“Ma come, in un processo così importante, con tutti i parenti delle vittime di fronte, quello dorme?”
Ce l’ha con un giudice della corte che durante l’udienza sonnecchia.
Mi colpisce l’indignazione di questa ragazza bellissima, dagli occhi chiari, i capelli ricci ricci, la pelle bianca. E’ giovane. Molto, forse troppo.
La incontro tra gli austeri corridoi della Cassazione durante l’ultimo atto del processo Aldrovandi.
E’ venuta qui anche lei, come Ilaria, Lucia, Domenica, sorelle, figlie di uomini morti mentre erano nelle mani dello Stato.
Mi dicono che si chiama Grazia, che lei è una “nipote”.
Che da anni combatte una battaglia. Da sola. Inascoltata.
La avvicino, e lei è un fiume in piena.
“Abitiamo vicino Salerno, siamo decentrati, periferici, abbandonati. Mio zio era una brava persona, non aveva mai fatto male a nessuno. L’hanno lasciato morire così, dentro un ospedale, senza farcelo vedere. Legato ad un letto, mani e piedi. Ci sono le immagini, è tutto documentato”.
Una storia mai sentita.
Una storia allucinante che si svolge nell’estate del 2009 nel giro di pochi giorni tra Vallo della Lucania, Castelnuovo Cilento e San Mauro Cilento. Paesini che a stento riusciamo a localizzare su una cartina geografica. Sembra un film. Drammatico. Il titolo potrebbe essere “Morte di un maestro anarchico”. Era Francesco, Franco per gli amici. “Il maestro più alto del mondo” per gli alunni.
Aveva 58 anni. Un tipo che non passava inosservato. Quando parlava di politica si arrabbiava, era un appassionato di libri, li collezionava addirittura. Non era un uomo tranquillo, Franco. La sua vita era stata segnata da una serie di eventi traumatici che hanno acuito la sua sensibilità, rafforzando in lui delle paure violente e l’avverisone per le forze dell’ordine.
Sotto processo nel 72 per un omicidio scaturito da uno scontro tra militanti di destra e sinistra, venne assolto nelle file dei “compagni”. Poi, nel 99, scontro con i Carabinieri per una causa futile. Viene portato in caserma, processato per resistenza e oltraggio a pubblico ufficiale, condannato in primo grado come “noto anarchico” e prosciolto con tante scuse in appello. Ma intanto viene considerato soggetto patologico, classificato come aggressivo, raggiunto da due TSO, trattamento sanitario obbligatorio previsto dalla legge, deciso dal sindaco su proposta di un medico, e segue un protocollo rigido e preciso.
Da anni era tranquillo. Poi, quel 31 luglio del 2009, mentre era in vacanza al mare, viene raggiunto impovvisamente da TSO disposto dal sindaco di un paese che non è il suo. Viene accerchiato dalle Forze dell’Ordine. Scappa verso la spiaggia, spaventato.
E qui, fa una cosa che nessuno farebbe.
Qui esprime davvero il suo essere.
Prende un caffè. Fuma una sigaretta.
Mentre carabineiri e Guardia costiera gli danno la caccia.
Lo prendono, lo portano in ospedale. Quattro giorni dopo, il 4 agosto, ne esce cadavere dopo 82 ore di contenzione.
Ci sono i filmati. Legato. Per giorni. Un edema polmonare lo ha ucciso, dice l’autopsia.
Ma il rinvio a giudizio di un processo già in corso nel silenzio generale, racconta un’altra storia.
Sei medici e dodici infermieri del reparto (lo chiamavano “il lager”, ora è chiuso) sono imputati con l’accusa di sequestro di persona da cui sarebbe conseguita la morte e, per i soli medici, l’accusa è anche di falso documentale riferito alla cartella clinica.
Il processo è in corso, forse a settembre la sentenza di primo grado. Nell’indifferenza generale, nell’ostilità del paese, dell’ospedale, del tribunale.
Grazia ha terminato la sua storia. Ora è svuotata, stanca. “Per favore parlatene, non ci dimenticate”, mi dice salutandomi, intimidita.
Ciao Grazia. No, non ti dimentico. Te lo prometto.
[Valeria Collevecchio]
per approfondimenti: http://www.giustiziaperfranco.it/index.html
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