… e tagliatore di catene, laceratore di camicie di forza, demolitore di muri.
Un ricordo di VITO TOTIRE e un racconto (scritto tempo fa che ha avuto una scenografia grazie a Giorgio e che a lui è dedicato).
Giorgio Antonucci è morto, una perdita enorme. Giorgio ha instancabilmente lavorato per la libertà e l’uguaglianza. Lo ha fatto dal luogo più difficile, dall’interno delle mura dell’ospedale psichiatrico.
Inizia a lavorare a Gorizia con Franco Basaglia per poi spostarsi a Reggio Emilia dove la sua prassi entra in sinergia con la forza propulsiva del “movimento operaio” che con le sue “calate” invade con intenti e con risultati demolitori l’assurdità della segregazione, nelle mura manicomiali, di una sofferenza psichica causata o concausata dal modo di produzione capitalistico. L’entusiasmo con cui Giorgio citava le “calate” operaie mette in luce con chiarezza il suo approccio non tecnico ma sociale al problema della sofferenza psichica. Giorgio raccontava di quegli anni: ma quale “delirio”? ma quale “follia” leggere nel gesto di una donna che lancia sassi contro una corriera se non la protesta disperata di una persona povera che assalta il mezzo che porta lontano i suoi affetti con l’emigrazione coatta come fuga dalla miseria e dalla morte per fame o malattia? Dopo Reggio, Giorgio si sposta a Imola. In forma di sfida l’istituzione gli assegna i reparti “punitivi” cioè il 17 e il 10. Quelli delle persone “agitate” e costantemente contenute; quelli che “opponevano viva resistenza alle cure” cioè alle “cure” sadiche del manicomi. In men che non si dica Giorgio con la sua èquipe di infermieri libera tutti. Niente mezzi di contenzione fisica,
niente psicofarmaci e neurolettici a vita; niente contenzione chimica ma relazioni, affetti, creatività, arte, inclusione e socialità. Tutti ingredienti che non arricchiscono le lobbies del farmaco. In uno scenario che anni prima era stato teatro di violenze, se si potesse fare una classifica, persino peggiori delle ultime e più sofisticate: dallo shock insulinico alla malarioterapia (cioè ti procuro la malaria per farti guarire dalla cosiddetta follia). In quegli anni – dopo l’innovazione di Giorgio –l’Oms conclude che gli psicofarmaci a vita sono controproducenti per la salute e per ogni tentativo o politica di reinserimento. E l’Organizzazione Mondiale della Salute scopre pure che il benessere psichico di una popolazione prescinde dall’esistenza o meno di “servizi psichiatrici” (per quello che nel mondo sono stati in grado di fare). Ma l’istituzione totale è dura a morire: Giorgio non ottiene riconoscimenti istituzionali e/o accademici. Viene piuttosto incriminato (la legge 180/78 era già stata approvata da un pezzo) perché una persona ospite di un reparto da lui diretto viene uccisa sulle strisce pedonali da un automobilista! Assolto ovviamente ma la Procura di Bologna ricorre in appello. Viene riassolto. Era evidentemente colpevole di non aver rinchiuso a chiave le persone esponendole ai pirati della strada! Colpevole di non aver privato della libertà le persone “storicamente destinate” alla reclusione…
Quello che Giorgio ha seminato, con un coraggio e una ostinazione profetici, oltre ad aver affascinato centinaia di giovani e di “puri di cuore” di ogni età, comunque cresce nel mondo. Per esempio nel modo di farsi carico della sofferenza che è stato definito “Dialogo aperto” (il finlandese Jaakko Seikkula e i suoi colleghi) e che richiama alla memoria le esperienze di David Cooper (esperimenti della Villa 21) e le esperienze del filone che da antispichiatrico giunse a definirsi “non psichiatria”. C’è sintonia e assonanza tra “Dialogo aperto” e le idee e le pratiche messe in campo da Giorgio Antonucci: pratiche ancora oggi confinate in Italia nella “sperimentazione” ministeriale, isola irraggiungibile in un arcipelago ancora votato alle pratiche custodialistiche (e a volte neppur quelle).
Devo ricordare una definizione che alcuni psichiatri dettero di Giorgio. Lo definirono, con l’intento di sminuirne il grandioso lavoro, un “poeta”. In verità dove quei denigratori vedevano un limite vi era una ricchezza. Giorgio ha portato anche la poesia fra i modi per lenire la sofferenza umana; grande compagno, amico, temerario tagliatore di catene , abbattitore di muri, laceratore di camice di forza, coltivatore di libertà ed uguaglianze.
Ci mancherai, mancherai alla umanità che soffre. Ci impegniamo a ricordarti, a rileggere e diffondere le tue opere, a continuare sul percorso a cui hai dedicato – senza risparmiarti mai, eccedendo in generosità – tutta la tua vita.
Grazie Giorgio.
Un racconto scritto tempo fa da Vito Totire, che ha avuto una scenografia grazie a Giorgio e che a lui è dedicato.
Visite al manicomio
Agli inizi degli anni ottanta decisero di andare a Imola, ogni settimana.
Si arrivava di
pomeriggio con borse colme del necessario: quaderni, fogli, pennarelli,
ingredienti per cibi e torte, registratore macchina fotografica. Due
gruppi: maschi (più scarso) e femmine (più numeroso ed esuberante). Si
attraversava il parco fino a metà; alberi giganteschi facevano ala al
piccolo corteo, ma dominava anche il rosso spento dei padiglioni.
All’entrata un check-point in crisi d’identità; il transito era libero?
In entrata quasi, in uscita… La legge 180, approvata da poco…
Entrati, sulla
sinistra, una struttura bassa lunga piano terra con studi medici. Targhe
su tutti gli edifici: erano in pietra, scritte scolpite a caratteri
rossi. In quel tratto di viale comparivano messaggi in bacheca. Un
giorno ne comparve uno difficile da ignorare: i risultati delle
elezioni. La curiosità indusse a fermarsi: le percentuali di voto erano
simili a quelle della città: schiacciante maggioranza comunista. Niente
sorpresa, l’isolamento verso l’esterno non aveva avuto particolari
effetti nell’ostacolare memoria e identità. In quel pezzo di viale
spesso veniva incontro qualcuno, ospite di reparti diversi da quelli
frequentati dai gruppi.
Un giorno due persone
anziane claudicanti vestite con abiti non proprio attillati. Un uomo e
una donna – si tenevano per mano come adolescenti – incuriositi dai
colorati visitatori. L’uomo si rivolse al gruppo con un sorriso
contagioso. Indicando la persona che lo affiancava, disse gioiosamente:
mia marita! Si erano conosciuti lì venendo da storie diverse? Vedovi,
internati, vedovi dopo l’internamento? Internati senza famiglia?
Segregazione, esks, solitudine, non li avevano uccisi né avevano tolto
loro la capacità di gioire e di cercare il contatto con persone che
percepivano affini.
Dopo l’edificio basso
sulla sinistra, un viale a destra portava alle lavanderie e poi ancora a
un’ulteriore fascia verde; anche queste strutture basse, coperture in
eternit, bonificate troppo tardivamente, quando il gruppo non
frequentava più. A metà del parco il gruppo si divideva: maschi al
reparto 17, donne al 10. In passato erano stati i due reparti degli agitati. Affidati
a un medico, altruista oltre misura, temerario come pochi al mondo,
generoso senza limiti. Veniva da un’esperienza di lavoro a Gorizia: era
Giorgio Antonucci, toscano di Firenze. Una sfida: vediamo cosa fai con i
più “difficili”.
Quando il gruppo
cominciò le visite, mezzi di contenzione nei due reparti non ve n’erano
più. Scomparsi da tempo, mai usati nella nuova gestione. Quei due reparti ex-punitivi
non avevano più il ruolo di prima nell’organizzazione interna. Altre
strategie si adottarono per punire i disobbedienti reclusi. Banditi gli
psicofarmaci e le contenzioni, rimanevano evidenti certi postumi,
difficili a guarire. Nelle strutture e nelle persone: simboli o effetti di carcerazioni e violenze subìte.
Il gruppo di uomini
mise mano alle cartelle con il consenso delle persone per capire meglio
la loro storia; il gruppo delle donne era più versato sulle arti
grafiche e culinarie ma le cartelle furono lette anche da loro.
Giungevano racconti, dal reparto 10, a fine pomeriggio, di torte
prodotte con dosaggi non ortodossi, esteticamente non perfette, mangiate
con le mani e buonissime, che interrompevano (poco) le produzioni
creative – raccolte poi in un filmato e un libro – e sfociate in un
progetto di uscita dalla residenza nel parco/prigione per la più giovane
delle ospiti; era lì per una malattia sconosciuta persino alla peggiore delle nosografie psichiatriche cioè l’essere orfani e abbandonati.
Il gruppo di maschi,
meno empatico, non aveva dimestichezza con torte e cibi. Erano Saverio,
entrato in contatto con gli altri nell’approssimarsi di una crisi, come
per guadagnarsi garanzie di non essere trattato con violenza; Concetto,
non tanto normale per la psichiatria se le sue risposte al test di Szondi (raccolte per una ricerca) avevano dato risultati disastrosi; Massimo infermiere in psichiatria – padre operaio della Bolognina – e Vittorio, militante politico entrato in contatto con il medico dei reparti, aveva fatto la proposta delle visite a Imola alla sua morosa che aveva detto subito sì.
Un salone grande
accoglieva i maschi al reparto 17. Il soffitto poggiava su colonne alte,
qualcuno vi si arrampicava riuscendo a mantenere la posizione per tutto
il pomeriggio con una capacità di resistenza non comune. Gli
specialisti – una volta chiamati alienisti o anche frenologi – parlavano
di catatonia
cioè una malattia e non una reazione alla reclusione. Era invece
l’impegno di un’energia enorme altrimenti destinata a chissà quale
esplosione o implosione. Scomparsa la reclusione scomparve la catatonia,
salvo qualche tendenza a ripercorrere, per paura del nuovo, strade già
solcate…
L’architettura era
impressionante: soffitti molto alti forse per facilitare la diluizione
delle urla e per smorzarle. Letti di contenzione. Spioncini per
controllare il recluso. Sportelli di protezione del televisore: quando
andarono in disuso, nessuno più lo spaccò. Le persone rimuginavano
lamentazioni, rivolte al passato; troppa la violenza subita per vivere a
pieno il presente. Pure i loro disegni rimuginavano lamentele,
frammenti di immagini terrifiche, calcoli matematici, simboli
espressione di associazioni d’idee. Poco veniva scritto, su invito,
mentre le parole fluttuavano eludendo totalmente eventuali controllori
di volo.
Un ospite volle farsi fotografare con alle spalle un manifesto del film Orizzonti perduti:
camicia bianca ben lunga, robusto, gioviale, mai di cattivo umore,
sopracciglia così folte da parere teatrali. Argomento fisso gli insetti mosco-essenziali da cui difendersi – da giovane – nelle campagne di Lugo: un tarantolato romagnolo?
Le cartelle: rendicontazioni di torture da parte di sadici (inconsapevoli?) sicuri della propria scienza.
Ernesto, caduto in
depressione per la morte della madre – lutto duro per tutti – studente
universitario, sensibile, timido, non apriva più i libri. La famiglia
considerò la sua reazione grave malattia. Internato. Aveva beneficiato
di tutti i ritrovati del “progresso” psichiatrico. Gli era stato
inoculato sangue malarico. Il gruppo dei visitatori non credeva ai
propri occhi; lo avevano di fronte a loro, non in una ricostruzione
storica di Foucault. Ernesto guardava di sottecchi attraverso occhiali
spessi: ancora timido, gentile, a volte quasi pauroso, come al tempo
della sua cattura. Ogni pomeriggio donava tabulati di formule
matematiche. Gli era pesato non concludere gli studi; avrebbe dedicato
la laurea alla mamma. Ma erano tempi in cui si entrava senza possibilità
alcuna di uscire. Quando si cominciò a poterlo fare la furia dei medici
aveva eroso la sua autonomia possibile. Davvero lo avevano curato senza tregua.
Lui timido ma anche “ingrato”: fece trapelare un’esplicita avversione.
Non ringraziò i medici delle “amorevoli” cure dando l’occasione ai
carcerieri di confermare la diagnosi. «Ha persino interpretato l’inoculazione di sangue malarico come una volontà degli psichiatri di danneggiarlo».
I familiari avranno annuito sconsolati ma rassicurati (troppo grave
perché torni a casa). Ernesto ha resistito come ha potuto, partigiano di
un battaglione sconfitto dalla potenza militare del nemico.
Un’etichetta per tutti: “il paziente oppone viva resistenza alle cure: trasferito al 17”.
E di resistenti il gruppo ne incontrò tanti; anzi tutti avevano opposto viva resistenza.
Antonio era stato sottoposto a dosi quotidiane di esks: panacea
universale; terapia buona per tutto anche per impedire la masturbazione e
guarire le nevrosi. Anche Antonio veniva dalla Romagna. Ormai libero
aveva crisi di panico se gli si proponeva di usare la libertà per andare
in un altro parco. Non riusciva a varcare il dissociato check point
dell’ospedale. Uscire? Accompagnato? Insufficiente, almeno le prime
volte. Dopo mesi riuscì a vincere la paura. Fu dopo un episodio
impossibile da dimenticare. Si discuteva dell’uscita, lui appoggiato a
un muro oscillava col corpo in avanti in continuazione. Due dei
visitatori mettevano in campo le loro capacità per convincerlo. Lui, a
un certo punto, uscì dalla sua monotona snervante oscillazione per fare
un gesto che pareva una sberla. Il più vicino era Vittorio.
Nell’approssimarsi dell’impatto si dipanò un suo percorso mentale: la
pericolosità non esiste / Basaglia attaccato dai fascisti / Thomas
Sheff-per infermità mentale… Quali i rischi? Da un lato la sberla;
dall’altro il ricredersi sulla necessità di abbattere il manicomio.
Vittorio aspettò: la mano di Antonio a un millimetro dalla guancia frenò
con una potenza impensabile trasformandosi in carezza. Tutto era in salvo: la soddisfazione di non aver tentennato sullo stereotipo, la gioia di un’esperienza impossibile da dimenticare anche se molto piccola… Ma tanto piccola?
Il gruppo frequentò
per oltre un anno. Più passava tempo dal 1978 più il linguaggio della
politica reiterava di voler superare il residuo manicomiale. Ma l’inflazione di buone intenzioni fu meno efficace della dipartita del residuo
per motivi di età avanzata. Salvo lo stillicidio delle vittime come
quelle che muoiono ad armistizio già dichiarato. Un ospite investito
sulle strisce pedonali da un’auto (ah se il matto
fosse stato tenuto sotto chiave non avrebbe ammaccato la carrozzeria
omicida!). E dunque per lesa carrozzeria il medico del reparto fu
processato. Oppure l’ospite aggredito da un compagno di sventura di un
reparto chiuso con ribaltamento di ruoli da parte dei media.
Andate a visitare il parco se potete, non troverete nessun residuo.
Sulle ceneri del manicomio è sorta una fetta di edilizia (popolare?).
Ma se concentrate l’attenzione sul fruscio delle foglie, sentirete le
risate gentili che tutte scambiavano con Angela, Chiara, Donatella,
Giovanna, Manuela, Piera al reparto 10 e i liberatori borbottii cui
Concetto, Massimo, Saverio e Vittorio davano significato nel reparto 17,
mettendo tutte e tutti in comune quello sprazzo di serenità e di forza
cui si riesce a dar vita visitando luoghi difficili.
Nessun commento:
Posta un commento