MANZOLI, Sara, Il Potere della Parola. La Carenza Dialogica nelle Relazioni tra Utenti e Operatori nell’istituzione psichiatrica”, Roma, Sensibili Alle Foglie, 2021.
Questo libro è frutto di un cantiere di socioanalisi narrativa svolto
dall’autrice Sara Manzoli con persone che sono seguite dai servizi
psichiatrici di Modena e provincia.
Nella socioanalisi la narrazione dell’esperienza su cui si vuole
portare l’attenzione diventa un dispositivo di ricerca che consente,
attraverso il lavoro di gruppo, di fare emergere i molti non detti,
ovvero quei dispositivi occulti e totalizzanti che, per le persone
implicate, risultano alienanti, mortificanti e fonte di malessere.
Attraverso le narrazioni d’esperienza, con l’intervento socioanalitico,
si cerca di mettere a fuoco le varie modalità attraverso cui le persone
si adattano o resistono in modo creativo all’azione dei dispositivi di
potere. La narrazione e il racconto sono potenti strumenti di
elaborazione del proprio vissuto, servono per crescere, per migliorarsi,
per mettersi in discussione e per andare avanti nel viaggio della vita;
questa è l’ottica con cui le persone che hanno partecipato al cantiere
si sono approcciate a questa esperienza collettiva.
Gli ambiti emersi dai racconti e presi in considerazione in questo
lavoro sono la mancanza di dialogo fra paziente e psichiatra, i ricoveri
psichiatrici, i Trattamenti Sanitari Obbligatori (TSO), i dispositivi
di controllo che vengono applicati nei reparti ospedalieri e nei
contesti residenziali, la terapia psicofarmacologica, lo stigma.
In questo testo abbiamo trovato spunti di riflessione e meccanismi
della psichiatria che da anni denunciamo come collettivo
antipsichiatrico. I colloqui troppo brevi dove ti tengono giusto il
tempo per darti la terapia e non c’è la possibilità di essere ascoltati o
di esprimere i dubbi e le difficoltà. La parola della persona
diagnosticata (marchiata) malata di mente non viene presa in
considerazione, anzi spesso, considerata sintomo della malattia. Le
persone protagoniste del cantiere raccontano che sono obbligate a
frequentare i servizi psichiatrici e costrette ad assumere psicofarmaci,
che devono continuare a prenderli per il resto della vita, proprio come
un “diabetico prende l’insulina”. L’unico interesse della psichiatria
non sembra essere quello dichiarato della “cura” ma la progressiva
cronicizzazione del malessere: tutte le altre discipline mediche hanno
come obiettivo la dimissione del malato, il sistema psichiatrico,
invece, ti prende in carico a vita.
L’inganno maggiore di questo sistema sta nel credere che un
Trattamento Sanitario Obbligatorio (TSO) duri in fondo solo sette giorni
o quattordici nel caso peggiore; nel pensare che, sì, in effetti è un
sequestro di persona legalizzato. La verità è che il Trattamento
Sanitario Obbligatorio implica una coatta presa in carico della persona
da parte dei Servizi di salute mentale del territorio che può durare per
decenni, proprio come è successo a vari partecipanti al cantiere. Una
volta entrato in questo meccanismo infernale, una volta bollato con
l’infamia della malattia mentale, il paziente vi rimane invischiato a
vita, costretto a continue visite psichiatriche e soprattutto, a
trattamenti con farmaci obbligatori pena un nuovo ricovero. Per i
pazienti ricoverati in TSO e considerati “agitati” si ricorre ancora
al’’isolamento e alla contenzione fisica, mentre i cocktail di farmaci
somministrati mirano ad annullare la coscienza di sé della persona, a
renderla docile ai ritmi e alle regole ospedaliere. Il grado di
spersonalizzazione ed alienazione che si può raggiungere durante una
settimana di TSO ha pochi eguali, anche per il bombardamento chimico a
cui si è sottoposti. Ecco come l’obbligo di cura oggi non significhi più
necessariamente la reclusione in una struttura ma si trasformi
nell’impossibilità di modificare o sospendere il trattamento
psichiatrico, sotto costante minaccia di ricorso al ricovero coatto
sfruttato come strumento di ricatto e repressione.
Un altro capitolo del libro è dedicato all’obbligo di cura e di
assunzione di psicofarmaci. Gli psicofarmaci, oltre ad agire solo sui
sintomi e non sulle cause della sofferenza della persona, se presi per
lunghi periodi alterano il metabolismo e le percezioni, rallentano i
percorsi cognitivi ed ideativi contrastando la possibilità di fare
scelte autonome, generano fenomeni di dipendenza ed assuefazione del
tutto pari, se non superiori, a quelli delle sostanze illegali
classificate come droghe pesanti. Sappiamo bene che le persone trattate
con psicofarmaci aumentano la probabilità di trasformare un episodio di
sofferenza in una patologia cronica. La maggior parte di coloro che
ricevano un trattamento farmacologico va incontro a nuovi e più gravi
sintomi psichiatrici, a patologie somatiche e a una compromissione
cognitiva. Quello che finora ci ha proposto la psichiatria è la
centralità degli “squilibri chimici” nel funzionamento del cervello, ha
cambiato il nostro schema di comprensione della mente e messo in
discussione il concetto di libero arbitrio. Come collettivo, non
condanniamo a priori l’utilizzo di psicofarmaci ma pensiamo che spetti
all’individuo deciderne in libertà e consapevolezza l’assunzione.
Poiché la risposta psichiatrica è sempre la stessa per tutte le
situazioni: diagnosi, etichetta e cura farmacologica crediamo che
rivendicare il diritto ad avere parola e all’autodeterminazione in
ambito psichiatrico significhi riappropriarsi delle proprie esperienze,
delle difficoltà, delle sofferenze e della molteplicità di maniere per
affrontarle. La logica psichiatrica sminuisce le sofferenze delle
persone, riducendo le reazioni dell’individuo al carico di stress cui si
trova sottoposto a sintomi di malattia e medicalizzando gli eventi
naturali della vita.
È necessario operare contro l’invalidante stigma psichiatrico
affinché l’Istituzione psichiatrica dia ascolto e credito alle parole
delle persone. La restituzione sociale del cantiere proposta nel libro
si pone come obiettivo il mettere in luce quanto a livello di ascolto e
scambio dialogico sia ancora necessario fare per poter arrivare a un
reale processo di condivisione del percorso terapeutico. Dalle
narrazioni emerge una precisa richiesta di un maggior dialogo tra utenti
e operatori, di sviluppare pratiche alternative alla cura
farmacologica, nella prospettiva di elaborare un metodo che modifichi
radicalmente, sovvertendole, le Istituzioni psichiatriche nel loro
complesso.
Collettivo Antipsichiatrico Antonin Artaud
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