martedì 24 ottobre 2017

Proseguono le udienze per il processo sulla morte di Andrea Soldi

Morì per il Tso, in aula i suoi ultimi istanti di vita: “Andrea era a terra, respirava e aveva polso”

Il trasporto prono e ammanettato dietro la schiena sarebbe stato autorizzato da medico e infermiere

«Quando è stato ammanettato, Andrea Soldi era vivo. Pressione 110 su 60, con 8-9 pulsazioni in una decina di secondi», testimonia in aula Andrea Campassi, infermiere dell’Asl, nel processo a uno psichiatra e tre vigili urbani accusati di omicidio colposo. Il 5 agosto 2015, c’è anche lui in piazzetta Umbria. Quel giorno, lo psichiatra Pier Carlo Della Porta chiede l’intervento della polizia municipale per un Tso «del ragazzo», come lo chiama Campassi. La definizione tradisce un moto d’affetto, a dispetto dei 47 anni dell’uomo mai arrivato a ricevere le cure che il medico aveva disposto.

«Conoscevo bene Andrea, fino a dicembre 2014 era venuto in ambulatorio per le cure, poi aveva smesso» ricorda l’infermiere. Davanti al giudice Federica Florio, spiega che era «sfuggente, difficile da raggiungere. Non era possibile andare a casa sua, la viveva come un’intrusione, era molto geloso di quello spazio. Una volta gli ho telefonato per presentargli un operatore e non l’ha presa bene».

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La chiamata
Per la centrale operativa del «118», Andrea era un «codice giallo 5 sierra». Tradotto: malato psichiatrico, in strada, con «parziale compromissione delle funzioni dell’apparato circolatorio o respiratorio» secondo la classificazione della medicina di emergenza. L’intervento era programmato, con tanto di polizia municipale. «Per ogni evenienza, non era detto che dovessero intervenire», aggiunge. Poco distante c’è anche Renato Soldi, il papà di Andrea, costituito parte civile assieme alla figlia Maria Cristina (avvocati Luca Lauri e Giovanni Maria Soldi). Ma resta in disparte. «Ha valutato che farsi vedere potesse essere controproducente», aggiunge.

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Lo psichiatra e l’infermiere cercano di convincerlo, ma lui rifiuta la cura. È seduto su una panchina, pare tranquillo. «Diceva che era un analgesico per il mal di schiena e lui non ne aveva più bisogno perché era guarito», dice l’infermiere. L’intervento è stato chiesto da papà Renato. «Era preoccupato, aveva notato alcuni “campanelli d’allarme”, come la difficoltà a gestire il denaro, la mancanza di igiene personale e le condizioni della casa», aggiunge.

L’intervento del collega
Fallite le chiacchierate, su richiesta dei vigili urbani lo psichiatra ha chiesto l’intervento di un collega, per la seconda firma per validare la richiesta di Tso. «Anche lui ha provato a spiegare», ma alla fine Andrea «ha incominciato a pronunciare frasi sconnesse, anche in piemontese stretto». Un vigile ha provato a inserirsi nel monologo, ma ottiene il contrario. A quel punto, scatta l’azione. «Era alto un metro e 80 per 130 chili, la fisicità poteva spaventare, ma lui non è mai stato violento», dice ancora l’infermiere. Due vigili gli prendono le braccia, uno il collo. «Lo ha tenuto per almeno un minuto, il tempo di preparare l’iniezione», dice l’infermiere. Riesce a infilare l’ago sopra il «gluteo destro di Andrea, ma lui libera il braccio destro e spazza via la siringa». La situazione ha un’accelerazione: Andrea finisce con la faccia a terra, ammanettato dietro la schiena. Posizione che manterrà fino in ospedale. Gli avvocati difensori dei quattro imputati (Anna Ronfani e Stefano Castrale) cercano di chiarire la situazione. Soprattutto, le condizioni di salute di Andrea. «Ho visto un movimento della cassa toracica, respirava. Ho misurato pressione e battiti», spiega l’infermiere.

In ambulanza
E ci riprova anche appena caricato in ambulanza. Ancora a faccia in giù, ammanettato dietro la schiena. Secondo la scheda compilata dagli ambulanzieri, la decisione è stata presa dall’infermiere e dallo psichiatra. Ma in quella posizione, «non sono riuscito a fargli mettere la mascherina per l’ossigeno», dice. Misura il tasso di saturazione di ossigeno nel sangue. «Era 66», aggiunge. Per lui, non è un valore critico e non segnala la situazione al pronto soccorso dell’ospedale Maria Vittoria, dove arrivano qualche minuto dopo.
In fondo alla scheda dell’intervento, c’è anche la firma di Matteo Di Chio, ambulanziere della Croce Rossa. La sua testimonianza è piena di contraddizioni, di «non ricordo». Il pm Lisa Bergamasco e gli avvocati mostrano pazienza, ma lo stesso giudice deve intervenire per spiegare al testimone che «deve dire soltanto ciò che ricorda, nessuna deduzione o collegamento logico». E in quanto a logica, sovente le sue affermazioni fanno difetto. Come quando esprime le perplessità avute per le modalità di trasporto di Andrea, ma non sa spiegare perché non ha chiamato la centrale operativa per segnalare la questione.
Alcune circostanze, però, svettano nella questa nebbia che avvolge i suoi ricordi. Come la reazione di un vigile quando al pronto soccorso gli hanno chiesto di togliere le manette ad Andrea: «Calma, adesso lo faccio». Avevano appena gridato che Andrea era «in arresto cardiocircolatorio».

fonte:www.lastampa.it

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