La psichiatria nasce con l'intento di dare una veste scientifica al
controllo di tutti i comportamenti giudicati forme di criticità, in
quanto potrebbero minare la quiete sociale pianificata da ogni potere
politico-economico. Avviene così, ancor oggi in maniera sistematica
soprattutto per le diagnosi inserite nei DSM (i manuali delle malattie
mentali redatti negli USA), che le condotte anomale vengano tradotte nei
termini di patologie mediche, in assenza di test oggettivi che le
comprovino. Uno degli esempi più eclatanti riguarda l'omosessualità: fin
dal positivismo, al giudizio morale negativo si aggiunse la condanna
scientifica ideata dall'antropologia criminale, che poi divenne una vera
e propria patologia psichiatrica descritta nel secondo DSM (1968);
quando nel 1980 fu pubblicato il DSM III, miracolosamente sparì: non era
più una malattia mentale, ma una devianza sociale o che altro? La
maggior parte delle diagnosi ha avuto il medesimo percorso poiché
risponde ad esigenze dettate dal sistema socio-economico che si avvale
della permeabilità del determinismo nel dare spiegazioni approssimative
alle sofferenze psicologiche, confondendole ai deficit neurologici. La
psichiatria rimane estremamente coerente a se stessa nel prestare il
fianco agli obiettivi di altri apparati di potere. Questo taglio
analitico trova conferma in molte ricerche storiche: oggi abbiamo a
disposizione un prezioso studio che colma una lacuna sul connubio fra
questa specializzazione medica e l'apparato militare. Trattasi di un
opuscolo autoprodotto dal Collettivo Antipsichiatrico Antonin Artaud di
Pisa (che per “Sensibili alle foglie” aveva già curato: Elettroshock –
La storia delle terapie elettroconvulsive e i racconti di chi le ha
vissute, 2014) firmato da Marco Rossi dal titolo Correnti di guerra –
Psichiatria militare e faradizzazione durante la Prima guerra mondiale,
2017, pp. 40. La pubblicazione è stata preceduta da un dibattito
pubblico tenutosi a Volterra qualche mese fa; l'autore infatti
ribadisce: “Una ricerca non appartiene mai soltanto a chi la firma:
questa non fa eccezione. Infatti, è nata dalla complice amicizia con il
Collettivo Artaud e il gruppo Kronstadt di Volterra”. I trattamenti
psichiatrici sono spesso ideati per curare specifiche anomalie
comportamentali descritte utilizzando un'ambiguità terminologica che,
volutamente, crea una sovrapposizione fra sintomi e presunte malattie,
in altre parole: fra causa ed effetto. Il contesto analizzato da M.
Rossi - la cruenta guerra 1915-'18 - fra le sue conseguenze devastanti,
registra casi esasperati di sofferenza psichica che produssero
l'allontanamento di numerosi militari dagli scenari bellici affinché
fossero rinchiusi nei manicomi, in particolare nei reparti dedicati ai
disertori come quello del S. Maria di Pietà di Roma. In alcuni documenti
dell'epoca si ribadisce che le condizioni di vita in trincea possano
causare forme di nevrosi, ma nei referti medici la fedeltà agli intenti
ideologici e patriottici risulta evidente dalla ripetizione del
concetto: non dipendente da cause di guerra. Ogni tragedia lacera
profondamente l'emotività, modifica sostanzialmente la percezione
dell'esistenza: la retorica del patriottismo perse concretezza al
confronto diretto con l'esperienza del terrore, quella paura intima
vinse il mito del sacrificio eroico. “L'incontro tra le due istituzioni
totali – l'esercito e il manicomio – aveva avuto un precedente
significativo ai tempi della guerra in Libia (1911-1912), quando molti
soldati avevano perso il senno nelle sabbie desertiche” (…) “La
militarizzazione della psichiatria nazionale divenne quindi un fatto
compiuto con l'entrata in guerra dell'Italia nel maggio 1915” spiega
l'autore. Fu così che, a distanza di pochi mesi, 170 psichiatri furono
inseriti a pieno titolo nell'organico militare sotto la guida di A.
Tamburini, presidente della Società Freniatrica ed ex direttore di uno
fra i più efficienti e storici manicomi europei, il San Lazzaro di
Reggio Emilia. Fu così che si inaugurarono i neurocomi militari nei
quali si poté assicurare ai graduati un trattamento privilegiato; i
soldati ricoverati furono circa 40000 “secondo le cifre ufficiali ma
probabilmente sottostimate” sottolinea l'autore che poi aggiunge: “resta
invece da accertare il numero, non meno rilevante, delle donne
internate in manicomio a causa di disturbi psichici determinati, più o
meno direttamente, dal contesto bellico”. L'opuscolo è breve, ma
dettagliato e ben documentato. La faradizzazione è l'utilizzo di
corrente elettrica applicata su varie parti del corpo, scroto compreso,
ai renitenti al dovere del servizio militare che manifestassero forme di
psicosi, fossero essi simulatori, pederasti, moralmente deboli,
degenerati, imbecilli gravi, predisposti costituzionalmente alle
reazioni criminose, disertori e via dicendo fino ad evidenziare nella
pazzia ragionante, di lombrosiana memoria, la diagnosi più pertinente da
affibbiare agli antimilitaristi socialisti e anarchici. Si attuò un
vero e proprio programma di profilassi morale per scoprire e punire i
frodatori, con l'evidente obiettivo di rinviarli al più presto al fronte
affinché fossero ricollocati negli avanposti più rischiosi del
combattimento in corso. L'ideologia positivista, che sottende ai metodi
intimidatori della faradizzazione (anticiparono quanto avvenne nei
conflitti armati successivi con l'impiego sistematico
dell'elettroshock), si evince da numerosi documenti e da locuzioni come:
“il mancato adattamento alla società militare era segno di
incompletezza biologica”; “gli uomini incapaci di uccidere erano un
gruppo aberrante”; o “l'incorreggibile, l'indisciplinato, il debole o
chi è privo di senso morale non può considerarsi normale” come scrisse
lo psichiatra G. Antonini in La questione della epurazione dall'esercito
dei criminali. La ricerca di Marco Rossi è completata dal confronto
dell'utilizzo delle elettroterapie in altri Paesi europei e da dati
particolareggiati su alcune aree territoriali, ad esempio il frenocomio
San Girolamo di Volterra. Nell'opuscolo, inoltre, viene sottolineato
come tutte le sofferenze psicologiche dovute ai traumi causati dai
contesti bellici, ricondotte però dagli apparati di potere a forme di
debolezza congenita o infermità mentale, diagnosticate a militari e
civili (questo termine generico in tempo di guerra include soprattutto
le donne) abbiano ispirato i redattori del DSM III quando decisero di
classificare, con un lessico medico più aggiornato, i malesseri
manifestati dai reduci della guerra in Vietnam: nacque così il Post
Traumatic Stress Disorder che, grazie a dettagliate
sotto-classificazioni, è il pretesto sempre più utilizzato per contenere
chimicamente testimoni e vittime di ogni conflitto armato, nonché
migranti che transitano nei cosiddetti luoghi di accoglienza
istituzionali. Anche in questo caso il ribaltamento causa-effetto, sul
quale la psichiatria ha sempre basato i propri protocolli, evidenzia il
disagio sull'individuo, evitando di mettere in discussione tutte le
forme di ingiustizia sociale, vera causa di ogni discriminazione e
sofferenza. L'approccio psichiatrico, anche quando sembra poco invasivo,
non si occupa del vissuto emozionale e fenomenologico delle persone
che, al contrario, sono considerate casi clinici. Basaglia ha scritto
che un individuo da folle diventa razionale quando lo si definisce
malato: è la cultura manicomiale, sempre viva nonostante si nasconda
dietro un lessico rinnovato, a rendere razionale il paziente
psichiatrico e non perché viene guarito, ma perché viene rinchiuso e
curato. Le forme di questa coercizione riemergono ogni volta che si
toglie dignità ad una persona e si rinchiudono i suoi dubbi, le sue
emozioni, il suo corpo e le sue possibilità di scelta. La ricerca di
Marco Rossi è un tassello prezioso che dimostra – pur nel contesto
specifico analizzato – il ruolo e l'intento di una disciplina medica
sempre disposta ad incrementare il proprio profitto in alleanza agli
altri apparati del potere.
Chiara Gazzola
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