A cura del COLLETTIVO ANTIPSICHIATRICO ANTONIN ARTAUD appendice al libro di Wiliam Frediani “ Seduti e zitti! Invettiva sull’istituzione scolastica.”edizioni Sensibili alle foglie gennaio 2020
C’è qualcosa che deve essere ancora scoperto che possa identificare che cosa è l’ADHD e cosa non lo è. (Keith Conners)[1]
Il campo nel quale, negli ultimi anni, si
è registrato il maggiore aumento di diagnosi psichiatriche e
prescrizioni di psicofarmaci è senz’altro quello dell’infanzia e
dell’adolescenza. Oggi a scuola sono sempre di più i bambini che hanno
diagnosi psichiatriche, in particolare disturbo dell’adattamento,
dell’attenzione, iperattività̀, depressione, disturbo bipolare.
L’introduzione di nuove patologie infantili, nell’ultimo Manuale
Diagnostico e Statistico (DSM) del 2013, allarga i confini diagnostici
tra ciò che è normale e ciò che non lo è, favorendo l’entrata in
psichiatria di un numero sempre più alto di bambini, a cui sono
prescritti psicofarmaci per periodi più o meno lunghi della loro vita.
Il DSM è oggetto di profonde critiche di
metodo e di merito, accusato di aver ampliato a dismisura lo spettro
delle patologie psichiatriche. Si tratta di un aumento percentuale,
senza precedenti in Italia, e che pone più di un dubbio sull’attuale
boom terapeutico a cui sono sottoposte le giovani generazioni nel nostro
Paese. Tutti i dati statistici confermano una sensazione diffusa tra
chi passa la propria vita, professionale e non, nelle aule della scuola
italiana: siamo di fronte a un aumento esponenziale di diagnosi e
certificazioni di disabilità, di patologie psichiatriche, disturbi e
difficoltà.
L’esplosione delle diagnosi (passate da
1,4% del 1997/98 a 3,1% del 2017/18), mostra come in venti anni esse
siano più che raddoppiate: da 123.862 a 268.246. Salta agli occhi il
fatto che attualmente la tipologia più diffusa è quella delle
disabilità intellettive che da sole rappresentano il 68,4% del
totale.[2]
L’attuale tendenza dell’insegnamento e
della pedagogia è quella di farsi coadiuvare dalla neuropsichiatria
ogni qualvolta un bambino disturba o contrasta i programmi formativi. Il
“disagio” comportamentale, invece di essere valutato come un campanello
d’allarme nella relazione con l’adulto, viene incasellato come un
problema mentale del bambino, dispensando così l’educatore o
l’insegnante dal modificare l’approccio educativo e delegando il
problema a un neuropsichiatra. “L’educatore così – deresponsabilizzato e
dispensato dal dover modificare il proprio approccio educativo –
delegherà̀ a un esperto il problema (reale o apparente che sia), il
quale lo affronterà̀ dal punto di vista della salute mentale. La
pedagogia di stampo più repressivo si rinnova nel tentativo di contenere
chimicamente quelle condotte non riconducibili alla norma; così si
elimina la soggettività̀, si disciplina quella potenziale libertà
presente nell’infanzia che, attraverso desideri e aspirazioni,
porterebbe a una personale interpretazione dell’esistenza”.[3]
Vince così il paradigma biologico
secondo cui questi bambini hanno qualcosa che non va nel loro cervello e
per questo dovranno assumere psicofarmaci. Molti psichiatri trovano più
semplice dire ai genitori e agli insegnanti che il bambino ha un
disturbo mentale anziché́ suggerire dei cambiamenti rispetto alla
genitorialità̀ o all’educazione. Il comportamento considerato deviante e
non conforme ai canoni prestabiliti di normalità̀ viene isolato,
fotografato, trasformato in diagnosi, strappato al rapporto relazionale
insegnante-alunno e, sempre più spesso, curato con i farmaci. La
medicalizzazione della scuola è inquadrabile all’interno dell’esigenza
di ridurre a una risposta semplice e immediata l’interazione complessa
dei diversi fattori che determinano i comportamenti in età̀
evolutiva.[4]
A partire dal 2012 una serie di circolari
e direttive ministeriali ha imposto nelle scuole l’individuazione degli
alunni con BES (Bisogni Educativi Speciali). I BES sono un immenso
calderone che comprende, suddivisi in tre macro categorie,
“disabilità”, “disturbi”, “disagi e svantaggi”. Di solito l’acronimo
viene usato per indicare solamente i BES di terzo tipo, quelli del
“disagio” o dello “svantaggio”.[5] A otto anni dall’avvio della
farraginosa macchina dei BES, il MIUR (Ministero dell’Istruzione,
dell’Università̀ e della Ricerca) non ha ancora fornito cifre
attendibili sui cosiddetti BES di terzo tipo; ci sono comunque dati che
stimano intorno a un milione la cifra totale, fra cui sarebbero compresi
80.000 studenti con ADHD (Disturbo da Deficit dell’Attenzione e
Iperattività̀) e circa 400.000 con funzionamento intellettivo ridotto,
con un’incidenza pari al 5% sull’intera popolazione studentesca
italiana. In mancanza di statistiche più attendibili, sembrerebbe che
proprio le difficoltà momentanee, come la timidezza, l’ansia, i
dissesti economici, il lutto, i problemi di lingua conseguenti alle
migrazioni, e le circostanze avverse della vita siano i principali
protagonisti dei pervasivi meccanismi medicalizzanti e psichiatrizzanti
che stanno scuotendo dalle fondamenta la scuola italiana.[6] È
significativo il fatto che in Italia gli alunni stranieri siano 815.000,
il 9,2% dell’intera popolazione scolastica e di questi il 12% sia stato
certificato.[7]
È ufficiale il via libera al taser per le forze di polizia italiane. Il
Consiglio dei ministri, su proposta del presidente Giuseppe Conte e del
Ministro dell’interno Luciana Lamorgese, ha approvato infatti in esame
preliminare un regolamento, da adottarsi con decreto del Presidente
della Repubblica, che apporta modifiche al regolamento che stabilisce i
criteri per la determinazione dell’armamento in dotazione
all’amministrazione della pubblica sicurezza e al personale della
polizia di Stato che espleta funzioni di polizia (decreto del Presidente
della Repubblica 5 ottobre 1991, n. 359).
Le nuove disposizioni, si legge in una nota, “hanno l’obiettivo di
consentire un generale ammodernamento dell’armamento e del
munizionamento in dotazione alla Polizia di Stato, in modo da adeguarlo
alle attuali esigenze operative”.
Il regolamento prevede l’introduzione per il personale addestrato del
taser. Il suo impiego però, si legge nel provvedimento, “dovrà sempre
avvenire nel rispetto delle necessarie cautele per la salute e
l’incolumità pubblica e secondo principi di precauzione condivisi con il
Ministro della salute”. Contestualmente vengono anche modificate le
norme sulle caratteristiche dello sfollagente “con l’obiettivo di
renderlo più adatto allo svolgimento dei servizi di controllo del
territorio a cavallo o da parte del personale della Polizia ferroviaria.
Infine, si modificano le caratteristiche di alcune armi da fuoco”.
LE REAZIONI DEI SINDACATI – Reazioni contrastanti dai sindacati di
polizia. Fabio Conestà, segretario generale del sindacato di Polizia
Mosap, ha accolto “favorevolmente l’introduzione del taser come
strumento di dissuasione”. “I cittadini – ricorda Conestà – chiedono più
controlli e più presidi nelle zone maggiormente sensibili alla
criminalità e al degrado e i tempi sono cambiati. Oggi, troppo spesso,
le forze dell’ordine si ritrovano in situazioni dove la violenza cieca e
inusitata di certi personaggi che non hanno nulla da perdere, puo’
facilmente trasformare una semplice perquisizione o un normale controllo
in una situazione di serio rischio per l’incolumità degli agenti”.
Dal Coisp invece il segretario generale Domenico Pianese sottolinea “i
limiti troppo stringenti per l’uso del taser” che “rischiano di
trasformare questa novità in un boomerang per gli agenti delle Forze
dell’Ordine. Visto il Regolamento che disciplina l’impiego dell’arma,
allora meglio che non venga data”.
I DUBBI SUL TASER – Esistono però dei dubbi sull’utilizzo di questo
strumento. Amnesty International sostiene sin dal 2001 che il numero di
morti causate direttamente o indirettamente dal taser sia di circa un
migliaio. Perplessità anche da alcuni cardiologi: seppure l’intensità
della corrente ‘sparata’ dal taser non desti preoccupazioni per le
persone sane, vi sarebbero rischi per coloro che assumono cocaina. Non
solo. Una ricerca condotta nel 2011 dalla University of California di
San Francisco ha ricordato come molti degli studi pubblicati sugli
effetti del taser sulla salute ‘favorevoli’ alla sua introduzione
fossero stati dalla TASER International (oggi Axon). La University of
Cambridge ha invece rilevato che con l’introduzione del taser l’uso
della forza tra la polizia della City of London è aumentata del 48%, con
gli agenti che ne sono dotati maggiormente esposti alle aggressioni
rispetto a quelli disarmati.
da il riformista
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Il Consiglio dei ministri ha dato il via libera all’uso del Taser, la
pistola ad impulsi elettrici, da parte della polizia. Approvato in via
preliminare un decreto di due articoli che va a modificare il
Regolamento che per la determinazione degli armamenti delle forze
dell’ordine: dopo un passaggio al Consiglio di Stato per un parere, il
testo tornerà in Cdm per l’approvazione definitiva.
Nelle linee guida per l’utilizzo, predisposte dal Dipartimento della
Pubblica sicurezza, si afferma che la distanza consigliabile per un tiro
efficace è dai 3 ai 7 metri. La pistola elettrica spara due dardi, che
restano collegati all’arma da due fili conduttori. Era in
sperimentazione in 12 città e ora rischia seriamente di finire nelle
mani di tutti i poliziotti d’Italia.
Negli Stati Uniti la Reuters ha documentato 1.042 casi di persone
colpite a morte con un taser dalla polizia negli ultimi vent’anni. In
nove casi documentati su dieci la vittima era disarmata e e in gran
parte appartiene a gruppi di persone vulnerabili. Un quarto di queste
vittime soffriva di crisi psicotiche o disturbi neurologici.
da Radio Onda d’Urto
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Taser. Antigone: “preoccupati per il via libera del governo ad un’arma potenzialmente letale”
“Riteniamo un grave errore quello del governo che, nel Consiglio dei
Ministri tenutosi ieri, ha dato il via libera alla dotazione stabile per
tutti gli appartenenti alle forze dell’ordine della pistola elettrica
taser, un’arma pericolosa e potenzialmente mortale, come ci dimostra la
realtà dei paesi in cui è in uso”. A dirlo è Patrizio Gonnella,
presidente di Antigone.
La sperimentazione del taser era partita nel settembre del 2018 in
dodici città su iniziativa dell’allora ministro dell’Interno Salvini.
Secondo un’indagine della Reuters il taser ha provocato oltre mille
morti nei soli Stati Uniti. La stessa azienda americana che la produce –
la Taser International Incorporation, da cui deriva il nome dell’arma –
chiamata in causa sulla potenziale pericolosità, ha dichiarato che
esisterebbe un rischio di mortalità pari allo 0,25%. Ciò significa che
se il taser venisse usato su 400 persone una di queste potrebbe morire.
“Nonostante il rispetto delle necessarie cautele per la salute e
l’incolumità pubblica e il principio di precauzione a cui gli agenti
saranno richiamati, la pericolosità di quest’arma non viene meno,
soprattutto perché non è possibile sapere o stabilire se la persona cui
si sta per sparare soffra o meno di cardiopatia o epilessia, due delle
patologie per cui la pistola elettrica potrebbe risultare mortale”
aggiunge ancora Gonnella, ricordando come anche alcuni organismi
internazionali, tra cui la Corte Europea dei Diritti Dell’uomo ed il
Comitato ONU per la prevenzione della tortura si siano espressi
relativamente alle pericolosità di quest’arma e il rischio di abusi che
l’utilizzo può comportare.
Prima della pronuncia di ieri del Consiglio dei Ministri era stato lo
stesso ex Ministro Salvini – attraverso il primo decreto sicurezza – ad
allargare la platea dei possibili utilizzatori di quest’arma, dando ai
comuni con più di 100.000 abitanti la facoltà di dotarne gli agenti di
polizia locale. Proprio per rispondere a questa proposta Antigone aveva
lanciato una campagna rivolta agli amministratori locali a cui si
chiedeva, attraverso l’approvazione di un ordine del giorno, di non dare
seguito a questa possibilità. Un invito a cui hanno risposto i comuni
di Palermo, Torino, Milano e Bergamo.
“Quello che auspichiamo e chiediamo al governo – sottolinea il
presidente di Antigone – è che torni sui suoi passi, rinunciando a
dotare le forze dell’ordine di quest’arma che, nella pratica quotidiana
diventa un sostituto del manganello e non della classica pistola.
Inoltre, speriamo che questo non sia il preludio per dare seguito alla
proposta emersa nei mesi scorsi di dotare anche gli agenti di polizia
penitenziaria, impegnati nel lavoro nelle carceri, di questa pericolosa
arma. Se ciò accadesse – conclude Patrizio Gonnella – l’opposizione di
Antigone sarebbe ferma e decisa”.
Andrea Oleandri Ufficio Stampa Associazione Antigone
20:30
Dibattito sull’antipsichiatria con il collettivo Camap – Network che
riunisce singoli e associazioni che promuovono l’Auto Mutuo Aiuto come
Metodologia di approccio alle relazioni umane
22:30 Concerti
Entrata 5 fr.-
PISA SABATO 8 FEBBRAIO c/o Spazio Antagonista NEWROZ in via Garibaldi 72 alle ORE 21:30
Il Collettivo Antipsichiatrico Antonin Artaud e il Newroz presentano:
LA TERAPIA DEL FULMINE lettura concerto del WU MING CONTINGENT
<>
Alle ore 20 APERICENA
Per info: antipsichiatriapisa@inventati.org
Solitamente cerchiamo di evitare come la peste fonti tratte da media mainstream, in pochi casi e con le dovute cautele facciamo eccezioni. Nell'articolo qui sotto, segnalato dal Collettivo Artaud di Pisa, è uno dei casi eccezionali. Tanto per fare un esempio frasi nell'articolo quali ''Spesso – va detto - si tratta di cure indispensabili
per far fronte a disagi psichici altrimenti ingestibili'' ovviamente non rispecchiano il nostro pensiero. Ad ogni modo vista la portata dell'argomento non hanno potuto fare a meno neanche loro di parlarne in questi termini...Rendetevi conto.
Psicofarmaci dietro le sbarre: così si annullano gli esseri umani
Mancano gli psicologi, così nelle carceri
italiane il 50 per cento dei detenuti ne abusa. Con conseguenze spesso
tragiche: dall'alterazione mentale al suicidio
di Arianna Giunti
In carcere lo chiamano “il carrello della
felicità”. Passa fra le celle tutte le sere distribuendo compresse
colorate, gocce, flaconi e pillole. Farmaci che calmano l’ansia e
procurano benessere chimico.
Nelle prigioni italiane esiste un
problema sotterraneo: l’abuso di psicofarmaci. Dati ufficiali però non
esistono, perché la mancanza di cartelle cliniche informatizzate non
permette, nel nostro Paese, di avere un quadro completo di quello che
avviene nelle infermerie dei 206 istituti penitenziari.
Ma si tratta di un’emergenza concreta.
Come fanno emergere i sopralluoghi appena portati a termine dai
Radicali nelle carceri della penisola, soprattutto del Sud Italia. E
come confermano, puntuali, le associazioni a tutela dei carcerati
(Osservatorio Antigone, Ristretti Orizzonti e Detenuto Ignoto) dalle
quali arrivano dati poco rassicuranti: secondo le loro stime quasi il 50% delle persone dietro le sbarre – su un totale di 52.164 detenuti in
base agli ultimi dati disponibili del Ministero della Giustizia -
sarebbe sotto terapia da psicofarmaco. Mentre il 75% ricorrerebbe a
quella che viene definita “terapia serale”: sedativi per dormire.L’abuso
di psicofarmaci sarebbe l’effetto diretto di un’altra falla ormai
cronicizza all’interno delle nostre prigioni: la carenza di psicologi.
In poche parole, in assenza di specialisti che dovrebbero curare lo
stato mentale dei detenuti con la psicoterapia, si fa uso di potenti
medicinali. Con un risvolto non indifferente anche in termini di costi
per il Sistema Sanitario Nazionale. E con conseguenze spesso tragiche:
solo nelle ultime settimane si sono registrate due sospette overdose da
farmaci.
Spesso – va detto - si tratta di cure indispensabili
per far fronte a disagi psichici altrimenti ingestibili. Altre volte,
invece, è un abuso di terapia che annienta i prigionieri. Un
“contenimento di Stato”, come lo definiscono i sindacati di polizia
penitenziaria e gli operatori volontari. Che avrebbe come scopo quello
di evitare situazioni esplosive: solo con l’aiuto di massicce dosi di
farmaci a effetto calmante i detenuti riescono a sopportare i
trattamenti degradanti negli istituti di pena in stato di fatiscenza e i
lunghi periodi di carcerazione preventiva in attesa del processo. A
volte le pillole vengono assunte in maniera passiva, soprattutto dagli
stranieri, che non sanno neanche cosa stanno ingoiando. Più spesso
invece sono loro stessi a chiederle, per anestetizzare angoscia e
dolore.
Però gli effetti di questa sedazione di massa, come ha
accertato l’Espresso attraverso le testimonianze di medici, volontari,
guardie carcerarie, detenuti ed ex detenuti, possono essere disastrosi.
Gli strascichi si manifestano per anni, a volte per sempre, anche dopo
essere usciti dal carcere. Rendendo il ritorno in società ancora più
difficile. E poi creano più dipendenza dell’eroina. Così una volta
tornati liberi spesso l’astinenza viene colmata con l’uso di droghe
pesanti.
Fra gli ex detenuti c’è chi racconta di aver avuto
perdite di memoria - al punto di non ricordarsi più il nome del proprio
figlio – e chi una volta tornato in libertà ha accusato crisi di panico e
impotenza. Annullandosi come essere umano.
FELICITA’ CHIMICA
Nelle
infermerie dei penitenziari è facile trovare sedativi perfettamente
legali distribuiti su ricetta anche in farmacia. Ai prigionieri vengono
somministrati soprattutto nei primi giorni di carcere per far fronte a
quegli stati d’animo che, nel linguaggio medico della sanità
penitenziaria, vengono definiti “disturbi nevrotici e reazioni di
adattamento”. La disperazione è ancora più forte nei “nuovi giunti”,
detenuti in attesa di giudizio che sanno o che credono di essere
innocenti. E che non riescono a sopportare l’idea di subire
un’ingiustizia. “I nervi spesso cedono dopo la prima notte in cella”,
spiegano dall’associazione Ristretti Orizzonti, una delle più attive
nel denunciare l’abisso delle carceri. Poi ci sono gli antidepressivi, come il Prozac:
provocano un rapido effetto di torpore e benessere. Un’altra categoria
sono gli antipsicotici e gli stabilizzatori dell’umore, come il litio.
Quelli più diffusi, però, sono le benzodiazepine: farmaci utilizzati per
combattere l’insonnia, l’ansia e le convulsioni. Ma che creano
assuefazione dopo pochissimo tempo. Conferma a l’Espresso Matteo Papoff,
psichiatra per lungo tempo in servizio al carcere Buoncammino di
Cagliari e oggi al penitenziario di Uta: “La dipendenza comincia a
manifestarsi già dopo 12 settimane di assunzione. Non solo nei
tossicodipendenti, ma anche nelle persone perfettamente sane. Ecco
perché l’uso prolungato va assolutamente evitato”.
“Da un punto
di vista fisico queste terapie sconvolgono i detenuti – spiega Francesco
Ceraudo, per 40 anni direttore del centro clinico del carcere Don Bosco
di Pisa – Quando li vedi sono inconfondibili: non riescono a mantenere
la posizione eretta, trascinano i piedi, gli occhi sono persi nel vuoto,
il viso diventa simile a un teschio. Risulta perso ogni sussulto di
vita”. “Le carceri sono diventate fabbriche di zombie. Ed è una
situazione drammatica che si vuole tacere, perché fa comodo a tutti”, è
l’amara conclusione di Ceraudo.
LE SEDUTE CON LO PSICOLOGO? UN MIRAGGIO
Ma
come avviene, esattamente, la somministrazione dei farmaci? Formalmente
solo sotto consenso di un medico, attraverso un’autorizzazione firmata.
Però uno psichiatra fisso nelle carceri non sempre è disponibile.
Soprattutto di notte. La copertura medica dello specialista dovrebbe
essere garantita per 38 ore a settimana in ogni struttura. Ma dopo una
prima visita obbligatoria spesso gli incontri si riducono a colloqui
lampo di una manciata di minuti per ogni carcerato. “Troppo poco perché
possa essere diagnosticato un problema e prescritta una terapia adatta -
sostiene Alessandra Naldi, garante dei diritti dei detenuti del Comune
di Milano – mentre allo stesso tempo in infermeria vengono distribuiti
sedativi con grande disinvoltura. Basti sapere che a San Vittore, mentre
il 30% dei detenuti assume regolarmente psicofarmaci, il 90% di loro è
sottoposto a quello che viene chiamato ‘terapia serale’”. Ansiolitici
per dormire. E così si arriva al paradosso che nelle carceri è più
facile trovare un sedativo che un’aspirina.
Come racconta a l’Espresso Giancarlo F.,
ex detenuto, che negli ultimi cinque anni ha girato altrettanti
penitenziari del Nord Italia: “Soffro di “cefalea a grappolo”, attacchi
di mal di testa che provocano dolori lancinanti. Per curarla ho bisogno
di un farmaco specifico. In carcere dovevo compilare dozzine di moduli
per poterlo ordinare: una burocrazia lentissima e complicata. Quasi mai
riuscivo ad averlo. Mentre gli psicofarmaci erano sempre lì, pronti e
disponibili”.
A focalizzare uno dei nodi cruciali è Fabio Gui,
del Direttivo Forum Nazionale per il diritto alla salute dei detenuti
della Regione Lazio: “Nella maggior parte degli istituti manca un
monitoraggio centrale e cartelle cliniche informatizzate, quindi è
impossibile calcolare quanti siano gli assuntori di farmaci e, più in
generale, i malati. Soprattutto, manca una cabina di regia a livello
nazionale che permetta di avere un quadro completo della situazione”. La
sanità nelle carceri, infatti, dal 2008 non è più competenza
dell’amministrazione penitenziaria ma a carico del Servizio Sanitario
Nazionale e quindi gestita a livello regionale.
Fra i pochissimi censimenti a disposizione
– contenuti in uno studio multicentrico sulla salute dei detenuti in
Italia dell’Agenzia Regionale della Sanità della Toscana - ci sono
quelli del Lazio (3.576 detenuti su un totale di 4.992 assuntori di
ansiolitici, antipsicotici, ipnotici-sedativi e antidepressivi), Veneto
(1.284 su 1.460), Liguria (1.366 su 1.776), Umbria (659 su 800) e la
città di Salerno (52 su 90).
Mentre fino a oggi le regioni
virtuose che hanno introdotto la cartella clinica digitale sono solo
l’Emilia Romagna (in ciascun carcere già dall’estate 2014) e la
Lombardia (San Vittore, Opera, Varese, Bergamo, Sondrio, Vigevano, Busto
Arsizio). Niente invece in Calabria, Basilicata, Lazio, Liguria e
Marche. E pochissimi istituti a norma in Sicilia (solo Messina) e in
Campania (Carinola).
“I fascicoli cartacei usati attualmente
dalla medicina penitenziaria sembrano risalire a un’altra era: faldoni
enormi pieni di foglietti stratificati scritti con grafie spesso
incomprensibili – si legge nell’ultima relazione dell’Osservatorio
Antigone – che non garantiscono continuità terapeutica e che rischiano
di essere fatali in situazioni critiche dove è essenziale ricostruire la
storia clinica del paziente”.
Significativi, poi, i report
prodotti in queste settimane dai Radicali, che sottolineano una carenza
cronica soprattutto di specialisti psicologi. “A livello nazionale –
fanno sapere dalla Società Italiana Psicologia Penitenziaria – il monte
ore per gli psicologi esterni autorizzati a prestare servizio in carcere
è di 105.751 ore. Tenuto conto che i detenuti oggi sfiorano quota
51mila, il tempo annuo per ogni detenuto è di 127 minuti”. A conti
fatti, 2 minuti e mezzo a settimana per ogni paziente. Tempo che
ovviamente si riduce se gli ingressi di prigionieri aumentano. E così si
ricorre direttamente alla terapia d’urto: medicinali.
SPACCIO IN CELLA
I
numeri di chi assume abitualmente psicofarmaci, comunque, sono
calcolati per difetto. Perché quando i sedativi non vengono
somministrati legalmente molti detenuti riescono a procurarseli di
contrabbando e li assumono in dosi raddoppiate per ottenere un effetto
più potente, simile a quello dell’eroina. “In carcere esiste persino un
borsino del baratto - conferma Leo Beneduci del sindacato autonomo di
polizia penitenziaria Osapp – e può accadere che nei cortili durante
l’ora d’aria mezza capsula di Subtex sia ceduta per due pacchetti di sigarette, mentre il Rivotril o il Tranquirit per cinque. O che si spacci il metadone”.
Per
evitare il traffico di farmaci gli infermieri preferiscono
somministrare le sostanze in gocce o aspettano che il detenuto
deglutisca la pastiglia. Ma a volte queste precauzioni non bastano:
alcuni fingono di ingoiare le pillole, poi le sputano e le rivendono.
Anche
gli operatori fanno quello che possono per arginare il problema.
Racconta un volontario di San Vittore: “Le benzodiazepine vengono
consumate a ettolitri. Il sesto raggio, in particolare, è un girone
infernale”.
“L’orario della terapia è un incubo – si sfoga un
paramedico in servizio a Poggioreale - ogni sera è una lotta per cercare
di dare meno psicofarmaci possibili e spesso finiamo per essere presi a
calci perché ci rifiutiamo di somministrare quello che ci chiedono per
stordirsi”.
Da Sud a Nord la situazione è sempre la stessa.
Nel carcere di Bolzano lo scorso 6 gennaio è scattato l’allarme per
furti di psicofarmaci trafugati dall’infermeria, che verrebbero poi
ceduti a pagamento ad altri detenuti. Poche settimane prima la Procura
aveva aperto un’indagine su un detenuto colto in flagrante mentre rubava
compresse di Rivotril, che serve a curare gli attacchi di panico ma
viene utilizzato dai tossicodipendenti come surrogato dell’eroina.
Alcuni mesi fa, sempre a Bolzano, un detenuto aveva rischiato la vita
dopo un’overdose di benzodiazepine.
SUICIDI E BLACKOUT
Oltre
ai malesseri fisici e allo stato di narcolessia, assumere i farmaci in
maniera incontrollata ha un’altra conseguenza pericolosissima: l’alterazione mentale.
I detenuti passano da uno stato di euforia alla più buia depressione,
con tendenze auto lesioniste. Negli ultimi cinque anni nelle carceri
italiane si sono contati 747 decessi, molti dei questi per cause non
chiare. I suicidi, solo dal 2011 a oggi, sono arrivati a 261. Mentre
solo nel 2014 sono stati 6.919 gli atti di autolesionismo.
L’ultimo
suicidio risale al 23 dicembre scorso: un ex impiegato di 64 anni si è
tolto la vita al Pagliarelli di Palermo, dove non esiste un reparto
psichiatrico. Mentre il 5 gennaio al Marassi di Genova un detenuto di 45
anni, Giovanni C., è stato trovato agonizzante nel suo letto ed è morto
poco dopo l’intervento dei sanitari. La Procura di Genova ha aperto
un’inchiesta: sospetta che sia stato vittima di un’overdose da sostanze
stupefacenti o psicofarmaci, ceduti da altri detenuti.
A raccontare l’abuso di sedativi sono anche gli stessi carcerati.
Gli effetti collaterali – spiegano - si manifestano lentamente. Fra
questi ci sono le amnesie. “Un bel giorno cominci a dimenticarti cosa
hai mangiato la sera prima”, racconta Gabriele F., “poi è come se il
cervello avesse dei blackout sempre più frequenti. E finisce che non ti
ricordi neanche più il nome di tuo figlio”.
Le conseguenze degli
abusi di psicofarmaci e sedativi, poi, si pagano per molto tempo. Come
conferma chi ormai ha finito di scontare la propria pena e che fuori
dalla galera si è trovato ad affrontare nuovi incubi: malesseri,
depressione, fobie. Paura degli spazi aperti o, semplicemente, di
attraversare la strada.
“Prima sono iniziati i tremori alle mani, tanto che non riuscivo neppure a guidare”, racconta a l’Espresso Salvatore B.,
45 anni, ex detenuto, “poi ho cominciato ad avere le allucinazioni, la
tachicardia. Mentre a volte di punto in bianco mi addormentavo. Ovunque.
Riprendere la vita quotidiana, affrontare colloqui di lavoro o anche
solo ritornare ad avere un’intimità con mia moglie è stato impossibile”.
SOLUZIONI: PSICOTERAPIA E LAVORO
Non
tutti i penitenziari, però, vivono questa realtà nera. Alcune regioni
come Umbria e Sardegna si sono sforzate di migliorare la situazione
carceraria attraverso dipartimenti di salute mentale con medici attivi
24 ore al giorno e gruppi sperimentali di psicoterapia. Mentre nelle
carceri di Bollate e Rebibbia già da anni si pratica la “Mindfulness”,
una pratica di meditazione molto diffusa anche all’estero. E i risultati
sono stati ottimi. “Costa molto meno dei farmaci e non ha effetti
collaterali”, conferma Gherardo Amadei, psichiatra e docente
all’Università Bicocca di Milano.
Un’altra soluzione pratica
arriva dalle cooperative: il lavoro in carcere. Se, infatti, l’uso di
psicofarmaci è altissimo nelle case circondariali, che ospitano chi è in
attesa di giudizio o chi ha una condanna breve da scontare, si abbassa
notevolmente nelle case di reclusione dove sono accolti i carcerati
condannati in via definitiva. E che – come prevede l’ordinamento
giudiziario – lavorano. “Tenere occupate le mani e la testa, sentirsi
utili, è fondamentale per non impazzire - spiegano ancora da Ristretti
Orizzonti - il lavoro dovrebbe essere concesso da subito”. A confermarne
l’effetto benefico sono le storie dei detenuti. Come quella di Giacomo, milanese, 35 anni,
una vita trascorsa a entrare e a uscire dalla cella dall’età di 14
anni. Ex tossicodipendente, era arrivato ad assumere benzodiazepine tre
volte al giorno e pesava 40 chili. Oggi è uno dei giardinieri della
cooperativa sociale carceraria di Bollate. E’ tornato ad avere un peso
normale, sta studiando per il diploma di ragioneria e gioca a calcio. I
sedativi sono soltanto un ricordo.