sotto un interessante contributo di Marco Rossi sulla psichiatria di guerra e sull'uso della corrente elettrica
durante la prima guerra mondiale sulle persone
considerate "simulatori" e "nevrotiche".
collettivo antipsichiatrico Antonin Artaud - Pisa
LA GRANDE GUERRA ELETTRICA
(1914-1918)
Morire quando
si è ancora giovani e si anno ancora delle speranze è follia,
ed io non
sono folle affatto.
(Lettera del disertore Ernesto Premoli, dal campo di
prigionia di Theresienstadt, 24 ottobre 1915)
L’elettroshock,
ossia quel «trattamento psichiatrico con il quale viene applicata alla testa
del paziente una corrente elettrica che, passando attraverso il cervello,
produce una convulsione generalizzata»
, è
stato notoriamente ideato, sperimentato e introdotto ad opera di Ugo Cerletti e
Lucio Bini nel 1938, tanto da essere celebrato dalla propaganda del regime
fascista come invenzione «italianissima». Per cui, è improprio e anacronistico
definire come elettroshock l’accertato utilizzo “terapeutico” di correnti elettriche
su parti diverse del corpo, così come avvenuto durante la Prima guerra mondiale nei
confronti di un certo numero di soldati appartenenti agli eserciti austriaco,
tedesco, britannico, francese e italiano, per il trattamento delle nevrosi di
guerra, oltre che per smascherare presunti «simulatori», ossia di soldati che
cercavano scampo alla morte in trincea «facendo i matti»; ma comunque questo
aspetto - anche se poco conosciuto - appartiene alla realtà del primo conflitto
e anticipò quanto sarebbe avvenuto, sistematicamente, durante la Seconda guerra mondiale
quando «l’elettroshock inventato da Ugo Cerletti diventò così la terapia usata
per scovare le epilessie sospette ovvero la patologia, a detta di molti
alienisti, prescelta dai simulatori»
.
Anche questa
«guerra nella guerra» tra «simulatori» e alienisti (simile a quella che abbiamo
visto ingaggiarsi con gli autolesionisti), costituisce un capitolo di
straordinaria importanza nella storia del conflitto. I compiti disciplinari si
intrecciano con quelli terapeutici e li sopravanzano. Per i medici infatti non
si tratta solo di «scoprire che un tale è un simulatore: il medico ha un
compito più nobile, deve restituire all’esercito un soldato, alla Patria un
cittadino»
. E,
tal fine, il ricorso all’impiego di correnti faradiche o «correnti sinusoidali
di gran forza» - secondo le teorie di F. Kaufmann - applicate a varie parti del
corpo (arti, collo, gola, genitali) diventa pratica largamente diffusa.
D’altronde,
nel ricorso a quella che si configura come vera e propria tortura psico-fisica,
il confine tra indagine medico-legale e terapia appare davvero esile, dato che
per curare disturbi di ordine «sensitivo-sensoriale e sensorio-motorio», il
metodo suggerito da un autore francese consiste «nell’applicare a scopo
suggestivo forti e brusche scariche di corrente faradica. Quando si vuole
ottenere la guarigione di tali disturbi (afonie, tremori, paralisi, piegatura
vertebrale, piede equino ecc.) bisogna agire precocemente e fortemente»
.
Onde evitare residui
scrupoli morali o incertezze deontologiche in relazione alla «dolorabilità del
processo», il prof. Arturo Morselli, capitano medico della III Armata sul
fronte isontino, precisava che bastava «un comune apparecchio portatile a pile,
che non sveglia poi sensazioni troppo vive e che è sufficiente per
suggestionare i soggetti; anzi, per conseguire meglio l’effetto, è utile
esagerare prima agli esaminandi la sofferenza che andranno a sopportare. In
molti simulatori questa prospettiva vale a farli cedere di buon’ora». A tale
scopo Morselli si era fatto spedire dalla Clinica di Genova «un apposito
strumentario elettro-terapico (faradizzazione a doppio rullo)» che sperimentò
su soldati colpiti da qualunque tipo di problema neuropsichiatrico
.
Dolore e
terrore quindi - come sottolinea A. Gibelli - sono dunque parte delle pratiche
mediche di investigazione e recupero, tanto che sempre Morselli confermava come
«La pratica del Gilles è stata usata da me fin dai primi mesi della nostra
guerra e mi ha dato sempre eccellenti risultati terapeutici e medico legali». In
realtà, le rare testimonianze dei pazienti sono di altro segno, come quella del
soldato Giovanni P. che scrive «C’era il professore, un capitano con la barba
di cui non so il nome, e poi c’era il Signor Maggiore che mi ha straziato con
la tortura elettrica ora».
Analogamente,
in Germania, il metodo Kaufmann che combinava scariche elettriche, sempre più
intense, con comandi urlati per l’esecuzione di determinati esercizi, se vantò
alcune “guarigioni” evidenziò i suoi limiti per il carattere temporaneo di
queste, l’elevato numero di suicidi dei pazienti sottoposti a tale cura e la
morte di almeno di due di questi in sede di terapia.
Nel Regno Unito,
il più fervido propugnatore ed esecutore di elettro-terapie disciplinari fu
Lewis Yealland che, tra l’altro, descrisse dettagliatamente l’atroce
trattamento a cui sottopose un soldato che, dopo essere scampato alle numerose
battaglie a cui aveva preso parte, era stato affetto da mutismo.
Il poveretto,
quando venne consegnato a Yealland, era già stato sottoposto a inutili “sedute”
di venti minuti di forti applicazioni elettriche al collo e alla gola,
combinate a ustioni sulla lingua tramite sigarette e pinze roventi; da parte
sua, il medico-aguzzino britannico vi aggiunse la segregazione al buio nella
«camera elettrica» e un supplemento di inumano autoritarismo, accompagnato a
scariche ad alto voltaggio applicate al collo, che lo avrebbero fatto tornare
«sobrio e razionale»
.
Non meno
attiva fu la «scuola viennese» di psichiatria militare - duramente accusata dallo
psicanalista Alfred Adler - che, per spiegare le sofferenze psichiche e le
nevrosi belliche, sosteneva la predisposizione patologica o degenerativa dei
militari vittime di stress o shock. In particolare, nell’esercito
austro-ungarico ad essere sottoposti a terapie elettriche furono soprattutto i
soldati semplici e, soprattutto, quelli di nazionalità-lingua non tedesca, dal
momento che molti psichiatri militari, a fronte della molteplicità linguistica
dei soldati ammalati, privilegiarono una terapia che non richiedeva scambio
verbale. L’obiettivo primario rimaneva comunque, oltre che smascherare i
«simulatori», recuperare e rinviare al fronte i soggetti colpiti da nevrosi di
guerra
.