Il caso dei nosocomi di frontiera usati nel dopoguerra per il confino per emigranti “fastidiosi”. Parla l'autore del volume “Diario dal manicomio” | |
Emigrazione, sofferenza psichica e pratiche totalizzanti: emerge il caso che - tra gli anni '40 e '60 - delinea un instradamento anomalo al trattamento sanitario obbligatorio a
danno di emigranti italiani, rei di presunte “turbe psichiche”
manifestate in territorio straniero. Interviene in proposito il
professor Giorgio Antonucci,
scrittore ed attivista per i diritti umani, tra i maggiori esponenti
del movimento dell'antipsichiatria fondato dall'americano Thomas Szasz:
«la dottrina attesta da tempo che lo straniero è per sua natura in
condizione di svantaggio, quindi esposto in quanto tale a riscontri di
“anormalità” psichiatrica secondo giudizi arbitrari; è così che i
“diversi”, gli emarginati, le vittime di guerra, all'occorrenza
finiscono per essere riconosciuti tutti come “pazzi”».
Il caso in questione deriva da un ritrovamento inquietante. Le cartelle cliniche dell'ospedale psichiatrico “San Martino” di Como evidenziano che
per oltre vent'anni - dal '46 al '69 - nel nosocomio sono arrivati
oltre 250 “pazienti”, quasi tutti maschi provenienti dall'estero. Come
mai così tanti? Come mai qui alla frontiera e non nei luoghi di
d'origine?
Il ricercatore Gavino Puggioni,
esperto di storia orale e scrittura popolare, è l'artefice del
ritrovamento. Con lui si torna al contesto di miseria del periodo,
quando era necessario andare a cercare fortuna fuori e il governo
scambiava in qualche modo forza lavoro contro materie prime, braccia in
cambio di carbone; e se qualcuno creava problemi di sorta era
conveniente risolvere il problema alla radice. Ecco che si prospetta una
scandalosa “migrazione di ritorno”, una reclusione mascherata da
follia.
Una vicenda dolente,che oggi torna a galla ripresa da un'emittente radiofonica romana all'interno del ciclo “Più scheletri che armadi per nasconderli”. Occasione in cui è appunto ospite il medico e psicanalista, già collaboratore di Basaglia: «Al di là del singolo caso, dobbiamo interrogarsi sull'essenza stessa della psichiatria,
che può invalidare il pensiero dell'altro con un atto autoritario che
non ammette difesa o d'uscita: quando qualcuno è dichiarato 'pazzo'
qualsiasi cosa dica o faccia è comunque sbagliata».
Dunque
il manicomio come meccanismo di velata esclusione, segregazione,
distacco, alienazione di quello che di volta in volta è considerato un
elemento “di disturbo” della società; dove non conta “giusto” o
“sbagliato” ma solo il giudizio di “correttezza” espresso dal
funzionario.
Conclude Antonucci: «L'errore di fondo è “psichiatrizzare” sempre più le manifestazioni umane:
trasformare un errore o un reato in malattia mentale significa
trasformare un soggetto responsabile delle proprie scelte in un oggetto
passivo, macchinetta da aggiustare secondo le esigenze sociali. Il
paziente dovrebbe scegliere circa la propria salute. Invece nelle
malattie mentali inventate il medico da consulente diventa tutore,
decidendone il destino al suo posto. Una situazione che fa temere per la
libertà».
Ora
interverranno le autorità competenti. Ma eliminare le persone
attraverso la psichiatria rimane di moda, se è vero che si inventano
sempre nuovi disturbi (l'obesità, il gioco d'azzardo...) in base a fini
ed interessi eterodiretti. E i 'malati di mente'? Forse scompariranno
solo quando la società smetterà di escluderli. (Edizioni Spirali, marketing@spirali.com)
|
mercoledì 19 agosto 2015
Giorgio Antonucci: «La 'psichiatrizzazione' è contro la libertà»
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento