sabato 27 dicembre 2025
Intervista a Giorgio Antonucci
Il taser uccide
Riceviamo e pubblichiamo.
Il taser uccide: occorre che il ceto politico decida finalmente e
immediatamente di metterlo fuori uso
In memoria di Elton Bani
Al presidente della repubblica Sergio Mattarella
Alla Fnomceo-Federazione nazionale ordine dei medici
A chiunque interessato/a
Un organo di informazione (Telenord) ha reso note le conclusioni della perizia effettuata dalla dottoressa Isabella Caristo relativa al decesso di Elton Bani – un uomo di 41 anni – avvenuto a Manesseno (Genova) il 17 agosto 2025. L’arresto cardiocircolatorio mortale secondo la consulente è stato causato dagli effetti sinergici di cocaina e scarica della pistola taser. Spetta ora al pm Paola Calleri trarre le prime conclusioni.
Per quello che ci riguarda la notizia non è “sorprendente” e conferma la necessità di mettere immediatamente la pistola taser fuori uso per una motivazione semplice, che finora chi ne ha consentito l’utilizzo non ha voluto prendere in considerazione: l’arma viene usato contro persone delle cui condizioni cliniche e della cui anamnesi personale non si sa nulla.
c’è però una aggravante. Persino senza dover fare ricorso a “dati epidemiologici” ma per una semplice ed empirica constatazione è evidente a tutti (tranne evidentemente ai governi ed ai ministri che hanno autorizzato) che l’arma viene usata non solo “al buio” per quel che riguarda la situazione clinica individuale ma persino su/contro una coorte di persone che certamente, rispetto alla popolazione generale, si trovano in una condizione di maggiore vulnerabilità. E le condizioni di vulnerabilità sono numerosissime , a volte intuibili a volte occulte.
Con la autorizzazione all’uso della pistola taser si è voluto fare una sperimentazione sull’uomo?
Nessuno potrà asserire che al momento delle “autorizzazioni” gli effetti collaterali sulle persone non fossero prevedibili. Riproponendoci dunque la narrazione che ha riguardato l’amianto e tutti gli altri fattori di rischio introdotti nei cicli lavorativi e nell’ambiente ad onta della già riconosciuta (da decenni o da secoli) nocività.
Non abbiamo a che fare con un uso off label di farmaci (tanto caro alle multinazionali) che si può concludere constatando sprechi, inefficacia ed effetti collaterali evitabili ma non mortali (soprattutto se l’utilizzo off label dura poco); qui abbiamo a che fare – come abbiamo visto a Genova, e non era la prima volta – con effetti immediatamente mortali.
I fatti dimostrano quanto era già assolutamente e facilmente prevedibile;
per quel che attiene alle responsabilità: queste non riguardano o non riguardano solo chi viene lasciato col “cerino in mano acceso” ma riguardano chi ha autorizzato la fornitura/dotazione dello strumento.
Un “uso sicuro” della pistola taser non esiste, l’uso della taser va assolutamente
accantonato a favore di metodi di intervento a basso o nullo impatto sanitario e psicosociale.
(*) Vito Totire è medico, portavoce del «centro Francesco Lorusso» di Bologna
In “bottega” abbiamo lanciato un appello Contro la pistola Taser nasce un comitato che avrà probabilmente bisogno di altro tempo e discussione per diventare una realtà estesa sui territori. Invitiamo tutte e tutti a darci adesioni ma anche consigli su come lavorare assieme per far crescere questo movimento.
qui il link originale: https://www.labottegadelbarbieri.org/taser-un-assassino-fra-noi/
lunedì 24 novembre 2025
LA VOCE DEL PADRONE
"Assolti" i dirigenti al processo sui maltrattamenti alla Stella Maris
Il processo di primo grado per i maltrattamenti nei confronti degli ospiti della struttura per persone con disabilità di Montalto di Fauglia, gestita dalla fondazione Stella Maris in provincia di Pisa, si è concluso, dopo 7 anni di dibattimento, il 4 novembre scorso con 10 condanne agli operatori e alle operatrici e 5 assoluzioni. Due operatori sono stati assolti. Assolti anche il direttore sanitario e le due dottoresse responsabili della struttura.
Hanno vinto i potenti.
Il dispositivo applica quasi appieno la tesi che la Stella Maris aveva caldeggiato sin dall'inizio. La giudice Messina ha condannato penalmente solo gli esecutori materiali delle violenze, ed evidentemente non poteva farne a meno: le immagini degli abusi e dei maltrattamenti erano e restano inequivocabili. L'assoluzione dei dirigenti medici, figure apicali, vorrebbe rappresentare un segnale chiaro: i piani alti non si toccano.
Ma, d'altro lato, alla Stella Maris è stata riconosciuta una responsabilità civile da quantificare in un futuro processo civile, qualora lo decideranno le famiglie.
E, si badi bene, non è poco.
Innanzitutto perché per molti mesi si è rischiato che tutto rimanesse impantanato sino all'arrivo della prescrizione, tanto era stata lenta e rallentata all'inizio la successione delle udienze. Poi perché, almeno in primo grado, una qualche forma di responsabilità, anche se solo civile, è stata comunque riconosciuta alla Stella Maris. Alla Fondazione spetta cioè il pagamento delle spese processuali, anche di quelle spettanti agli operatori condannati qualora non fossero in grado di sopperire autonomamente. Una parte di coinvolgimento anche per l'istituzione Stella Maris risulta dunque stabilita dai meccanismi della sentenza. Il "noi non c'entriamo nulla" che trapela dal conciliante comunicato del presidente della Fondazione (che si conclude con uno goffo appello al «Bene» con la "B" maiuscola) andrebbe perlomeno riconsiderato in questa prospettiva. Rimane lì a testimoniare solamente un malcelato imbarazzo nei confronti di una vicenda che ha gettato non poco discredito sulla sbandierata "eccellenza" dell'"Istituto di Ricovero e Cura a Carattere Scientifico".
Rimane il fatto che la sentenza non soddisfa la richiesta di giustizia che le famiglie si sarebbero aspettate dopo anni di attesa. La tesi del pubblico ministero, che assegnava alle dottoresse la responsabilità maggiore per le violenze perpetrate all'interno della struttura, è stata di fatto ribaltata.
Colpevole non è chi aveva assunto personale non qualificato, chi aveva la gestione della struttura, chi doveva vigilare. Colpevole è, ancora una volta, solo la manovalanza, chi si è sporcato le mani in prima linea. Rimangono impuniti i responsabili delle assunzioni. È andato assolto chi doveva occuparsi della formazione del personale. È stata considerata non colpevole penalmente tutta la filiera della gestione e dell'organizzazione che avrebbe dovuto occuparsi della presa in carico e della cura dei ragazzi con disabilità, su su fino alle rappresentanze più alte.
Il primo a uscire di scena è stato il direttore generale Roberto Cutajar: dapprima condannato a due anni e otto mesi, poi assolto in appello con la motivazione che "le responsabilità della gestione e delle assunzioni andavano ricercate altrove", con il cavillo che lui era il responsabile dell'intera Stella Maris e non solo del presidio di Montalto. Le responsabili effettive della sede Stella Maris di Montalto sono state in seguito individuate nelle due dottoresse. Ma anch'esse alla fine sono risultate non condannabili. Siamo curiosi di conoscere quali argomentazioni saranno addotte nella motivazione della sentenza.
Perché rimane al momento inevasa una domanda cruciale: ma allora chi gestiva Montalto? Chi ne presiedeva l’organizzazione, la gestione, il controllo?
Un sottile velo di omertà ha coperto sin dall'inizio le vicende di un processo di per sé clamoroso e che avrebbe dovuto avere una ribalta nazionale. Si è trattato del più grande processo per maltrattamenti a persone con disabilità nella storia d'Italia. Eppure le telecamere sono state tagliate fuori sin dalla prima udienza. Con la motivazione che, secondo la giudice, non sussisteva alcuna rilevanza sociale per un evento di questa portata: 24 famiglie, 17 imputati, 284 episodi di violenza registrati dalle impietose microcamere (posizionate esclusivamente negli spazi comuni) in tre mesi. E per finire, la stessa giudice ha pensato bene di emettere la sentenza a porte chiuse. Erano presenti solamente alcune famiglie. Come se per i 7 lunghi anni della durata del processo l'aula fosse stata assediata da orde di parenti scomposti e irrispettosi. Eppure, mai un urlo di sdegno, mai un commento sopra le righe si è levato nell'aula.
Non davanti alle immagini delle sevizie sui propri cari, quando qualche genitore ha preferito uscire dall'aula piuttosto che inveire.
Non di fronte alle testimonianze di chi con arroganza parlava di "buffetti di simpatia", "linguaggio colorito", "strumenti inadeguati di relazione" da parte degli operatori.
Neanche di fronte a un consulente di parte che si permetteva impunemente di affermare che "quelle persone non sono neanche in grado di provare dolore".
E neppure quando, come se fosse una cosa normale, è venuta a galla l'aberrazione dei "tappeti contenitivi", comprati all'Ikea, spacciati come "un presidio di civiltà" per "evitare i lividi sui pazienti" prodotti dai consueti strumenti di contenzione fisica. Strumenti di contenzione che intanto continuavano a essere utilizzati, producendo fratture e traumi vari.
Di fronte a questa galleria degli orrori il pubblico e i parenti hanno mantenuto sempre un atteggiamento fin troppo rispettoso. Solo lacrime e dolore soffocato, nel rispetto di chi avrebbe dovuto assicurare loro una parvenza di giustizia.
Solo al termine della requisitoria del PM Pelosi, nella quale erano state individuate motivazioni e responsabilità di tanta violenza, a partire dalle figure apicali, si è levato dai banchi in fondo (luogo di costante presenza delle parti civili) un applauso lungo e liberatorio.
Eppure la Stella Maris sapeva. Risultano agli atti violenze compiute in quella struttura sin dal 2002. E nel 2009 un altro operatore aveva mandato al pronto soccorso un ospite per una ecchimosi e una frattura a un dito. E ancora nel 2014, quando lo stesso operatore avrebbe schiaffeggiato e schiacciato con le ginocchia un adolescente. Davanti a questa denuncia il direttore Cutajar sospenderà il responsabile, ma senza licenziarlo. Dalle intercettazioni telefoniche nei colloqui le dottoresse responsabili della struttura lamentavano di aver denunciato più volte i dipendenti violenti. «Questi quattro stronzi dovevano essere mandati via illo tempore perché noi abbiamo fatto tutte le segnalazioni all'istituzione, la quale si è ben guardata dal procedere...».
Ancora più inquietanti i messaggi dei genitori alla giornalista Maria Elena Scandaliato della Rai che provava a intervistarli: «Io ho paura. Me lo dico da sola che è una cosa sbagliata, ma io c'ho mio figlio lì dentro...». D'altronde il tono degli scambi telefonici tra i dirigenti della Stella Maris, intercettati, era questo: «I genitori sono ambigui, però io voglio dimettere tre persone, per dare un segnale ai genitori eh... Perché loro devono stare attenti!».[1]
E tutto questo accadeva mentre la struttura di Montalto di Fauglia propagandava sé stessa con queste parole tratte dalla sua "Carta dei servizi":
«La nostra filosofia di intervento è 'prenderci cura' oltre che curare, ascoltare e coinvolgere sia il paziente che i familiari. […] La nostra organizzazione è centrata sul modello del piccolo gruppo di pazienti condotto da educatori professionali e da assistenti con funzioni educative, che fungono da 'io' ausiliario o 'compagni adulti' dei pazienti, che li supportano concretamente e psicologicamente in ogni atto della vita quotidiana. I diversi programmi di trattamento sono differenziati sia sulla base dei protocolli che sulla base delle caratteristiche individuali di ogni ragazzo che è visto come portatore di affetti, bisogni emotivi, aspirazioni, competenze».
Hanno vinto i potenti.
Medici e sanitari dei reparti psichiatrici (e non solo) hanno avuto l'ennesima conferma di quella sorta di scudo penale che da sempre li protegge nell'esercizio delle loro funzioni. Troppe volte come Collettivo Artaud abbiamo assistito alla cerimonia inconcludente della giustizia dei tribunali. Questa sentenza assolutoria è solo l'ennesima di una lunga serie, con la conseguenza che all'aumento della presunzione di intoccabilità dei sanitari corrisponde un incremento del ricorso agli strumenti più controversi della pratica psichiatrica, di derivazione manicomiale: elettroshock, contenzioni, TSO.
La Fondazione (privata) Stella Maris continuerà a ricevere contribuzioni di milioni di euro da parte della Regione Toscana, che da parte sua si era guardata bene dal costituirsi parte civile al processo. E, al contrario, si era premurata di premiare l'eccellenza Stella Maris con il Gonfalone d'argento, massima onorificenza toscana, proprio nel 2021, quando il processo era nelle sue fasi più calde.
D'altronde non si può condannare chi sta spostando ulteriori decine e decine di milioni di euro. 27.830 mq su quattro livelli, 44 camere per la degenza, altrettanti ambulatori, 50 sale per l'osservazione terapeutica, 24.000 mq di parco. Sono le cifre del nuovo ultramoderno ospedale Stella Maris che sorgerà a Pisa, zona Cisanello. L'inizio dei lavori è stato inaugurato poco tempo fa in pompa magna da sindaco, vescovo e autorità varie, compreso il presidente della Regione. Quelle autorità che non hanno rivolto nemmeno una parola alla famiglie, di fronte allo scempio del dolore e delle immagini dei maltrattamenti e di un processo che è andato avanti per anni.
Non si può sospettare di chi agisce per conto del "Bene". «Nei nove anni che sono trascorsi dai fatti di Montalto di Fauglia», afferma ancora il comunicato di Stella Maris emesso dopo la sentenza di primo grado, «abbiamo impegnato tutte le nostre energie per migliorare sempre più le nostre attività riabilitative. Il nostro compito è sempre quello di dare il meglio con professionalità e soprattutto con il cuore, imparando dagli errori». A Marina di Pisa, la struttura che sostituisce Montalto di Fauglia da quando è stata chiusa, il personale è cambiato. Ma a Marina non può entrare nessun visitatore, neanche i genitori o i parenti dei ragazzi. Gli ospiti vengono accompagnati all'esterno dal personale quando i familiari vanno a prenderli.
Nel frattempo, all'interno di altre strutture chiuse, dove nessuno entra, dove non è previsto alcun tipo di controllo sociale, storie simili a quelle successe alla Stella Maris continuano a ripetersi, riproponendo intatti i dispositivi delle istituzioni totali. Imperia (Villa Galeazza), Manfredonia (Stella Maris), Foggia (Opera Don Uva), Como (Comunità Sacro Cuore), Cuneo (Cooperativa Per Mano), Ivrea (Ospedale di Settimo Torinese), Siracusa (strutture per disabili e anziani), Bologna (Villa Donnini), Perugia (Centro Forabosco), Decimomannu (Centro AIAS), Brescia (Comunità Shalom), tanto per citare solamente le più recenti. Botte, violenze, contenzioni meccaniche, maltrattamenti, insulti, umiliazioni.
Giustizia non è fatta.
Le pratiche manicomiali sopravvivono intatte e, malgrado le promesse della legge 180, continuano a seminare dolore. E le strutture che le utilizzano continuano a presentarsi all'esterno come paradisi di accoglienza e cura.
Troppe volte come collettivo Artaud ci siamo trovati a interagire con persone abusate dalla psichiatria. Troppe volte la giustizia dei tribunali si è girata dall'altra parte di fronte agli abusi perpetrati da un modello di psichiatria obsoleto e fallimentare.
Il potere giudiziario si è rivelato per l'ennesima volta connivente con il potere psichiatrico.
E noi continuiamo a pensarla come Fabrizio De André.
«Per quanto voi vi crediate assolti
siete per sempre coinvolti»
Collettivo Antipsichiatrico Antonin Artaud
Collettivo Antipsichiatrico Antonin Artaud
via San Lorenzo 38, 56100 Pisa
3357002669 antipsichiatriapisa@inventati.org
artaudpisa.noblogs.org
martedì 11 novembre 2025
Forlì - Domenica 16 Novembre incontro con Artaud e Camap
domenica 26 ottobre 2025
DEFINISCI MALTRATTAMENTO
Riceviamo e pubblichiamo da Artaud:
“Definisci bambino”: abbiamo ancora nelle orecchie la sciagurata domanda pronunciata dal Presidente dell’associazione Amici di Israele, rivolta durante un dibattito televisivo all’ allibito interlocutore, per giustificare la strage di minori nella Striscia di Gaza.
Queste parole, che producono sdegno e disgusto, possono essere paragonate a quelle pronunciate dall’avvocato Stefano Del Corso, difensore della dottoressa Masoni, durante l’ultima udienza del processo Stella Maris. L’avvocato ha domandato alla giudice e agli astanti di definire la parola “maltrattamenti” in riferimento a quanto accaduto tra le mura della struttura di Montalto di Fauglia. E non era la prima volta! Altri avvocati nel corso del processo avevano provato a sminuire e a derubricare gli efferati atti che sono stati ripresi dalle telecamere dei carabinieri nell’estate del 2016 nel refettorio della struttura. Secondo i legali degli imputati quei 284 episodi di botte, vessazioni, umiliazioni, documentati dalle videocamere in quasi quattro mesi di riprese, non erano maltrattamenti ma un semplice eccesso di mezzi di correzione.
Eppure alcuni genitori quando sono stati chiamati dai carabinieri a vedere per la prima volta le immagini dei propri figli malmenati, strattonati e offesi verbalmente, si sono sentiti male; quando i video sono stati presentati al processo molti astanti sono usciti dall'aula; quando i giornalisti e i tecnici, che hanno prodotto il reportage della Rai sui fatti della Stella Maris, hanno visto quelle immagini le hanno definite “violenze inaudite su soggetti indifesi e quindi meritevoli di una cura ancora maggiore”.
A tutti era parso evidente cosa vuol dire “maltrattamento”, non appariva così complicato definire il termine. Erano bastate le immagini nella loro cruda evidenza, nella loro oggettiva presentazione a spiegare che cosa è un maltrattamento.
Ma per capire il senso di certe affermazioni che sembrano offendere il buon senso, oltreché umiliare ancora una volta i ragazzi e i loro familiari, bisogna riferirsi al codice penale e a quello che esso prescrive. È lì che si gioca la vera partita giudiziaria, è lì che il termine assume una valenza valoriale. Il maltrattamento secondo il codice penale deve prevedere la presenza di atti abituali o sistematici che cagionano sofferenze fisiche o morali: percosse, violenze fisiche o sevizie; minacce o ingiurie gravi; “Comportamenti ripetuti che arrecano danno morale o psicologico”. Queste condotte devono avere come effetto la sofferenza fisica o morale per la vittima anche senza la presenza di lesioni gravi.
Il reato di maltrattamento ha dunque bisogno, per essere definito tale, della “abitualità”, deve cioè essere ripetuto nel tempo, non configurarsi come un episodio isolato.
Da ciò si capisce perché gli avvocati delle difese abbiano teso a parlare di singoli episodi non sistematici, a fare riferimento a condotte isolate, cercando di dimostrare che i maltrattamenti erano solo buffetti, al limite “eccesso di mezzi di correzione” o “ingiurie”: reati che se venissero accolti come plausibili dalla giudice Messina sarebbero già prescritti da tempo. E tale accoglimento avrebbe dunque l’effetto di ridurre in una bolla di sapone un processo andato avanti per anni con decine di persone implicate tra imputati, parti civili, avvocati, consulenti.
Ma la realtà è un’altra: come aveva scritto il Giudice dell’Udienza Preliminare Giulio Cesare Cipolletta nella sentenza-ordinanza del 2019, dopo soli quattro giorni di riprese i video già documentavano “atti di violenza fisica come schiaffi e strattoni oppure minacce ed ingiurie, poste in essere in maniera del tutto gratuita e senza riferimento a pregresse condizioni dei pazienti”. Col passare del tempo quegli atti reiteratamente compiuti, nell'indifferenza degli operatori che osservavano inerti la scena (a testimonianza di un'abitualità fatta di violenze accettate e condivise,) hanno dimostrato, secondo la requisitoria finale del Pubblico Ministero Pelosi, la presenza di un sistema fortemente radicato.
Nella sua arringa finale il PM ha posto l’accento sulla abitualità delle condotte maltrattanti, sull’atteggiamento indecoroso e poco professionale degli operatori Stella Maris, sul clima di paura che dominava la struttura, sull’omertà che regnava in quelle stanze. Tutto ciò ha reso possibile il fatto che la Stella Maris abbia potuto assumere l’aspetto di una struttura concentrazionaria (cosa peraltro ben esplicitata anche dalla relazione del Perito del tribunale Alfredo Verde) dove la brutalità aveva preso il sopravvento, dove le condotte violente erano sistematiche e non episodiche, reiterate anche di fronte a un pubblico inerte. Cosa è accaduto, ci chiediamo, al di là del refettorio, l'unico luogo dove erano state posizionate le telecamere? Cosa poteva succedere nei bagni, nelle camere, nei corridoi? Non è difficile immaginarlo. Il Pubblico Ministero aveva ben definito come maltrattamenti quelle “condotte plurime rivolte a soggetti indifesi e appartenenti alla stessa comunità”, e in base a tale convinzione aveva chiesto le relative pene fino a un massimo di cinque anni di reclusione.
"Il più grande processo per maltrattamenti ai disabili in Italia" (come era stato definito dal documentario che la Rai ha messo in onda due anni fa) che sta lentamente volgendo alla conclusione, è anche quello che ha portato alla luce la pratica disumanizzante, degradante, brutale dell'"arrotolamento" degli ospiti ritenuti recalcitranti, oppositori, ingestibili, all'interno di tappeti comperati per l'occasione all'Ikea. E della difesa pubblica di questa pratica da parte di avvocati, testimoni e imputati, che l'hanno rivendicata addirittura come "strumento dolce", come una normale routine da adottare per il bene dei "pazienti". Anche nel corso dell'ultima udienza c'è stato chi ha avuto la spudoratezza di definire il tappeto contenitivo un "presidio di civiltà". Come Collettivo abbiamo denunciato e ribadito in tutte le sedi che non ci sono ragioni che possano giustificare una violenza del genere. Che non si possono arrotolare esseri umani in un tappeto. Che le pratiche manicomiali non dovrebbero mai trovare spazio. Che le persone non si legano, mai.
La negazione e il ridimensionamento dei maltrattamenti (come purtroppo è accaduto anche nell’ultima udienza) e della loro reiterazione e continuità di fatto, così come il tentativo di ridurre tutto a singoli episodi, decontestualizzandoli e depotenziandoli, rappresentano l'ennesimo schiaffo intollerabile alle sacrosante aspettative di giustizia delle vittime e delle loro famiglie.
Martedì 4 novembre 2025, molto probabilmente il giudice dovrebbe emettere sentenza di primo grado. Invitiamo tutte/i a partecipare al PRESIDIO in SOLIDARIETÀ alle VITTIME dei MALTRATTAMENTI MARTEDÌ 4 novembre ore 10.30 c/o il Tribunale di Pisa in Piazza della Repubblica.
Collettivo Antipsichiatrico Antonin Artaud
Collettivo Antipsichiatrico Antonin Artaud
via San Lorenzo 38, 56100 Pisa
antipsichiatriapisa@inventati.org
www.artaudpisa.noblogs.org 3357002669
lunedì 28 luglio 2025
47 anni di TSO illegittimi: la Corte Costituzionale svela le omissioni che hanno negato i diritti fondamentali
Riceviamo da Artaud e pubblichiamo:
La Corte costituzionale, con la sentenza n. 76 del 2025, ha dichiarato
l’illegittimità costituzionale parziale dell’articolo 35 (Trattamento
Sanitario Obbligatorio) della legge 833/1978, che istituisce il servizio
sanitario nazionale (ex articolo 3 delle legge 180/78 cosiddetta “legge
Basaglia ”).
La sentenza ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 35 in
relazione alla mancata previsione di tre garanzie fondamentali: il
diritto all'informazione e comunicazione del provvedimento alla persona
interessata o al suo legale rappresentante (avvocato, amministratore di
sostegno, tutore o curatore); il diritto della persona a essere sentita
prima della convalida; la notifica del provvedimento di TSO alla persona
interessata o al suo legale rappresentante.
Il giudizio di legittimità costituzionale era stato sollevato dalla
Corte di Cassazione nel settembre 2024 nel corso di una controversia
promossa da una donna sottoposta a TSO a Caltanissetta. La donna,
tramite il suo avvocato, aveva presentato opposizione lamentando di non
aver ricevuto alcuna notifica, di non essere stata ascoltata dal giudice
e di non avere avuto strumenti effettivi per difendersi. La Cassazione,
valutando il ricorso, aveva posto in evidenza una serie di gravi lacune
nel procedimento, affermando che «la mancata audizione della persona da
parte del giudice tutelare prima della convalida rende il controllo
giudiziale meramente formale». I giudici della Corte costituzionale, in
seguito al ricorso presentato dalla donna in Cassazione, hanno rilevato
come l'articolo 35 della legge 833 non garantisca adeguate tutele,
evidenziando che «il sindaco e il giudice tutelare comunicherebbero tra
loro, ma nessuno dei due comunicherebbe con il paziente».
Cosa succederà da adesso in poi?
In teoria la sentenza della Corte Costituzionale dovrebbe avere effetto
immediato su tutti i procedimenti in corso e su quelli futuri. I
sindaci, in qualità di autorità sanitarie locali, dovranno garantire
quindi, ai sensi del pronunciamento, che il provvedimento sia notificato
alla persona o al suo legale rappresentante. I giudici tutelari saranno
obbligati quindi ad ascoltare l’interessato prima di convalidare il
trattamento. La mancata osservanza di tali garanzie potrà determinare
l’illegittimità del TSO. Di prassi, il legislatore dovrebbe inoltre
intervenire per adeguare il testo normativo al nuovo orientamento
costituzionale.
Abbiamo ritenuto opportuno approfondire i meccanismi interni della Sentenza.
Secondo la Corte costituzionale l’assenza della tempestiva informazione
sulle modalità di opposizione, costituisce «un ostacolo rilevante
all’esercizio del diritto a un ricorso effettivo alla difesa e, in
ultima istanza, a un giusto processo», anche se la 833 prevede la
possibilità di chiedere la revoca del provvedimento di TSO e di proporre
successiva opposizione di fatto. La Corte Costituzionale ha sostenuto
quindi che la non comunicazione, la mancata audizione del giudice
tutelare e la mancata convalida del provvedimento del TSO rappresentino
«una violazione del diritto al contraddittorio, e alla difesa, dunque un
deficit costituzionalmente rilevante». Ha fatto appello in particolare
ad articoli fondamentali della Costituzione: il 13, sulla libertà
personale, il 24, sul diritto di difesa in giudizio, e il 111, sul
giusto processo.
La Consulta ha stabilito che la persona sottoposta a Tso deve essere
messa a conoscenza del provvedimento restrittivo della libertà personale
e deve partecipare al procedimento di convalida, in quanto titolare del
diritto costituzionale di agire e di difendersi in giudizio, anche nel
caso in cui si trovi in stato di «incapacità naturale».
Nella sentenza è scritto inoltre che l’audizione della persona
sottoposta a TSO da parte del giudice tutelare debba avvenire prima
della convalida «presso il luogo in cui la persona si trova –
normalmente un reparto del servizio psichiatrico di diagnosi e cura”,
perché questo incontro tra paziente e giudice «è garanzia che il
trattamento venga eseguito nel rispetto del divieto di violenza fisica e
morale sulle persone sottoposte a restrizioni della libertà personale
(articolo 13, quarto comma, della Costituzione) e nei limiti imposti dal
rispetto della persona umana (articolo 32, secondo comma, della
Costituzione)». L’audizione per la convalida – che deve avvenire entro
quarantotto ore – rappresenta un primo contatto che consente al giudice
tutelare di conoscere le condizioni della persona, compresa «l’esistenza
di una rete di sostegno familiare e sociale».
La sentenza della Corte Costituzionale ha fatto anche riferimento al
rapporto del CPT (Comitato europeo per la Prevenzione della Tortura) che
nel 2023 ha segnalato che il TSO in Italia segue un «formato
standardizzato e ripetitivo» in cui il giudice tutelare «non incontra
mai i pazienti che che rimangono disinformati sul loro status legale».
La Corte non si è limitata solamente alla questione TSO, mettendo
giustamente in discussione l'analogo dispositivo amministrativo
restrittivo della libertà personale che riguarda i migranti senza
documenti: «l’accompagnamento coattivo alla frontiera e il trattenimento
dello straniero nei centri di permanenza per il rimpatrio devono essere
assistiti dal diritto di essere ascoltati dal giudice in sede di
convalida, sicché sarebbe irragionevole e lesiva del principio di
eguaglianza l’omessa previsione di analogo adempimento nel trattamento
sanitario coattivo».
Il primo dato di fatto: è stata applicata una procedura carente di garanzie costituzionali per quarantasette anni.
Se il TSO è stato costituzionalmente illegittimo fino ad ora chi ci garantisce che le cose cambieranno?
Con che modalità queste persone saranno ascoltate? Tuteleranno la
libertà e il diritto di difesa della persona che la sentenza della Corte
Costituzionale, in maniera precisa, definisce? Malgrado la sentenza
abbia riportato a chiare lettere che l'audizione debba avvenire nello
stesso luogo in cui la persona si trova, il tribunale di Milano ha già
chiesto l'attivazione di un numero per fare le audizioni in
videochiamata. Il rischio è dunque che questa nuova procedura venga
risolta aggirando i dispositivi più tutelanti, in barba alla stessa
sentenza. Quale tutela, quale salvaguardia di diritti potrebbe
assicurare una videochiamata, magari in presenza di personale sanitario,
con un paziente già sedato? In queste condizioni immaginiamo i giudici
tutelari convalidare i TSO come un atto meramente burocratico:
tutt'altro che come garanzia di controllo sul divieto di violenza fisica
e morale indicato nella sentenza.
Se -in teoria- la legge prevede il ricovero coatto solo in casi limitati
e nel rispetto rigoroso di alcune condizioni, la realtà testimoniata da
chi la psichiatria la subisce è ben diversa. Sappiamo bene, come
Collettivo Artaud, in venti anni di esperienze accumulate con le nostre
lotte contro le pratiche manicomiali, che il preciso protocollo della
procedura di imposizione di TSO molto spesso non è applicato, e che il
TSO non è affatto un provvedimento usato come extrema ratio. Troppo
spesso le procedure giuridiche e mediche durante il TSO vengono
aggirate: nella maggior parte dei casi i ricoveri coatti sono eseguiti
senza rispettare le norme che li regolano e seguono il loro corso
semplicemente per il fatto che quasi nessuno è a conoscenza delle
normative e dei diritti della persona.
L'inganno del sistema psichiatrico sta nel credere che un TSO duri in
fondo solo sette giorni, o quattordici nel caso peggiore. La verità è
che il TSO implica una coatta presa in carico della persona da parte dei
Servizi di salute mentale del territorio che può durare per decenni.
Una volta entrato in questo meccanismo infernale, una volta bollato con
lo stigma della "malattia mentale", il paziente vi rimane invischiato a
vita, costretto a continue visite psichiatriche e soprattutto, alla
somministrazione obbligatoria di psicofarmaci, pena un nuovo ricovero
coatto. Per i ricoverati in TSO si ricorre ancora spesso all’isolamento e
alla contenzione fisica, mentre i cocktails di farmaci somministrati
mirano ad annullare la coscienza di sé della persona, a renderla docile
ai ritmi e alle regole ospedaliere. Il grado di spersonalizzazione ed
alienazione che si può raggiungere durante una settimana di TSO ha pochi
eguali, anche per il bombardamento chimico a cui si è sottoposti.
Ecco come l’obbligo di cura oggi non significhi più necessariamente e
solamente la reclusione in una struttura, ma si trasformi
nell’impossibilità di modificare o sospendere il trattamento
psichiatrico sotto costante minaccia di ricorso al ricovero coatto
sfruttato come strumento di ricatto, punizione e repressione.
Ma in realtà come Collettivo riteniamo che ci sia una seconda, ulteriore, considerazione di cui tenere conto.
La Sentenza n. 76 del 2025, pur non menzionando esplicitamente la
contenzione meccanica offre, a nostro avviso, un forte potenziale
interpretativo critico. Il nucleo della pronuncia è il rafforzamento del
controllo giurisdizionale sul TSO, tramite l'audizione preventiva e in
loco della persona da parte del giudice tutelare. La Corte esplicita, ed
è questo l’elemento che vorremmo sottolineare, che tale audizione è
«garanzia che il trattamento venga eseguito nel rispetto del divieto di
violenza fisica e morale sulle persone sottoposte a restrizioni della
libertà personale» (Art. 13, comma 4 Cost.) e «nei limiti imposti dal
rispetto della persona umana» (Art. 32, comma 2 Cost.). Inoltre, la
sentenza parla di «audizione» , quindi di ascolto.
Deducendo da ciò: La contenzione meccanica, essendo una limitazione
fisica diretta e potenzialmente lesiva della dignità, rientra a pieno
titolo nelle «violazioni fisiche e morali» e nel mancato «rispetto della
persona umana». Difficilmente si può pensare che, ascoltando la persona
in stato di malessere si possa poi procedere a legarne gli arti o a
limitarne la mobilità in modo pesantemente coercitivo.
La sentenza, esigendo un controllo giudiziale non più formale ma
sostanziale sulla concreta esecuzione del trattamento, rende ogni
ricorso alla contenzione immediatamente sindacabile e, riteniamo,
censurabile sotto il profilo di questi inderogabili principi
costituzionali. La sua applicazione, pertanto, è ora direttamente e
immediatamente riconducibile a una possibile violazione dei diritti
fondamentali della persona, richiedendo una strettissima aderenza ai
criteri di necessità ed eccezionalità per sfuggire alla qualificazione
di violenza costituzionalmente illegittima.
sabato 10 maggio 2025
Firenze - 16 Maggio - Cpa Firenze Sud
FIRENZE VENERDì 16 MAGGIO c/o CPA FI-SUD via di Villamagna 22 Ore 18:30
il Collettivo Antipsichiatrico Antonin Artaud
presenta l’opuscolo:
“IL RUOLO DELLA PSICHIATRIA NELL’OCCUPAZIONE DELLA PALESTINA” –
Campaign for Psych Abolition– autoproduzione Luglio 2024
Leggere criticamente la psichiatria come pilastro del sionismo,
smantellare la visione strutturale occidentale
della salute mentale e de-patologizzare la Resistenza.
Per info:
antipsichiatriapisa@inventati.org