venerdì 14 giugno 2013

Storia di un'invenzione italiana (di cui possiamo vergognarci!)

...Ugo Cerletti, un medico italiano, decise di sostituire i farmaci con degli shock veri e propri, quelli, per intenderci, che ti prendi quando infili le dita nella presa di corrente. Nel suo laboratorio di Genova Cerletti usava l’elettricità per provocare attacchi ai cani. Non stava cercando una cura per una malattia, voleva semplicemente capire la neurologia dell’epilessia. La sua tecnica era semplice, per non dire grezza: prendeva un cane, gli collocava un elettrodo nella bocca, un altro nel retto e accendeva la corrente. Se il cane non moriva sul colpo – la corrente passava attraverso il cuore, con esito mortale nel 50 per cento dei casi – con ogni probabilità avrebbe avuto un attacco. Poi, una volta sacrificato l’animale, Cerletti poteva comparare il suo cervello con quello di un cane che non aveva subito lo shock. Cominciò così a raccogliere una serie di dati sull’effetto delle convulsioni nei cervelli dei mammiferi. Nel 1936 Cerletti era al corrente del lavoro di Meduna, e si chiedeva perché l’ungherese «non usasse il metodo, molto più semplice, che provocava gli attacchi con l’elettricità». L’anno dopo, a un convegno di psichiatri in Svizzera, ventilò l’ipotesi di mettere in pratica un simile approccio sui pazienti (nel frattempo era diventato direttore di un ospedale psichiatrico a Roma), e nessuno obiettò. Certo che, se si fosse saputo che il tasso di mortalità era del 50 per cento non avrebbe riscosso un tale consenso. Si diede quindi da fare per trovare un modo meno pericoloso di somministrare la scarica. Cerletti aveva sentito dire che nei mattatoi di Roma i macellai usavano l’elettricità per uccidere i maiali. Mandò allora il suo assistente, Luciano Bini, in missione esplorativa. Venne fuori che i macellai non uccidevano i maiali con le scosse elettriche, ma si limitavano a ridurli a uno stato di incoscienza prima di tagliargli la gola: proprio quello che Cerletti voleva fare ai pazienti (risparmiando il taglio della gola). Ma c’era di più: avevano trovato un modo di aggirare il passaggio retto-cuore-bocca servendosi di un paio di pinze elettrizzate  per far passare la scossa dalle tempie del maiale. Presto i mattatoi divennero un laboratorio improvvisato, dove Bini decretò, tra le altre cose, che il margine tra la dose che provocava un attacco (120 volt per circa un decimo di secondo) e la dose letale (400 volt per un minuto) era così ampio che si poteva iniziare a usare l’elettricità per la cura dello shock in tutta tranquillità. Nell’aprile del 1938 un paziente si presentò alla Clinica per disturbi nervosi e mentali dell’Università di Roma. Era in stato confusionale e balbettava, e gli fu subito diagnosticata una schizofrenia catatonica. Non era in grado di dire ai medici il proprio nome, né qualunque altra cosa su di sé. Insomma, aveva tutte le carte in regola per un esperimento. Nei dieci giorni che seguirono, Cerletti cercò di provocare degli attacchi nel suo nuovo paziente, che chiamò Enrico X. Modulò la dose e la durata dello shock finché, a 92 volt e mezzo secondo, Enrico ebbe un attaccò che durò un minuto. Eiaculò, smise di respirare per 105 secondi, diventò pallido e perse i sensi per circa cinque minuti. Nelle tre settimane successive, dopo undici trattamenti – a gran parte di essi assistettero medici chiamati da ogni angolo dell’ospedale – e un altro mese di degenza, Enrico fu dimesso «calmo, cosciente, senza danni al pensiero né alla memoria». La cura fu presentata al pubblico sulle note della solita fanfara che accompagna le cure miracolose. Un nuovo termine fece il suo ingresso nella lingua italiana – zapare, sì, proprio quello che stai pensando – e una nuova idea cominciò a insinuarsi della coscienza pubblica: che se si permette agli psichiatri di ricorrere a rimedi estremi, possono davvero curare la follia...

Tratto da "Storia segreta del male oscuro" di Gary Greenberg.

Veronika

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