Pubblichiamo uno scritto di Giuseppe Bucalo
“Ho partecipato qualche giorno fa a Bologna all’11° incontro di
liberazione animale. Un’esperienza intensa ed emozionale di quelle che
ti rappacificano con la specie umana.
Tante sono state le correlazioni e le scoperte reciproche che hanno
sorpreso tanto me, quanto gli organizzatori dell’incontro, mostrandoci
l’affinità e la contiguità fra le nostre lotte di liberazione.
Fra le tante somiglianze che ho trovato, mi ha colpito
particolarmente sentire parlare, nell’ambito della lotta contro la
sperimentazione sugli animali, di un’antivivisezione “scientifica” e di
una “etica”. Da quanto ho avuto modo di comprendere, la prima contesta
essenzialmente con dati oggettivi e sperimentali l’efficacia e l’utilità
della sperimentazione sugli animali come metodo di ricerca scientifica;
la seconda rifiuta tout court ogni sperimentazione su/tortura/uso degli
animali a scopi di studio indipendentemente dal fondamento scientifico o
dell’utilità di tale pratica.
Qualcosa di molto simile succede nel campo della critica
antipsichiatrica. Molte delle argomentazioni critiche portate avanti dal
movimento antipsichiatrico al concetto di malattia mentale, di fatti,
si muovono su un asse “scientista”. Si afferma in sostanza che “la
malattia mentale non esiste” sulla base dell’evidenza che non esistono,
ad oggi, prove di alcuna alterazione o base organica che determini i
comportamenti, i modi essere e di pensare che la psichiatra diagnostica
come “sintomi” di tale malattia. Ciò è certamente vero e, seppure a
periodi riemerge una qualche teoria o “scoperta” del gene o delle cause
biochimiche di quella o quell’altra “malattia mentale”, ad oggi gli
studiosi più seri continuano a trattare la psichiatria come la
cenerentola della moderna medicina scientifica.
Altri dicono chiaramente che, ove la psichiatria individuasse una o
più cause organiche alla base di alcuni comportamenti indesiderabili
e/o intollerabili, queste “malattie” finirebbero per uscire dall’ambito
di sua competenza per passare a quella branca medica specialistica che è
conosciuta come neurologia. Non sfuggirà che se l’ambito di azione
della neurologia sono le “malattie del cervello”, gioco forza la
psichiatria non si occupa di “malattie” che, nel senso classico,
interessano quell’organo )o qualsiasi altro organo del corpo umano).
Ad essere “malato” in psichiatria non è il cervello ma la “mente”.
Thomas Szasz molto argutamente sosteneva che parlare di “malattie
mentali” come se indicassero dei fenomeni oggettivi o dei fatti concreti
è come provare a tagliare il pane con delle “frasi taglienti”. Potremmo
dire, come ho letto in un saggio sulla lobotomia in cui alcuni
psichiatri definivano questa invasiva e distruttiva sperimentazione su
esseri umani non consenzienti come un intervento chirurgico su tessuti
cerebrali “apparentemente sani”, che la medicina psichiatrica agisca
laddove non ci sia alcuna evidenza clinica di “malattia”.
L’evidenza che sembra interessare la psichiatria è essenzialmente
quella del disturbo e del disordine personale, familiare e sociale che i
suoi utenti rappresentano coi loro comportamenti e visione del mondo
nell’ambito delle comunità sociali. Per questo la psichiatria e le sue
pratiche assomigliano sempre più spesso alle pratiche
carcerario-giudiziarie piuttosto che a quelle mediche. Per questo tutte
le sue “pratiche” sono usate come strumenti di tortura nei paesi retti
da regimi dittatoriali.
Negli anni, come tutti coloro che assumono e praticano l’idea che
non ci sia alcuna malattia mentale, mi sono interrogato più volte
sull’evenienza che la ricerca psichiatrica arrivi a descrivere i
meccanismi cerebrali e biochimici che sottendono alle cosiddette
“malattie mentali”. A differenza di altri io credo già, in maniera
determinata, che ci siano certamente dei processi biochimici che
permettono alle persone di vedere cose che altri non vedono e sentire
cose che altri non sentono.
La questione dal mio punto di vista (che gli amici del movimento
antispecista chiamerebbero “etico”) non è tanto confutare l’azione della
psichiatria partendo dall’assunto, pur vero, della sua inconsistenza
scientifica e dell’assenza del suo “oggetto”, ma quello di negare tout
court qualsiasi azione coercitiva/curativa/repressiva che tolga senso e
cerchi di controllare i pensieri, le emozioni e le scelte delle persone o
che le releghi nel mondo del “patologico” piuttosto che in quello delle
opportunità umane.
In altre parole si tratta di scegliere se vogliamo/possiamo fare a
meno della nostra capacità di vedere attraverso, di sognare ad occhi
aperti, di aprire le porte della percezione, di creare e continuare a
stare laddove c’é il pericolo sapendo, con i poeti, che solo li nasce
ciò che salva.
Certamente la follia è un’esperienza che coinvolge e sconvolge i
fondamenti della nostra identità e della realtà così come la conosciamo,
ma per ciò stesso può essere una delle strade maestre attraverso cui
passa il cambiamento nostro e quello delle comunità umane in cui
viviamo. Sicuramente è un modo di vedere e conoscere il mondo che può
dare profondità e uno sguardo alternativo e da cui storicamente sono
nati capolavori artistici e intuizioni che hanno cambiato il nostro modo
di vedere il mondo.
Qualsiasi cosa sia ciò che ci rende extra-ordinari, per quanto ciò
ci inquieta e può farci soffrire, per quanto ci possa rendere oggetto di
persecuzioni, sperimentazioni e finanche costarci la vita e
l’esistenza, è fatto della stessa sostanza di cui è fatto il nostro
essere umani. Non sarà e non potrà mai essere ridotto al modo in cui
funziona il nostro cervello.
Da questo punto di vista non importa se la mia tristezza o la mia
euforia sia determinata da (o essa stessa determini) mutamenti nel mio
funzionamento biochimico: la questione è decidere se sia lecito che
queste esperienze, emozioni, modi di essere debbano e possano essere
curate, represse ed eliminate sulla base del disturbo che arrecano,
delle domande che pongono o della loro (reale o presunta)
improduttività.
Senza scomodare Antonin Artaud e parafrasando Gianna Schiavetti che
ha pubblicato un volume illuminante che testimonia le ragioni (e le
passioni) di quella che possiamo definire “antipsichiatria etica”: la
malattia mentale non esiste, ma se esistesse io vorrei averla.”
Giuseppe Bucalo
25 settembre 2015
(Gianna Schiavetti, La schizofrenia non esiste, ma se esistesse io vorrei averla, Stampa Alternativa ed.)
1 commento:
Invece di pensare alle bestie,(tanto esistono già associazioni che lo fanno)pensate a quei poveri cristi che subiscono vessazioni da parte della psichiatria.bello cercare celebrità sulle disgrazie degli altri.rammolliti ma a me che c...me ne frega di quello che scrivete.ci sono persone che hanno perso tutto echiedono aiuto, voi che fate vi nascondete, cagasotto.per aiutare chi è vittima della psichiatria deve avere le palle come me, io ho aiutato qualcuno rimettendoci la faccia.io il mal di stomaco me lo faccio venire quando mando a cagare i medici psichiatri per quello che fanno , non perché bevo troppi pirli o birra, avete capito di smetterla di dire cagate!?
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