Morta a 19 anni nell'incendio: "In ospedale mia figlia stava male, voglio la verità"
«Mia figlia aveva una grandissima voglia di vivere. Se è successo che abbia voluto togliersi la vita, e non lo credo assolutamente, è stato perché soffriva troppo. Oppure c’è stato qualcosa che l’ha fatta desistere dalla vita. Qualcosa lì dentro, in ospedale. Non fuori». A tre mesi esatti dalla morte di sua figlia, ha deciso di parlare, di sfogare rabbia, dolore, domande. Lo fa in esclusiva con “Il Giorno”. Indiaxé Bahia Souza Venet, origini brasiliane, “mamma India” la chiamava sua figlia. Elena Casetto, 19 anni di Osio Sopra, nella Bergamasca, è morta a 19 anni in un incendio nel reparto di psichiatra dell’ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo, mentre era legata a un letto di contenzione. Era il 13 agosto.Signora, è stato scritto che sua figlia aveva tentato due volte il suicidio: la prima l’8 agosto, da un ponte nella zona di Osio e la seconda la mattina del 13 agosto. Dopo questo episodio era stato deciso di contenerla...
«Mia figlia non ha mai cercato di uccidersi né in Italia né prima, quando viveva a Bahia, in Brasile. In quei giorni era nervosa per vari motivi. Con il suo amore per gli animali, voleva adottare un gatto che girava per il condominio. Il pomeriggio dell’8 agosto sono rincasata e l’ho trovata con il gatto. Dovevamo partire per l’Olanda. “Portalo fuori”, le ho ordinato. È uscita di corsa con il gatto. Verso le sei o le sette mi hanno chiamato i carabinieri che mia figlia era per strada e voleva buttarsi da un ponte. Sono sicura che fosse solo una ripicca per il gatto».
E viene ricoverata a Brescia...
«Lì era pulita, ben tenuta, allegra. Faceva il trucco alle altre ragazze ricoverate. La dottoressa mi ha detto che le davano delle pastiglie perché aveva degli sbalzi di umore».
L’8 agosto viene trasferita al Papa Giovanni di Bergamo.
«Elena mi diceva che lei e le altre si sentivano trascurate. Volevo parlare con qualcuno, ma non trovavo nessuno. Il pomeriggio dell’11 agosto sono entrata nella sua stanza. Vomitava, sbavava, aveva gli occhi chiusi e non mi riconosceva. La sua compagna di camera mi ha riferito che un altro ricoverato, un uomo, l’aveva malmenata e fatta cadere. Dopo l’avevano sedata. Era stordita. La chiamavo, le davo dei buffetti sulle guance, ma non rispondeva. Saranno passati venti minuti, mezz’ora. Ha allungato le braccia e ha incominciato a dire cose strane, sembrava delirasse. È riuscita a farmi capire che la trattavano male, che voleva andare a casa. Io e uno del personale l’abbiamo messa su una sedia e rotelle e portata in un’altra ala del reparto, dove ho visto persone che sembravano zombie».
Arriviamo al 12 agosto, il giorno prima della morte di Elena.
«Stava un po’ meglio. Mi ha detto che non le avevano fatto la flebo come avevo chiesto il giorno prima. Aveva vomitato. Non riusciva a mangiare il menu del reparto, come il pesce, che non le era mai piaciuto. Le avevo portato pizza, acqua, succhi, frutta. Nelle mie visite mi ero accorta che puzzava. Voleva fare la doccia il pomeriggio, le avevano risposto che si poteva di mattina. Comunque, sedata com’era, non avrebbe potuta farla né la mattina né il pomeriggio. L’ho portata al bar. Ha preso un gelato. Al momento di risalire, ho avuto l’istinto di fuggire con mia figlia. Non mi perdono di non averlo fatto. La sera le ho mandato un messaggio in Whatsapp per dirle di stare tranquilla. Ha risposto “Viu, viu”, “Sì, sì’ in un dialetto di Bahia”».
Signora, che cosa chiede?
«Voglio verità e giustizia. Giustizia e verità. L’unica cosa che m’interessa è che ho lasciato mia figlia viva e avrei voluto riaverla a casa viva. Elena non era malata di mente. Doveva essere portata a casa e non in ospedale senza il mio consenso. Oppure avvisarmi. Hanno sbagliato dal primo momento».
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