lunedì 3 giugno 2013

Un confronto interessante

Anonimo26 luglio 2011 14:08
 
Vorrei provare a dire due righe...

Sono tirocinante in una ASL, in un Centro di Salute Mentale e preferireio parlare del presente, piuttosto che del passato.
Credo che nessun dipendente, dove lavoro io (luogo di sicuro non illuminato), usi la psichiatria come mezzo di controllo. Però c'è una concezione della persona che fa ricorso ai servizi del CSM come di un "malato", logica che porta l'operatore ad assumere una posizione di "cura".

Prendiamo "curare" nella sua accezione più ampia e più antica, vista nel contesto in cui la persona, a causa di un problema, ha limitazioni e sofferenze nella vita relazionale, individuale, sociale, lavorativa, ecc.

Il problema del "curare" sorge da un'etichetta di "malato", soprattutto di "malato inguaribile", così come concettualizzata nell'Occidente contemporaneo.

Per due motivi:

1) l'etichetta di malato attiva una logica di cura che, nell'Occidente, porta quasi immediatamente all'idea di cura farmacologica.

Cioè: il malato (mentale) è preferibile curarlo primariamente coi farmaci. E' una logica a cui ci abituano i nostri genitori (e poi altri) da bambini, ma non solo perché ci sono dei cospiratori: sì, gli interessi delle industrie farmaceutiche ci sono, ma queste fanno leva sulla pigrizia umana, sul nostro disinteresse a cercare alternative - soprattutto oggi, nell'epoca del web, questa verità del disinteresse è palese, perché se non ci fosse il disinteresse oggi le risorse alternative sono raggiungibili da tutti e potrebbero portare a un tracollo della primarietà della "logica farmaceutica" (parlo di "primarietà" perché negare il farmaco in assoluto è corretto tanto quanto può essere corretto qualunque assolutismo).

Quindi, sia per l'interesse di qualcuno, sia per il disinteresse nostro, si impone una logica di "utilizzo primario del farmaco" che è sbagliata. Sia nel senso che è sbagliato pensare che solo i farmaci possano curare la persona con problemi psichici. Sia nel senso che è sbagliato l'abuso del farmaco, perché comporta una serie di effetti collaterali pesanti (biochimici ma anche legati all'idea del "sto prendendo uno psicofarmaco" - e questi sono gli effetti peggiori, spesso).
 
2) l'etichetta di malato inguaribile, naturalmente, lascia pensare che quella persona è vittima di una malattia da cui non guarirà mai e che quindi l'unica cosa da fare è rendergli la vita il più facile possibile attraverso i farmaci. Attenzione: questo non è un atteggiamento da controllori sociali. Gli psichiatri, semplicemente, si tramandano queste conoscenze, come l'idea di "malato schizofrenico = inguaribile", che sono l'uovo di Colombo prima di essere schiacciato: non sanno e non pensano che ci sono altre alternative.
"Non sanno" è un'affermazione del tutto vera: la letteratura mondiale psichiatrica, psicologica, psicoterapeutica e affine dell'ultimo secolo è composta da milioni di libri e da migliaia di correnti (pensate che solo le scuole di pensiero psicoterapeutiche - da non confondere con quelle psichiatriche o psicologiche - sono oltre cinquecento, e continuano a fiorire) tali che ciascuno, atteggiamento comprensibile, ne conosce bene una, ne sa qualcosa di altre, ma la maggior parte le ignora del tutto, non sa proprio che esistono (è come la musica: conosci bene dei gruppi, ne sai qualcosa di altri, ma di altri ancora non sai nemmeno che esistono - e non importa che tu sia una casalinga, un musicista dilettante o un professionista, perché è così per tutti; semmai cambia la quantità della conoscenza). Così, seppure degli psicoterapeuti di un orientamento definito strategico risolvono da quasi mezzo secolo i problemi di schizofrenia quasi sempre senza psicofarmaci, è normale che molti, moltissimi non sappiano nemmeno l'esistenza di tale orientamento.
In più, gli psichiatri "Non pensano" che curare senza farmaci sia possibile perché una logica, quando si sedimenta, fa fatica ad essere depauperata, e questo vale per tutti noi, anche per uno psichiatra o altri che leggendo le mie righe si trovano in una posizione del tutto contraria alla mia. Attenzione, non dico che la logica che presento è giusta e che un'altra è sbagliata. Dico che allo stesso modo molti psichiatri, seppure gli si presentassero i milioni di casi di persone con i più disparati problemi (attacchi di panico, depressione, schizofrenia, ecc.) risolti senza farmaci, farebbero fatica a crederci, perché cozzerebbero con la loro impostazione, dovuta da anni di letture ed esperienze. Per quanto ci rifiutiamo di pensarlo, questo è un atteggiamento mentale naturale dell'uomo (non dico giusto, sbagliato, funzionale o disfunzionale: semplicemente naturale), che sorge dalla necessità di avere dei punti fermi per ragionare, anziché mettersi in costante discussione su tutto e cambiare sempre idea. Anche qui: non dico che cambiare sempre idea e mettersi in discussione non sia possibile né desiderabile (anzi), ma semplicemente che va contro il più comune processo di pensiero umano - e questo, per chi è interessato alla psiche, significa un maggior sforzo cognitivo; ancora una volta: "maggior sforzo cognitivo" non deve farci drizzare sulla sedia e urlare scandalizzati "Allora solo perché ci si deve sforzare di più bisogna lasciar perdere?!", ma semplicemente ci deve far riflettere che le nostre strategie per cambiare tutto ciò devono essere progettate tenendo conto che qualunque organismo vivente tende per natura a seguire con più facilità i processi che richiedono meno sforzo. "Con più facilità", non "automaticamente e unicamente".
Per chiarire tutto ciò con un altro esempio, esistono delle psicoterapie definite "brevi". La psicoanalisi ortodossa, di norma una psicoterapia "lunga", le critica dicendo che i loro risultati non sono "veri". Cioè, di fronte a persone che in 10-20 sedute hanno risolto tutti i problemi portati, e che dopo due anni non hanno avuto "ricadute", la psicoanalisi ortodossa risponde che, comunque sia, quelle persone non sono veramente guarite. Non è "stupidità" o "cecità": loro non dicono che "bisogna fare lunghe terapie", ma semplicemente dicono che dei risultati "veri" (parola qui sinonimo di "buoni, apprezzabili, duraturi, efficaci, efficenti, effettivi, adatti...") possono essere raggiunti con un metodo (il loro) che, per forza di cose, purtroppo è piuttosto lungo. Allo stesso modo, la psicoterapia breve critica la psicoanalisi ortodossa dicendogli che questa affermazione è sbagliata, che il loro metodo è sbagliato. Chi ha ragione? Entrambi difendono la propria posizione e decidere "Chi ha ragione" è indecidibile.

Qualcuno ha detto che in realtà basterebbe mettere davanti i risultati: casi risolti in 10 sedute vs casi risolti in 100. Ma il ragionamento non è così lineare. In gergo si parla di "epistemologia", cioè i modi in cui conosciamo la realtà. Per fare un esempio astratto, posso dire a un sordo che non c'è niente di meglio di un concerto il sabato sera, ma lui potrebbe avere qualcosa da ridire in base ai suoi modi di conoscere la realtà.
Pensare che uno psicoanalista e uno psicoterapeuta, però, non sono sordi o ciechi, ma hanno "solo" dei "modi di pensare" diversi e che, quindi, di fronte ai fatti (10 sedute vs 100) il primo dovrebbe "semplicemente" cambiare il proprio modo di pensare, è un semplicismo - e infatti non funziona, e pensare che non funziona perché "tutti gli psicoanalisti sono cattivi e cospiratori" è un altro semplicismo. E' come dire a una persona depressa che chiudersi in casa non farà che aumentare la sua depressione: non basta per farla uscire; spesso non basta nemmeno riuscire a convincerla una sola volta facendola divertire; provateci. Questo perché la mente, appunto, non è così lineare come vorremmo credere.
Il concetto di "logica" e quello di "epistemologia" sono fondamentali, perché si rifanno a "come la persona vede il modo e quali mezzi usa per continuare a vederlo così" e se le sue lenti gli fanno vedere tutto giallo, mettergli davanti un pomodoro non basterà a convincerlo che è rosso.

Chiudo tornando all'inizio.
Sono convinto che ci siano interessi a vendere i farmaci e quindi a mantenere un certo atteggiamento nelle persone. Ma sono altrettanto convinto che ciò faccia parte di una logica da cui noi (generalizzo, naturalmente) facciamo spesso poco per uscire. L'uomo psichiatra il più delle volte è solo un uomo che SA (prima ancora di credere) di fare la cosa giusta. Non è cattivo, ha semplicemente una convinzione datagli da anni di esperienze (naturalmente orientate da tale convinzione) e non capisce perché dovrebbe cambiarla con la nostra, di cui non ha alcuna esperienza.

L'atteggiamento va cambiato nel nostro modo di porsi di fronte a tutto il mondo. Finché buttiamo una cartaccia per terra perché "Sì, inquina, ma tanto è solo un pezzettino di carta" qualunque alternativa farà fatica a entrare. Per chi vuole promuovere informazione alternativa, la strada migliore è quella del non attacco (perché altrimenti incardinerebbe gli psichiatri - e chiunque altro - sulle proprie logiche) e dell'apertura al dialogo (perché nessuno è disposto ad ascoltare sempre senza essere ascoltato mai).

P.
 
RISPOSTA:
 
Trovo molto acuta la tua osservazione riguardo la contestabilità della valutazione in termini patologizzanti della devianza psichica: questi ultimi implicano l'innescarsi di un processo di reificazione della soggettività del paziente ( e già in questo è coglibile una ben precisa dinamica di controllo, per quanto in genere posta in essere inconsapevolmente),tale da farne il possibile oggetto di un intervento eminentemente psicofarmacologico e non invece il soggetto di una relazione dialogica, eventualmente inclusiva dell'opzione farmacologica.Sull'argomento si ricordino le parole di Thomas Szasz riguardo il trattamento psichiatrico in quanto rito implicitamente atto a produrre una finzione:"L'obiettivo primario dei trattamenti psichiatrici-sia che utilizzino come metodo i farmaci, l'elettricità, la chirurgia[con riferimento alle dismesse pratiche psicochirurgiche]o la contenzione, specialmente se vengono imposti a pazienti non consenzienti- è quello di autenticare il soggetto come "paziente", lo psichiatra come "medico" e l'intervento come una forma di "cura". I costi di questa finzione sono elevati: si richiede infatti il sacrificio del paziente in quanto persona, dello psichiatra in quanto pensatore critico e agente morale e del sistema legale in quanto protettore del cittadino dagli abusi del potere statale".Per quanto riguarda la specifica funzione di controllo esercitata dalla psichiatria essa va letta a più livelli, più o meno espliciti o occultati,che non di rado possono anche sfuggire alla comprensione dello stesso psichiatra come di chi intenda,a vario livello di consapevolezza,criticare teorie e pratiche della psichiatria(é proprio in questo senso che hai ragione a considerare fondamentale la dimensione del dialogo):dall'impostazione securitaria propria della psichiatria a vocazione istituzionale alla stessa concettualizzazione in termini patologici della devianza psichica, tale da mimetizzare, a livello delle diagnosi e dei loro contenuti,svariate stigmatizzazioni implicitamente etiche, e dunque inoggettive,della soggettività del paziente, presentandole nei termini apparentemente oggettivi della diagnosi medica.
 
Scaricabile dal link anche il libro di Bucalo 'DIzionARIO antipsichiatrico. Esplorazioni e viaggi attraverso la follia (1997)'
 

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