E’ convinzione diffusa che un individuo “normale”, sicuro di sé, soddisfatto della propria vita e ben adattato alla società sia anche una persona sana, immune da depressione o nevrosi. Ma cos’è la normalità? Che rapporto ha con la salute dell’individuo? E’ davvero un baluardo contro la malattia psichica? Nel corso degli anni, Erich Fromm si è interrogato a lungo su questo problema: la miseria e la sofferenza umana lo hanno infine convinto che il rapporto tra individuo e società non è così semplice come vogliono far credere i tutori dell’ordine esistente, e che spesso l’uomo sacrifica alla soddisfazione delle necessità materiali la propria integrità personale. Esiste quindi anche una “patologia della normalità”, una disposizione alla malattia che nasce dal conformismo e dalla sottomissione alla struttura mercantile delle moderne società occidentali. Due sono i meccanismi perversi individuati da Fromm, sulla scia di Marx e Freud, quali possibili cause della malattia psichica: da una parte l’alienazione, che pervade tutti i campi dell’esistenza – dal lavoro ai rapporti interpersonali, dal pensiero al sentimento – e che inevitabilmente porta all’asservimento e all’apatia; dall’altra il narcisismo, individuale o collettivo, che spinge l’uomo a calpestare la dignità dei suoi simili e lo induce gradualmente alla “necrofilia”, al rifiuto della vita. Fromm non si limita, però, a una critica della società contemporanea, né a tristi riflessioni sul carattere perverso della natura umana. Attraverso un’analisi impietosa del consumismo e della crisi di valori che scuote la civiltà occidentale, egli rileva come l’uomo abbia finito per riporre tutte le sue speranza nella scienza, ammaliato da un’idea mitica del progresso che lo ha convinto dell’esistenza di un’oggettiva e inarrestabile evoluzione verso il meglio e, al tempo stesso, dell’inutilià di ogni tentativo di risolvere razionalmente e tempestivamente le questioni sociali e politiche più scottanti. E’ proprio in questa indolenza, in questa passività, che Fromm suggerisce di cercare le radici della depressione, ormai diventata una sortadi malattia “professionale” dell’uomo contemporaneo. Ma, a differenza di quanto molti sembrano ritenere, indolenza e passività non sono astratte caratteristiche psicologiche o morali dell’individuo odierno, né tantomeno vizi d’origine dell’essere umano, bensì il frutto molto concreto delle condizioni socio-economiche “disumane” in cui ciascuno di noi si trova a vivere. Solo prendendo coscienza di tale nesso si potrà pensare di superare il vuoto concetto di “normalità”, sempre più spesso sinonimo di omologazione, e di costruire una rinnovata “scienza umanistica” che, forte del bisogno di utopia, ovvero della tensione verso la verità e la giustizia, si ponga l’obiettivo di far scoprire, o riscoprire, all’uomo il piacere dell’azione libera e consapevole e l’amore per la vita.
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