo certamente affermare che l'essere trattati come folli, certamente fa soffrire e ci lascia in balia del giudizio e del potere altrui.
Potremmo dire che la "follia" non è tanto una condizione umana, quanto un'etichetta sociale che si applica, a seconda dei luoghi e dei tempi, ad alcune condotte e modi di essere umani e che produce la progressiva perdita da parte della persona cosi designata del suo potere e della sua libertà di scelta.
Questa progressiva perdita della propria autonomia personale e sociale, non è tanto o solo dovuta a scelte individuali, ma è il frutto del sistematico disconoscimento del punto di vista del "bisognoso di cure", primo fra tutti l'affermazione di non avere bisogno di cure.
Il "rifiuto delle cure" rimane in sé un tabù e la cartina di tornasole dell'ipocrisia e della mistificazione del pensiero psichiatrico.
Finché le persone accettano la normalità come norma e condizione naturale dell'uomo e cercano di adeguarsi alle aspettative dei "curatori", tutto può apparire sensato e finanche "terapeutico". Non appena i "pazienti designati" rivendicano il valore e il diritto a sentire ed essere quello che sono, ecco che scatta la coartazione fisica, chimica o sociale con l'invalidazione, anche giuridica, dei propri diritti e la "presa in carico" della propria esistenza da parte dei "curatori".
E' chiaro che chi è definito "folle" ha un'unica e sola alternativa: accettare il punto di vista di chi intende, ha il dovere o l'obbligo di curarlo. Egli deve smettere di fare quello che fa, pensare quello che pensa, dire quello che dice. Deve fare abiura pubblica del suo credo e convertirsi alla fede psichiatrica.
Chi non lo fa, quando riesce a sfuggire all'internamento o all'intrattenimento psichiatrico, rimane imprigionato in quello che i buddisti chiamano "il passaggio di frontiera privo di porte".
Un non luogo che sta fuori dalla realtà condivisa e che non è segnato sulle mappe. Impossibile da trovare ma su cui ci si ritrova senza sapere "come" ma conoscendo bene tutti i "perché".
E allora forse non servono "curatori", ma esploratori capaci di raggiungerci e compagni di viaggio capaci di accettare il rischio di perdersi o di ritrovarsi (perché come dice Horderlin "La dove c'é il pericolo, cresce anche ciò che salva").

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