Sui vari articoli dei giornali si legge di un egiziano fermato col taser la scorsa notte a Milano dato che stava danneggiando con un martello alcune auto vicino ad una pensilina. A seconda della convenienza dei media la cronologia è differente, ovvero nei giornali ai quali conviene scrivere in un certo modo viene fatto notare come l'utilizzo del taser sia successivo al morso della mano del poliziotto. In realtà pare che il taser sia stato utilizzato in precedenza e solo in seguito per 'disarmare dall'accendino che stringeva nel pugno' il 34enne abbia poi morso il poliziotto staccandogli un dito..Tra l'altro pare che più di una pattuglia sia stata impiegata per l'operazione.Ovviamente la chiusa finale, in tutti gli articoli a prescendere, è che l'egiziano avesse conclamati problemi psichiatrici e ciò mette il cuore in pace a lettori, pennivendoli,perbenisti, paladini del benessere vari.
Per chi avesse voglia cercate pure in rete le varie versioni con cronologie differenti con parole chiave: egiziano taser milano.
domenica 25 novembre 2018
venerdì 23 novembre 2018
IL PASSAGGIO DI FRONTIERA PRIVO DI PORTE
di Giuseppe Bucalo
“Una linea è stata tracciata fra se stesso e se stesso
e fra se stesso e gli altri.
Si nega che questa linea sia stata tracciata.
Non c’è nessuna linea.
Ma non provate ad attraversarla”.
(R.D. Laing)
E' un errore tragico (a cui non sembra sfuggire neanche il più avvertito dei rivoluzionari) continuare a pensare alla "questione psichiatrica" come alla ricerca del modo più efficace e terapeutico di rispondere ad una malattia, alla sofferenza o al disagio degli individui.
La maggior parte delle critiche alla psichiatria sembrano nascere (e nascono) quando l'opinione pubblica, non senza un pizzico di ipocrisia, si avvede che la stessa "tradisce" questo nobile scopo.
Ci si indigna, si organizzano campagne, si denunciano abusi e pratiche inumane, ma si resta ancorati al "che fare ?" in alternativa, invece di.
Al di là di qualsiasi nefandezza sia stata e sia commessa a suo nome, il dovere di "prendersi cura" delle persone che si afferma soffrano, siano malate o esprimano un disagio mentale, rimane un obbligo morale ed etico da assolvere, indiscutibile e indiscusso.
Se non la psichiatria, si dice, forse la psicoterapia, la naturopatia, il dialogo aperto, l'agopuntura, l'astrologia, la dieta ...qualsiasi cosa pur di non "abbandonare" o "lasciare a se stesse" le persone.
Il tutto può funzionare (e sembra funzionare) se e quando le persone condividano di "stare male" e di avere necessità di un aiuto; se e quando le persone che ritengono di aver bisogno di un aiuto, condividono l'aiuto che siamo disposti ad offrire.
Diversamente, quando le persone si oppongono o ritengono di non aver bisogno di alcun aiuto, la "cura" si trasforma d'incanto in una "pena" e "il prendersi cura" in una "tortura".
Non c'è "buona" pratica o intenzione che tenga.
Nel momento in cui l'opinione di "chi cura" diverge da quella di chi "deve essere curato", la psichiatria o il prendersi cura si rivelano per quello che sono: la negazione del valore, della libertà di scelta e dell'esistenza stessa dell'altro.
Ha un bel dire Franco Basaglia che la follia «è una condizione umana. In noi la follia esiste ed è presente come lo è la ragione. Il problema è che la società, per dirsi civile, dovrebbe accettare tanto la ragione quanto la follia», quando i Basagliani e la gente di buon senso continuano a pensare che è preferibile essere (considerati) normali e che dalla follia bisogna "guarire", essere curati o, come si usa dire adesso, "riaversi" (recovery).
Il fatto o la necessità che si debba "guarire", essere curati o riaversi dalla normalità, non sembra all'ordine del giorno e il solo porre la questione ci accomuna al popolo dei deliranti divergenti bisognosi di "cure".
Su cosa basiamo tutte le nostre certezze sul primato della "normalità" ? Non tanto, o non solo, sulla convinzione che nessuno potrebbe "davvero" dire, fare, pensare o credere le cose che chi è definito "folle" dice, fa, pensa o crede; ma piuttosto sul fatto che nessuno di noi potrebbe mai desiderare di essere trattato come matto.
Se, a rigor di logica, non possiamo dire che la follia sia una condizione di umana sofferenza, infatti, possiamo certamente affermare che l'essere trattati come folli, certamente fa soffrire e ci lascia in balia del giudizio e del potere altrui.
Potremmo dire che la "follia" non è tanto una condizione umana, quanto un'etichetta sociale che si applica, a seconda dei luoghi e dei tempi, ad alcune condotte e modi di essere umani e che produce la progressiva perdita da parte della persona cosi designata del suo potere e della sua libertà di scelta.
Questa progressiva perdita della propria autonomia personale e sociale, non è tanto o solo dovuta a scelte individuali, ma è il frutto del sistematico disconoscimento del punto di vista del "bisognoso di cure", primo fra tutti l'affermazione di non avere bisogno di cure.
Il "rifiuto delle cure" rimane in sé un tabù e la cartina di tornasole dell'ipocrisia e della mistificazione del pensiero psichiatrico.
Finché le persone accettano la normalità come norma e condizione naturale dell'uomo e cercano di adeguarsi alle aspettative dei "curatori", tutto può apparire sensato e finanche "terapeutico". Non appena i "pazienti designati" rivendicano il valore e il diritto a sentire ed essere quello che sono, ecco che scatta la coartazione fisica, chimica o sociale con l'invalidazione, anche giuridica, dei propri diritti e la "presa in carico" della propria esistenza da parte dei "curatori".
E' chiaro che chi è definito "folle" ha un'unica e sola alternativa: accettare il punto di vista di chi intende, ha il dovere o l'obbligo di curarlo. Egli deve smettere di fare quello che fa, pensare quello che pensa, dire quello che dice. Deve fare abiura pubblica del suo credo e convertirsi alla fede psichiatrica.
Chi non lo fa, quando riesce a sfuggire all'internamento o all'intrattenimento psichiatrico, rimane imprigionato in quello che i buddisti chiamano "il passaggio di frontiera privo di porte".
Un non luogo che sta fuori dalla realtà condivisa e che non è segnato sulle mappe. Impossibile da trovare ma su cui ci si ritrova senza sapere "come" ma conoscendo bene tutti i "perché".
E allora forse non servono "curatori", ma esploratori capaci di raggiungerci e compagni di viaggio capaci di accettare il rischio di perdersi o di ritrovarsi (perché come dice Horderlin "La dove c'é il pericolo, cresce anche ciò che salva").
“Una linea è stata tracciata fra se stesso e se stesso
e fra se stesso e gli altri.
Si nega che questa linea sia stata tracciata.
Non c’è nessuna linea.
Ma non provate ad attraversarla”.
(R.D. Laing)
E' un errore tragico (a cui non sembra sfuggire neanche il più avvertito dei rivoluzionari) continuare a pensare alla "questione psichiatrica" come alla ricerca del modo più efficace e terapeutico di rispondere ad una malattia, alla sofferenza o al disagio degli individui.
La maggior parte delle critiche alla psichiatria sembrano nascere (e nascono) quando l'opinione pubblica, non senza un pizzico di ipocrisia, si avvede che la stessa "tradisce" questo nobile scopo.
Ci si indigna, si organizzano campagne, si denunciano abusi e pratiche inumane, ma si resta ancorati al "che fare ?" in alternativa, invece di.
Al di là di qualsiasi nefandezza sia stata e sia commessa a suo nome, il dovere di "prendersi cura" delle persone che si afferma soffrano, siano malate o esprimano un disagio mentale, rimane un obbligo morale ed etico da assolvere, indiscutibile e indiscusso.
Se non la psichiatria, si dice, forse la psicoterapia, la naturopatia, il dialogo aperto, l'agopuntura, l'astrologia, la dieta ...qualsiasi cosa pur di non "abbandonare" o "lasciare a se stesse" le persone.
Il tutto può funzionare (e sembra funzionare) se e quando le persone condividano di "stare male" e di avere necessità di un aiuto; se e quando le persone che ritengono di aver bisogno di un aiuto, condividono l'aiuto che siamo disposti ad offrire.
Diversamente, quando le persone si oppongono o ritengono di non aver bisogno di alcun aiuto, la "cura" si trasforma d'incanto in una "pena" e "il prendersi cura" in una "tortura".
Non c'è "buona" pratica o intenzione che tenga.
Nel momento in cui l'opinione di "chi cura" diverge da quella di chi "deve essere curato", la psichiatria o il prendersi cura si rivelano per quello che sono: la negazione del valore, della libertà di scelta e dell'esistenza stessa dell'altro.
Ha un bel dire Franco Basaglia che la follia «è una condizione umana. In noi la follia esiste ed è presente come lo è la ragione. Il problema è che la società, per dirsi civile, dovrebbe accettare tanto la ragione quanto la follia», quando i Basagliani e la gente di buon senso continuano a pensare che è preferibile essere (considerati) normali e che dalla follia bisogna "guarire", essere curati o, come si usa dire adesso, "riaversi" (recovery).
Il fatto o la necessità che si debba "guarire", essere curati o riaversi dalla normalità, non sembra all'ordine del giorno e il solo porre la questione ci accomuna al popolo dei deliranti divergenti bisognosi di "cure".
Su cosa basiamo tutte le nostre certezze sul primato della "normalità" ? Non tanto, o non solo, sulla convinzione che nessuno potrebbe "davvero" dire, fare, pensare o credere le cose che chi è definito "folle" dice, fa, pensa o crede; ma piuttosto sul fatto che nessuno di noi potrebbe mai desiderare di essere trattato come matto.
Se, a rigor di logica, non possiamo dire che la follia sia una condizione di umana sofferenza, infatti, possiamo certamente affermare che l'essere trattati come folli, certamente fa soffrire e ci lascia in balia del giudizio e del potere altrui.
Potremmo dire che la "follia" non è tanto una condizione umana, quanto un'etichetta sociale che si applica, a seconda dei luoghi e dei tempi, ad alcune condotte e modi di essere umani e che produce la progressiva perdita da parte della persona cosi designata del suo potere e della sua libertà di scelta.
Questa progressiva perdita della propria autonomia personale e sociale, non è tanto o solo dovuta a scelte individuali, ma è il frutto del sistematico disconoscimento del punto di vista del "bisognoso di cure", primo fra tutti l'affermazione di non avere bisogno di cure.
Il "rifiuto delle cure" rimane in sé un tabù e la cartina di tornasole dell'ipocrisia e della mistificazione del pensiero psichiatrico.
Finché le persone accettano la normalità come norma e condizione naturale dell'uomo e cercano di adeguarsi alle aspettative dei "curatori", tutto può apparire sensato e finanche "terapeutico". Non appena i "pazienti designati" rivendicano il valore e il diritto a sentire ed essere quello che sono, ecco che scatta la coartazione fisica, chimica o sociale con l'invalidazione, anche giuridica, dei propri diritti e la "presa in carico" della propria esistenza da parte dei "curatori".
E' chiaro che chi è definito "folle" ha un'unica e sola alternativa: accettare il punto di vista di chi intende, ha il dovere o l'obbligo di curarlo. Egli deve smettere di fare quello che fa, pensare quello che pensa, dire quello che dice. Deve fare abiura pubblica del suo credo e convertirsi alla fede psichiatrica.
Chi non lo fa, quando riesce a sfuggire all'internamento o all'intrattenimento psichiatrico, rimane imprigionato in quello che i buddisti chiamano "il passaggio di frontiera privo di porte".
Un non luogo che sta fuori dalla realtà condivisa e che non è segnato sulle mappe. Impossibile da trovare ma su cui ci si ritrova senza sapere "come" ma conoscendo bene tutti i "perché".
E allora forse non servono "curatori", ma esploratori capaci di raggiungerci e compagni di viaggio capaci di accettare il rischio di perdersi o di ritrovarsi (perché come dice Horderlin "La dove c'é il pericolo, cresce anche ciò che salva").
domenica 18 novembre 2018
MODENA SABATO 24 NOVEMBRE - La Scintilla
c/o La SCINTILLA in strada Attiraglio 66, Zona Mulini Nuovi alle ore 18:30 presentazione del libro:
“ELETTROSHOCK. La storia delle terapie elettroconvulsive e i racconti di chi le ha vissute”. a cura del Collettivo Antipsichiatrico Antonin Artaud. Edizioni Sensibili alle Foglie
A seguire CONCERTI: Marnero, Lleroy, Niet e Dysmorfic + DJ SET
Per info: la scintilla@autoproduzioni.net
domenica 11 novembre 2018
FIRENZE VENERDI’ 16 NOVEMBRE
c/o CPA FI SUD in via Villamagna alle ore 19
La Libreria Majakovskij presenta:
“Storia di Antonia. Viaggio al termine di un manicomio”
di Dario Stefano Dell’Aquila e Antonio Esposito
edizioni Sensibili Alle Foglie
Parteciperà al dibattito con gli autori
il Collettivo Antipsichiatrico Antonin Artaud
La Libreria Majakovskij presenta:
“Storia di Antonia. Viaggio al termine di un manicomio”
di Dario Stefano Dell’Aquila e Antonio Esposito
edizioni Sensibili Alle Foglie
Parteciperà al dibattito con gli autori
il Collettivo Antipsichiatrico Antonin Artaud
venerdì 9 novembre 2018
Riccardo Rasman
Riccardo Rasman è stato ucciso nel 2006 durante un tentativo di ricovero coatto da poliziotti in collaborazione con i vigili del fuoco che hanno contribuito con l'irruzione e l'incatenamento con il fil di ferro.Ad aprile 2015 il tribunale di Trieste condanna il Ministero dell'interno e i tre agenti già riconosciuti responsabili a risarcire un milione e duecentomila euro ai famigliari di Rasman. Il legale della famiglia presentò ricorso ritenendo l'importo insufficiente.
di Mario Di Vito (conduttore di Radio Città Aperta)
I poliziotti lo ammanettarono, usarono filo di ferro per le caviglie e un bavaglio: dopo le botte i suoi polmoni si fermarono. Per la Cassazione si è trattato di un omicidio "pacificamente evitabile".
Nel gergo grigio e gelido delle sentenze vuol dire che sarebbe bastato molto poco perché le cose andassero diversamente. Riccardo Rasman aveva 34 anni quando entrarono a prenderlo, la sera del 27 ottobre 2006, nel suo appartamento di via Grego 18, a Trieste.
I vicini avevano chiamato il 113 perché lui stava ascoltando la musica a volume troppo alto e poi si era affacciato - completamente nudo - dal balcone per lanciare due petardi nella corte interna al condominio in cui viveva.
Riccardo durante il servizio militare aveva subito diversi episodi di nonnismo che, successivamente, avrebbero portato a una diagnosi di schizofrenia paranoide. Quella sera era felice, molto felice, troppo felice, almeno per i suoi vicini di casa, ai quali non è mai piaciuto: il giorno successivo, comunque, Rasman avrebbe cominciato a lavorare come operatore ecologico. Alle 20:21 arrivò una pattuglia del 113 sotto casa sua, alle 20;34 ne arrivò un'altra di rinforzo, accompagnata dai vigili del fuoco.
Rasman non voleva aprire: si era steso sul letto e aveva spento le luci. C'è da capirlo: nel 1999 Riccardo aveva già avuto a che fare con le forze dell'ordine, ne era uscito malconcio e lo denunciò, senza grosse conseguenze. Da allora, ogni volta che vedeva una divisa, aveva paura. Per questo si era rintanato e aveva spento tutte le luci e si era rintanato a letto quando aveva visto le luci blu delle volanti dalla sua finestra.
Alla fine i poliziotti riuscirono a entrare a casa sua, ne nacque una colluttazione e Rasman venne ammanettato a terra, immobilizzato, con le manette strette intorno ai polsi, del filo di ferro a tenere ferme le caviglie, addirittura un bavaglio per non farlo urlare.
Messo così, in posizione prona, cominciò a respirare in maniera sempre più affannosa, fino a che i suoi polmoni non si sono fermati; le perizie dicono che gli agenti esercitarono "sul tronco, sia salendogli insieme o alternativamente sulla schiena, sia premendo con le ginocchia, un'eccessiva pressione che ne riduceva gravemente le capacità respiratorie". Morte per arresto respiratorio avvenuta tra le 20:43 e le 21:04, si leggerà dopo nei referti. Sul tavolo c'era un biglietto, scritto proprio da lui, un attimo prima dell'arrivo della
polizia: "Per favore, per cortesia, vi prego, non fatemi del male, non ho fatto niente di male". Sul muro c'erano macchie di sangue; Riccardo era stato pure picchiato, probabilmente con un manico d'ascia e con il piede di porco che i pompieri usarono per forzare la porta del suo appartamento.
"Noi siamo entrati in quell'appartamento soltanto in marzo - racconta Giuliana Rasman, sua sorella, era un disastro: c'era sangue dappertutto e una chiazza di sangue verso la cucina. Poi dalle fotografie mi sono resa conto che l'hanno spostato con la testa verso l'entrata così da nascondere la chiazza di sangue che c'era lì. C'era una frattura, i capelli erano tutti pieni di sangue, c'era una frattura anche dietro il collo.
C'era sangue sul tavolo, sui muri, sulle lenzuola, dietro il letto per terra, c'erano chiazze di sangue sul tappeto sotto il quale abbiamo trovato persino dei pezzi di carne nascosti, Riccardo era martoriato di botte sul viso, gli avevano rotto lo zigomo. Poi c'era il segno dell'imbavagliamento, sangue dalle orecchie, dal naso, dalla bocca, si vede proprio molto bene". Il pm triestino Pietro Montone aprì un'inchiesta su questi fatti e - incredibilmente ma fino a un certo punto, visto che è sempre così - affidò tutto agli stessi poliziotti che quella notte irruppero in casa di Riccardo. Nell'ottobre del 2007 Montone chiese l'archiviazione per gli agenti che, a suo giudizio, avevano solo fatto il suo dovere, anche se era certo anche a lui che Rasman fosse morto per "asfissia posturale" dovuta proprio all'intervento della forza di pubblica sicurezza.
Il gip, però, non accolse la richiesta del magistrato che, dopo essere entrato a conoscenza delle indagini fatte dagli avvocati Giovanni Di Lullo e Fabio Anselmo, cambiò decisamente orientamento sul caso. Il fulcro del ragionamento è la prova provata del fatto che gli agenti Francesca Gatti, Mauro Miraz, Maurizio Mis e Giuseppe Di Blasi erano perfettamente consapevoli dei problemi mentali di Riccardo e questo avrebbe - quantomeno - dovuto indurli a usare una maggiore cautela nell'intervento.
Tra l'altro, fu posta anche una domanda fondamentale: che necessità c'era di sfondare la porta quando era palese che Rasman non stesse più causando pericoli, visto che era dentro il suo letto e non stava più lanciando petardi dal balcone? I quattro uomini in divisa vennero rinviati a giudizio per omicidio colposo.
Il processo di primo grado fu celebrato con rito abbreviato e si concluse con la condanna a sei mesi di carcere (pena sospesa) per tre dei quattro agenti, più il pagamento di una provvisionale da 60mila euro e 20mila euro di risarcimento per danni morali alla famiglia.
La quarta agente, Francesca Gatti, fu assolta con "formula dubitativa", ovvero: lei all'azione ha partecipato, e questo è certo, ma, mentre gli altri stavano legando Riccardo per terra, era in contatto via radio con la Questura. Era il 29 gennaio del 2009. Un anno e mezzo dopo la Corte d'Appello del Tribunale di Trieste avrebbe confermato tutte le sentenze del primo grado. Tutte le parti in causa - i poliziotti e la famiglia Rasman - presentarono ricorso alla Cassazione.
La sentenza definitiva è arrivata il 14 dicembre del 2011: conferma della sentenza d'Appello e epitaffio: la morte di Rasman "era pacificamente evitabile qualora gli agenti avessero interrotto l'attività di violenta contestazione a terra, consentendogli di respirare". Quello stesso giorno, i familiari di Riccardo chiesero formalmente le scuse da parte del ministero degli Interni (mai arrivate) e annunciarono la propria intenzione di procedere anche in via civile contro i poliziotti e lo stesso Viminale.
Da alcune foto, uscite fuori quando ormai era tardi per il processo" si vedano segni anche dagli angoli della bocca fino alle orecchie di Rasman: ci vorranno altre perizie per chiarire se è vero che l'asfissia non è arrivata solo per lo schiacciamento sotto il peso degli agenti, ma anche per il soffocamento dovuto al bavaglio. Sembra un dettaglio, ma la causa civile di risarcimento si gioca tutta qui.
Del caso se ne tornerà a parlare presto: nell'aprile del 2013, infatti, la procura di Trieste ha nuovamente chiesto l'archiviazione del caso. L'avvocata Claudio De Filippi, che adesso segue la vicenda per conto della famiglia della vittima, ha detto che, a suo parere, tutto questo "si colloca tra il caso Sandri, per il quale lo Stato ha pagato tre milioni e mezzo, e il caso Aldrovandi, per il quale ha pagato due milioni di euro".
Resta, in mezzo a quel complesso e lunghissimo caos di carte e di cavilli che è la giustizia civile, la storia di un ragazzo che è morto per poco, praticamente per niente. E che tutto voleva fuorché dare fastidio: "Riccardo non ha mai fatto un Tso - conclude la sorella Giuliana, non era violento né aggressivo, voleva farsi ben volere da tutti, anche per dimostrare questo abbiamo messo nel nostro dossier testimoni che descrivono come era Riccardo. In 3 anni che aveva quel monolocale non ci avrà dormito neanche cinque volte, anche il padre conferma che Riccardo andava lì qualche volta per farsi sentire e faceva andare la lavatrice, allora la vicina cominciava a battere la porta e Riccardo per farsi ben volere le portava la verdura della nostra campagna e le scrisse una lettera per favorire il buon vicinato".
fonte: http://www.ristretti.org
di Mario Di Vito (conduttore di Radio Città Aperta)
I poliziotti lo ammanettarono, usarono filo di ferro per le caviglie e un bavaglio: dopo le botte i suoi polmoni si fermarono. Per la Cassazione si è trattato di un omicidio "pacificamente evitabile".
Nel gergo grigio e gelido delle sentenze vuol dire che sarebbe bastato molto poco perché le cose andassero diversamente. Riccardo Rasman aveva 34 anni quando entrarono a prenderlo, la sera del 27 ottobre 2006, nel suo appartamento di via Grego 18, a Trieste.
I vicini avevano chiamato il 113 perché lui stava ascoltando la musica a volume troppo alto e poi si era affacciato - completamente nudo - dal balcone per lanciare due petardi nella corte interna al condominio in cui viveva.
Riccardo durante il servizio militare aveva subito diversi episodi di nonnismo che, successivamente, avrebbero portato a una diagnosi di schizofrenia paranoide. Quella sera era felice, molto felice, troppo felice, almeno per i suoi vicini di casa, ai quali non è mai piaciuto: il giorno successivo, comunque, Rasman avrebbe cominciato a lavorare come operatore ecologico. Alle 20:21 arrivò una pattuglia del 113 sotto casa sua, alle 20;34 ne arrivò un'altra di rinforzo, accompagnata dai vigili del fuoco.
Rasman non voleva aprire: si era steso sul letto e aveva spento le luci. C'è da capirlo: nel 1999 Riccardo aveva già avuto a che fare con le forze dell'ordine, ne era uscito malconcio e lo denunciò, senza grosse conseguenze. Da allora, ogni volta che vedeva una divisa, aveva paura. Per questo si era rintanato e aveva spento tutte le luci e si era rintanato a letto quando aveva visto le luci blu delle volanti dalla sua finestra.
Alla fine i poliziotti riuscirono a entrare a casa sua, ne nacque una colluttazione e Rasman venne ammanettato a terra, immobilizzato, con le manette strette intorno ai polsi, del filo di ferro a tenere ferme le caviglie, addirittura un bavaglio per non farlo urlare.
Messo così, in posizione prona, cominciò a respirare in maniera sempre più affannosa, fino a che i suoi polmoni non si sono fermati; le perizie dicono che gli agenti esercitarono "sul tronco, sia salendogli insieme o alternativamente sulla schiena, sia premendo con le ginocchia, un'eccessiva pressione che ne riduceva gravemente le capacità respiratorie". Morte per arresto respiratorio avvenuta tra le 20:43 e le 21:04, si leggerà dopo nei referti. Sul tavolo c'era un biglietto, scritto proprio da lui, un attimo prima dell'arrivo della
polizia: "Per favore, per cortesia, vi prego, non fatemi del male, non ho fatto niente di male". Sul muro c'erano macchie di sangue; Riccardo era stato pure picchiato, probabilmente con un manico d'ascia e con il piede di porco che i pompieri usarono per forzare la porta del suo appartamento.
"Noi siamo entrati in quell'appartamento soltanto in marzo - racconta Giuliana Rasman, sua sorella, era un disastro: c'era sangue dappertutto e una chiazza di sangue verso la cucina. Poi dalle fotografie mi sono resa conto che l'hanno spostato con la testa verso l'entrata così da nascondere la chiazza di sangue che c'era lì. C'era una frattura, i capelli erano tutti pieni di sangue, c'era una frattura anche dietro il collo.
C'era sangue sul tavolo, sui muri, sulle lenzuola, dietro il letto per terra, c'erano chiazze di sangue sul tappeto sotto il quale abbiamo trovato persino dei pezzi di carne nascosti, Riccardo era martoriato di botte sul viso, gli avevano rotto lo zigomo. Poi c'era il segno dell'imbavagliamento, sangue dalle orecchie, dal naso, dalla bocca, si vede proprio molto bene". Il pm triestino Pietro Montone aprì un'inchiesta su questi fatti e - incredibilmente ma fino a un certo punto, visto che è sempre così - affidò tutto agli stessi poliziotti che quella notte irruppero in casa di Riccardo. Nell'ottobre del 2007 Montone chiese l'archiviazione per gli agenti che, a suo giudizio, avevano solo fatto il suo dovere, anche se era certo anche a lui che Rasman fosse morto per "asfissia posturale" dovuta proprio all'intervento della forza di pubblica sicurezza.
Il gip, però, non accolse la richiesta del magistrato che, dopo essere entrato a conoscenza delle indagini fatte dagli avvocati Giovanni Di Lullo e Fabio Anselmo, cambiò decisamente orientamento sul caso. Il fulcro del ragionamento è la prova provata del fatto che gli agenti Francesca Gatti, Mauro Miraz, Maurizio Mis e Giuseppe Di Blasi erano perfettamente consapevoli dei problemi mentali di Riccardo e questo avrebbe - quantomeno - dovuto indurli a usare una maggiore cautela nell'intervento.
Tra l'altro, fu posta anche una domanda fondamentale: che necessità c'era di sfondare la porta quando era palese che Rasman non stesse più causando pericoli, visto che era dentro il suo letto e non stava più lanciando petardi dal balcone? I quattro uomini in divisa vennero rinviati a giudizio per omicidio colposo.
Il processo di primo grado fu celebrato con rito abbreviato e si concluse con la condanna a sei mesi di carcere (pena sospesa) per tre dei quattro agenti, più il pagamento di una provvisionale da 60mila euro e 20mila euro di risarcimento per danni morali alla famiglia.
La quarta agente, Francesca Gatti, fu assolta con "formula dubitativa", ovvero: lei all'azione ha partecipato, e questo è certo, ma, mentre gli altri stavano legando Riccardo per terra, era in contatto via radio con la Questura. Era il 29 gennaio del 2009. Un anno e mezzo dopo la Corte d'Appello del Tribunale di Trieste avrebbe confermato tutte le sentenze del primo grado. Tutte le parti in causa - i poliziotti e la famiglia Rasman - presentarono ricorso alla Cassazione.
La sentenza definitiva è arrivata il 14 dicembre del 2011: conferma della sentenza d'Appello e epitaffio: la morte di Rasman "era pacificamente evitabile qualora gli agenti avessero interrotto l'attività di violenta contestazione a terra, consentendogli di respirare". Quello stesso giorno, i familiari di Riccardo chiesero formalmente le scuse da parte del ministero degli Interni (mai arrivate) e annunciarono la propria intenzione di procedere anche in via civile contro i poliziotti e lo stesso Viminale.
Da alcune foto, uscite fuori quando ormai era tardi per il processo" si vedano segni anche dagli angoli della bocca fino alle orecchie di Rasman: ci vorranno altre perizie per chiarire se è vero che l'asfissia non è arrivata solo per lo schiacciamento sotto il peso degli agenti, ma anche per il soffocamento dovuto al bavaglio. Sembra un dettaglio, ma la causa civile di risarcimento si gioca tutta qui.
Del caso se ne tornerà a parlare presto: nell'aprile del 2013, infatti, la procura di Trieste ha nuovamente chiesto l'archiviazione del caso. L'avvocata Claudio De Filippi, che adesso segue la vicenda per conto della famiglia della vittima, ha detto che, a suo parere, tutto questo "si colloca tra il caso Sandri, per il quale lo Stato ha pagato tre milioni e mezzo, e il caso Aldrovandi, per il quale ha pagato due milioni di euro".
Resta, in mezzo a quel complesso e lunghissimo caos di carte e di cavilli che è la giustizia civile, la storia di un ragazzo che è morto per poco, praticamente per niente. E che tutto voleva fuorché dare fastidio: "Riccardo non ha mai fatto un Tso - conclude la sorella Giuliana, non era violento né aggressivo, voleva farsi ben volere da tutti, anche per dimostrare questo abbiamo messo nel nostro dossier testimoni che descrivono come era Riccardo. In 3 anni che aveva quel monolocale non ci avrà dormito neanche cinque volte, anche il padre conferma che Riccardo andava lì qualche volta per farsi sentire e faceva andare la lavatrice, allora la vicina cominciava a battere la porta e Riccardo per farsi ben volere le portava la verdura della nostra campagna e le scrisse una lettera per favorire il buon vicinato".
fonte: http://www.ristretti.org
domenica 4 novembre 2018
Per L'Abolizione Assoluta del Trattamento Sanitario Obbligatorio
articolo originale
di María Teresa Fernández Vázquez (Mexico)
Sommario dall'inglese:
traduzione a cura di Sansi Erveda
tratto da: Il Cappellaio Matto
di María Teresa Fernández Vázquez (Mexico)
Sommario dall'inglese:
In
questo testo cerco di sostenere il mio supporto alla campagna da tre
approcci diversi. In primo luogo, dal punto di vista umanistico e
sociale, che vede la persona umana come un essere unico e irriducibile,
la cui "inesauribile potenzialità dell'esistenza" [1] si sviluppa e può
realizzarsi in infiniti modi ed espressioni, che sono tutti ugualmente
importanti e preziosi. Per secoli, tuttavia, le persone con disabilità
in generale, e le persone con disabilità psicosociali In particolare,
sono state denigrate e messe da parte, e le loro espressioni sono state
raramente riconosciute o approvate dalla grande maggioranza. Sia per
ignoranza, che per paura, negligenza, sete di potere e di controllo,
ecc, i governi e la società sono pronti a reprimere quei comportamenti
umani che non si adattano ai parametri socialmente condivisi, già
incorporati nelle norme indiscusse, nelle abitudini, nei simboli e negli
stereotipi culturali. Quindi lo status quo viene mantenuto. Dovremmo
considerare ogni tentativo di reprimere l'espressione umana come una
forma di oppressione sociale e politica che non dovrebbe essere
tollerata. Invece, la società dovrebbe essere aperta alla diversità
umana e procedere insieme a tutti coloro che sono diversi; creare - mano nella mano con loro - nuove forme di interazione sociale e di convivenza.
In
secondo luogo, parlo dalla mia esperienza personale come sorella di un
uomo a cui in adolescenza hanno diagnosticato l'epilessia e che più
tardi nella sua vita è diventato un alcolizzato. Mio fratello era
confinato in comunità, "fattorie" e ospedali psichiatrici su
raccomandazione dei suoi medici curanti. Posso testimoniare il crescente
deterioramento subito da mio fratello dopo ogni collocazione, che è
culminato con la sua morte dolorosa e prematura. I suoi ricoveri erano
assolutamente intollerabili e nefasti: per lui, per la sua famiglia e
per tutti noi. Deploro profondamente il fatto che non abbiamo avuto
accesso alle informazioni, ai consigli, al sostegno adeguato o ai
servizi che avrebbero permesso a mio fratello di vivere la sua vita in
modo diverso, secondo le sue necessità e potenzialità, in sostanza,
umanamente. La cosa peggiore è che oggi - quarant'anni dopo - le cose
non sono cambiate molto. C'è ancora la stessa mancanza di informazioni,
consigli, sostegno e servizi adeguati. Le persone con disabilità
psicosociali continuano ad essere maltrattate e ricoverate, anche contro
la loro volontà; anche se è provato che tali trattamenti non
funzionano, ma, al contrario, provocano danni profondi e irreversibili.
Sia i governi attraverso leggi, politiche e mancanza di volontà
politica, sia i professionisti della salute e la società nel suo insieme
continuano a condannare le persone con disabilità psicosociali
all'oblio e alla morte, e lo fanno con assoluta impunità. Anche questo è
inaccettabile e deve essere cambiato. La Convenzione delle Nazioni
Unite sui diritti delle persone con disabilità ci dice come.
Il
terzo motivo per cui sostengo la Campagna per la Convenzione delle
Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, è che essendo io
stessa una persona con una disabilità fisica, sono attivamente
coinvolta in questo processo. Rispettare la Convenzione significa
rispettare la dignità e l'autonomia individuale di tutte le persone con
disabilità, nonché rispettare il loro diritto all'uguaglianza e alla non
discriminazione, alla libertà personale e alla sicurezza. Come
dichiarato dal Comitato CRPD: "Il trattamento sanitario obbligatorio da
parte di psichiatrici e di altri medici e di personale sanitario,
costituisce una violazione del diritto di uguaglianza di riconoscimento
davanti alla legge (articolo 5) e una violazione dei diritti
all'integrità personale (articolo 17); libertà dalla tortura (articolo
15); e libertà dalla violenza, dallo sfruttamento e dall'abuso (articolo
16). Questa pratica nega la capacità legale di una persona di scegliere
un trattamento medico ed è quindi una violazione dell'articolo 12 della
Convenzione" (Par. 42). [2] Il Comitato afferma inoltre che segregare
le persone con disabilità nelle istituzioni, viola un certo numero di
diritti garantiti dalla Convenzione (paragrafo 46).
Ai
sensi della Convenzione, è assolutamente inaccettabile non rispettare
la dignità delle persone con disabilità psicosociali, o sottoporli a
esami minuziosi e a giudizi autorevoli grossolani, né è ammissibile per
nessuno attribuirsi la facoltà di decidere secondo il proprio parere
cosa sia il meglio per loro, o di tenerli in luoghi in cui perdono
tutto: la loro autonomia, la loro libertà e persino la loro dignità.
Luoghi in cui rimangono - assoggettati e impotenti - sotto il controllo
assoluto della volontà di altre persone - mai la loro - e dove la loro
integrità viene lacerata. Come il Comitato CRPD dichiara chiaramente,
tali pratiche sono in aperta violazione della Convenzione ONU sui
diritti delle persone con disabilità e devono essere sradicate.
traduzione a cura di Sansi Erveda
tratto da: Il Cappellaio Matto
Iscriviti a:
Post (Atom)