CAMAP - Collettivo Antipsichiatrico Camuno
domenica 8 maggio 2022
martedì 3 maggio 2022
Pisa: 13 Maggio, presentazione di 'Hanno legato la zia Lia'
PISA VENERDì 13 MAGGIO 2022 c/o lo Spazio Antagonista NEWROZ
in via Garibaldi 72 alle ore 17:30 il Collettivo Antipsichiatrico Antonin Artaud presenta:
“HANNO LEGATO LA ZIA LIA” di Sonia Ambroset Edizioni Sensibili Alle Foglie
sarà presente l’autrice
“STRAPPI. Riflessioni Antipsichiatriche” Un opuscolo collettivo
a seguire APERICENA
L’esperienza della contenzione fisica
Il
dialogo con la zia Lia, legata al letto in un reparto di medicina in
ospedale, costringe l’autrice a entrare in contatto con quanto vissuto
nel corso della propria vita professionale e tenuto per molti anni sotto
silenzio. L’esperienza della contenzione fisica viene infatti narrata
attraverso gli incontri con esseri umani reali, pazienti, operatori,
familiari e attraverso l’incursione nei saperi e nelle pratiche che sono
state prodotte nel corso del tempo. La storia della zia Lia, al pari
degli spunti autobiografici dell’autrice, si sviluppa tra le pagine a
testimonianza dell’unicità, e al contempo dell’ordinarietà, delle vite
di ciascuno di noi. Vite che chiedono di essere vissute e lasciate
andare con la dignità che meritano.
L’evento si svolgerà seguendo le misure di prevenzione anti Covid
Per info:
Collettivo Antipsichiatrico Antonin Artaud
via San Lorenzo 38, 56100 Pisa
antipsichiatriapisa@inventati.org
www.artaudpisa.noblogs.org 3357002669
sabato 2 aprile 2022
Lutto prolungato e crisi della psichiatria americana
L’Associazione Psichiatrica Americana ha incluso nel suo manuale diagnostico, il DSM, il “lutto prolungato”. Il DSM ha avvolto le persone sofferenti in esistenze diagnostiche, cucite addosso a loro in modo da oscurare i loro vissuti, secondo la necessità dello psichiatra sarto di ampliare la sua produzione di vestiti. Il mercato di psichiatria deve offrire sempre una novità, se non la sua espansione si ferma. Non diversamente fanno le case di abbigliamento: piuttosto che interpretare i gusti, o promuovere un loro rinnovamento, spesso preferiscono costruirli come se fossero la nostra pelle.
Tuttavia i vestiti sono meno costrittivi per la nostra soggettività e, tutto sommato, l’ampiezza delle scelte ci consente sempre una personalizzazione del loro uso. La diagnosi psichiatrica, invece, è sempre di più una divisa che fa della sofferenza una gabbia esistenziale inespressiva. Più si moltiplicano le sue forme più i soggetti che abbiglia si trovano separati dallo spazio del dolore condiviso con gli altri.
Il lutto prolungato è conosciuto da sempre. È del tutto fisiologico in perdite molto gravi. Dalla perdita di un figlio, specialmente se unico, non ci si riprende mai del tutto: convivere con il dolore è umano. Ciò non significa che si perde la propria ragione del vivere. Altre volte la persistenza del lutto è legata all’importanza della persona perduta nella propria storia o all’intensità del legame con essa (si può soffrire più a lungo per un amico e non per un familiare, per uno dei genitori o per uno/a dei fratelli/sorelle). Molto dipende dal momento della vita in cui ci si trova, dall’età, dalla disponibilità di relazioni personali reali o potenziali che consentono di ritrovare, in altre forme, l’oggetto perduto nel mondo esterno, ma anche di mantenerlo vivo nella memoria fatta di emozioni e di sentimenti.
A volte il lutto difficile da risolvere è dovuto a catastrofi finanziarie dalle quali non ci si riesce a riprendere, da disastri naturali o da guerre che cambiano radicalmente il proprio modo di vivere, da esili forzati. L’elaborazione della perdita dipende molto dalle possibilità reali di ripresa, la persistenza delle cause che l’hanno determinata la complica seriamente.
In tutte le situazioni in cui la stagnazione del dolore della perdita fa parte delle circostanze avverse della vita (della cattiva sorte), l’assunzione dei farmaci (ansiolitici o antidepressivi) può dare sollievo e la psicoterapia (psicoanalitica e non) può aiutare ad alleggerire, superare l’invischiamento delle emozioni e l’appesantimento esistenziale. Non di rado il lutto si protrae a causa del desiderio di sostare nel dolore, senza aver fretta di andarsene, perché è così che si può andare più in profondità nella ricerca del proprio senso di esistere.
In tante circostanze si resta prigionieri della perdita perché essa riattiva aree melanconiche (il desiderio mutilato del suo oggetto) o depressive (l’inerzia psichica che sostituisce il desiderio) pregresse. Non necessariamente la sofferenza si manifesta con un quadro depressivo acclarato, ma bisogna avere poca dimestichezza con lo sguardo clinico (l’osservazione dei segni del malessere che coglie il loro accennare, alludere e non li fissa in rigide formule predeterminate di lettura) per non sapere che l’elemento depressivo può manifestarsi con forme spurie, grigie, ma persistenti. Identificare il lutto prolungato, un’area estesa e variegata del disagio psichico in cui la separazione tra fisiologico e patologico non sempre è chiara, come disturbo psichiatrico a sé stante, è privo di senso.
La crisi della psichiatria americana non pare vicina a una fine. A parte la collusione con le case farmaceutiche e il tecnicismo crescente, preoccupa la sua tendenza a vedere la sofferenza da fuori, incapace di ascoltarla, di apprendere dalla relazione con essa.
fonte: ilmanifesto
Rovereto (TN): Domenica 10 Aprile 2022
A cura del CIRCOLO CABANA
in ricordo di Matteo Tenni…
Matteo Tenni è stato ucciso un anno fa. “Sei pazzo”, “Schiantati”, “Dovevo sparargli prima”, le concitate urla del carabiniere durante il furioso inseguimento per una infrazione al codice della strada. Per lo Stato solo un malaugurato incidente, nessun responsabile, semmai colpevole la stessa vittima. Caso chiuso. Prima dello sparo omicida Matteo ha pagato il marchio impresso d’ufficio sulla sua vita: inferiore, asociale, pericoloso. Le persone cosiddette fragili incontrano solo discriminazione ed emarginazione quando non subiscono veri abusi psichiatrici e polizieschi sempre impuniti. Tutti assolti dalla magica frase: “Era solo un matto”. Non possiamo rimanere inermi, la sola maniera per ricordare veramente Matteo.
Ore 12.00 PRANZO
Ore 14.00 DIBATTITO APERTO con la presenza e la testimonianza di collettivi e associazioni che si battono contro la contenzione e gli abusi psichiatrici
domenica 27 marzo 2022
Storia di Eros
di Francesca De Carolis
laltrariva.net, https://ristretti.org
Eros Priore. Il suo nome forse non vi dirà niente. Ma la sua parabola, di persona “problematica” che in una dozzina d’anni passa da un TSO al carcere di Velletri, poi a quello di Secondigliano, e poi alla Rems di Subiaco, per approdare alla casa circondariale-casa di lavoro di Vasto, da dove il 23 gennaio scorso esce, a 61 anni, distrutto anche nel fisico, pochi giorni, per subito morire… è il racconto di un meccanismo feroce che non può lasciarci indifferenti.
Ma chi era Eros Priore? Cosa aveva combinato di tanto grave da finire anche in un carcere?
“Chi era… una persona certo poco gestibile, un caratteriale, ma che non aveva mai fatto male a nessuno. Una sorta di Forrest Gump, lo definirei… nel suo paese, Colleferro, era anche benvoluto… lo racconta anche il parroco che ne conosceva le fragilità” risponde Francesco Lo Piccolo, giornalista che da anni si occupa del reinserimento di ex detenuti, e dirige Voci di Dentro, rivista scritta da detenuti delle carceri abruzzesi. Che la vita di Eros da tempo aveva seguito, e questa vicenda “incivile e barbara” ha denunciato dalle pagine di Huffpost.
Il TSO, il trattamento sanitario obbligatorio, Eros Priore, irascibile quando obbligato o se si sentiva “guardato storto”, lo subisce dopo un litigio, nel Centro di Igiene mentale di Colleferro… da lì inizia “un calvario fatto di comunità che definiva lager, legacci, psicofarmaci, visite mediche, perizie… per poi finire in carcere. Un calvario per motivi di sicurezza, per risocializzare - come prescrivono i giudici - una persona ritenuta socialmente pericolosa, caratteriale, visionario che si rifiuta di prendere psicofarmaci, che non accetta cure, comunità e restrizioni di alcuna natura…”.
Ma tutto accade a Eros, fuorché essere curato e tantomeno risocializzato. Perché non è cura la somministrazione costante di psicofarmaci quando esclude, come denuncia la sorella di Eros, l’attenzione all’umanità che pure è in ciascuno. Immaginate poi cosa può accadere quando “la cura” diventa il carcere, foss’anche una casa-lavoro, dove però Eros, invalido, non può lavorare. Lì alle problematiche di salute mentale si aggiunge dell’altro. Eros si ammala, è stato necessario asportare parte dell’intestino, subisce una stomia e lì rimane, in un’estate che trasforma quel carcere in una fornace (è il suo lamento…), con il sacchetto esterno per la raccolta delle feci più del tempo necessario per mancanza, quell’estate, di personale medico che potesse rioperarlo. Ha un tumore ai polmoni e nell’ultimo video-colloquio con la sorella si presenta reggendosi su una scopa, che gli fa da stampella… E viene rimandato a casa, il tempo di essere trasferito in ospedale per morire.
Se cerchi il perché di tutto questo, rischi di perderti nei dettagli, di burocrazie, vuoti, timori, non risposte… ma al di là di inadeguatezze individuali o collettive, alla fine la risposta è in un kafkiano meccanismo di rimpallo per cui alla fine, quando non si sa che fare, rimane il carcere. Un tremendo cortocircuito fra sistema giudiziario, penale e sanitario.
Una storia che, per chi l’ha seguita, non è facile buttarsi alle spalle. Così Francesco Lo Piccolo ha cercato di capirne di più, e mi racconta: “Sono andato questa settimana a parlare con la direttrice della casa lavoro di Vasto dove era internato Eros Priori. Mi ha spiegato che Priori era una persona bizzarra ma tranquilla (forse per i farmaci) e che in più occasioni ha fatto presente alla Sorveglianza che il suo stato di salute (resezione dell’intestino e applicazione del sacchetto per le feci) non era compatibile con la detenzione. La stessa incompatibilità era stata accertata anche dal Medico dell’Unità Operativa di Sanità Penitenziaria del Provveditorato dell’Amministrazione Penitenziaria di Abruzzo e Molise. La risposta (ovvero la scarcerazione e l’invio a casa dalla sorella) purtroppo è stata sempre negativa, mi è stato detto, a causa della diagnosi di pericolosità sociale accertata dal Dipartimento di Salute Mentale di Colleferro che aveva definito Priori affetto da schizofrenia e delirio”.
Il controllo, dunque, prevale sulla cura.
La non cura in carcere, in generale, è tanta… basti dire che Francesco Ceraudo, pioniere della sanità penitenziaria, ha titolato il libro sulla sua esperienza nei lunghi anni nelle carceri italiane “Uomini come bestie”. Pensate poi come possano essere seguite e curate persone con problemi psichiatrici, anche solo considerando che la media nazionale di ore di presenza degli psichiatri in carcere è di 8,9 ore ogni 100 detenuti, 13,5 ore se parliamo di psicologi. “Lo psichiatra dedica meno di 5 minuti a settimana, lo psicologo 8 minuti a settimana per persona detenuta”, dicono i dati raccolti da Lo Piccolo che non si ferma nel portare avanti la sua denuncia.
Stiamo parlando di medie, ma valutate voi, se nell’universo carcere più della metà dei detenuti è in terapia psichiatrica…
Tornando alla triste storia di Eros Priore… Quasi una beffa, se proprio due giorni dopo la sua morte, arriva la pronuncia della Cedu, la Corte europea dei diritti dell’uomo, che condanna l’Italia per aver tenuto in carcere per più di due anni un cittadino con problemi psichici. Detenzione “illecita”, il carcere è “vietato” per i malati psichici.
Eros in carcere non sarebbe dovuto mai entrare. E quante sono le persone che in carcere ancora stanno, pur dovendo stare, se si volesse dar seguito alla pronuncia della Cedu, da tutt’altra parte. Ma tant’è. E dimentichiamo in fretta storie come questa.
Eppure, molto ci sarebbe da cercare, per capire e trovare strade.
Confrontandomi, ancora, con Francesco Lo Piccolo che, appena tornato dal suo ostinato indagare (ha ascoltato anche l’avvocato di Priore, il parroco di Colleferro…), mi ha detto: “Alla fine, resto della mia idea: un debole in una società dove è facile approfittarsi di chi non sa difendersi. E dove alla cura, all’aiuto e alla comprensione si preferisce la costrizione e il carcere. E che, pur di fronte all’evidenza, pur di fronte alla sua sofferenza anche fisica (dopo la resezione dell’intestino Priori non stava neppure in piedi) si è preferito non vederlo, facendo parlare le carte, il fascicolo, la fredda diagnosi. Un meccanismo infernale che si è protratto anche di fronte alla diagnosi di tumore all’ultimo stadio. Non c’è una responsabilità, ce ne sono tante, soprattutto di chi non sa guardare in faccia il prossimo, come peraltro faceva ed insegnava Franco Basaglia”.
sabato 19 marzo 2022
“STRAPPI. Riflessioni Antipsichiatriche”
è stato pubblicato “STRAPPI. Riflessioni Antipsichiatriche”. Un opuscolo collettivo con vari approfondimenti sul ruolo della psichiatria nell’adolescenza, nell’aumento delle diagnosi psichiatriche a scuola, nella digitalizzazione, nel carcere e nelle REMS. Sotto il link per scaricarlo e l’introduzione.
opuscolo-collettivo definitivo-web
INTRODUZIONE
Siamo dei collettivi antipsichiatrici e singole persone da anni impegnate, sul territorio, a contrastare le pratiche della psichiatria. Il nostro impegno consiste nell’osservazione, nell’analisi, nel monitoraggio attivo del ruolo sempre più
ingombrante che la psichiatria si vede riconoscere all’interno della società, ponendo particolare attenzione alle modalità e ai meccanismi attraverso i quali essa si espande sempre più capillarmente e trasversalmente. Tale tendenza si
è ingrandita e rafforzata durante la pandemia. Aver vissuto un periodo senza contatti sociali dovuto alla paura del contagio, lo stress da confinamento e la crisi economica, che sta colpendo ampi strati sociali, ha causato un incremento
dei disagi psichici. L’ epidemia da Covid-19 e la sua gestione politico-mediatica ha messo in difficoltà la maggior parte della popolazione, generando disagi, patologie e fragilità e ha portato ad un rafforzamento dei dispositivi psichiatrici.
Assistiamo infatti ad un frequente ricorso al TSO (Trattamento Sanitario Obbligatorio), ad un aumento del consumo di psicofarmaci e della contenzione fisica all’interno dei reparti psichiatrici di diagnosi e cura e non solo (RSA, ospedali,
centri di detenzione per immigrati). In questo opuscolo collettivo troverete approfondimenti sul ruolo della psichiatria nell’adolescenza, nell’aumento delle diagnosi psichiatriche a scuola, nella digitalizzazione, nel carcere e nelle REMS
(Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza). L’idea nasce dalla volontà di voler contrastare il dilagare della psichiatria, con l’obiettivo di informare e sensibilizzare sugli effetti nefasti di una disciplina che opprime e riduce gli individui a mere categorie diagnostiche e nega loro la possibilità di autodeterminarsi. Ci sembra necessario mettere in discussione le pratiche di esclusione e segregazione indirizzate a coloro che non rientrano negli imposti parametri dei così detti “comportamenti normali”. Negli ultimi decenni la psichiatria ha radicato il suo pensiero e potenziato le sue tecniche nell’intero corpo sociale diventando un vero e proprio strumento di controllo sociale trasversale a varie Istituzioni e fasce d’età. Un concreto percorso di superamento delle pratiche psichiatriche passa necessariamente da uno sviluppo di una cultura non etichettante, senza pregiudizi e non segregazionista, largamente diffusa, capace di praticare principi di libertà, di solidarietà e di valorizzazione delle differenze umane.
Assemblea Antipsichiatrica
giovedì 24 febbraio 2022
Contenzione farmacologica nelle carceri
La storia di I.: Si parla di una giovane donna deceduta lo scorso febbraio 2021 mentre era detenuta nel reparto psichiatrico del carcere di Pozzuoli.
Intervista al Collettivo Artaud
https://www.ondarossa.info/redazionali/2022/02/contenzione-farmacologica-nelle-carceri
sabato 12 febbraio 2022
Sulla Contenzione
Riportiamo un articolo del Corriere della Sera a firma Paolo Riva, tratto da http://www.ristretti.org Non amiamo diffondere e riprendere link di media mainstream, ma se arrivano persino loro a rilevare tematiche di questo tipo possiamo immaginare quanto l'entità della questione sia molto più alta e pressante...
Il fenomeno della contenzione meccanica è ancora troppo diffuso nei reparti. La campagna nazionale contro i lacci per i malati e la bozza del governo per superare la pratica.
Elena Casetto, Giuseppe Casu, Franco Mastrogiovanni, e, ultimo in ordine di tempo, Wissem Ben Abdellatif. Sono tutte persone la cui morte è collegata alla pratica della contenzione meccanica. Casetto è deceduta a causa di un incendio divampato nel reparto di psichiatria dell'ospedale di Bergamo, dove era ricoverata, legata. Casu, all'ospedale di Cagliari, è mancato dopo essere stato bloccato per sette giorni. All'ospedale di Vallo della Lucania, Mastrogiovanni è morto nel letto al quale era stato legato per 87 ore. Infine, lo scorso novembre, il cittadino tunisino da poco arrivato in Italia Ben Abdellatif è morto dopo essere stato contenuto per molte ore, sia all'ospedale di Ostia sia al San Camillo di Roma. Questi casi sono i più gravi, ma la pratica è molto diffusa in Italia. E, proprio per i suoi effetti negativi, in molti chiedono che venga superata.
In concreto, la contenzione meccanica utilizza dei messi fisici, come lacci e cinture, per limitare i movimenti di una persona. Viene utilizzata per prevenire danni fisici al paziente stesso o ad altre persone, e il personale sanitario che sceglie di servirsene dovrebbe usarla solo in situazioni di emergenza, come ultima risorsa. Eppure, stimava nel 2013 un articolo scientifico dello psichiatra Vittorio Ferioli, "nei reparti psichiatrici per acuti, in Italia, avvengono in media 20 contenzioni ogni 100 ricoveri".
Se consideriamo che, secondo gli ultimi dati disponibili relativi al 2019, i ricoveri in psichiatria sono stati 96.510 in un anno, non si tratta di pochi casi. Secondo il Comitato nazionale di bioetica, però, "la contenzione rappresenta in sé una violazione dei diritti fondamentali della persona" e, per questo, deve avvenire solo "in situazioni di reale necessità e urgenza, in modo proporzionato alle esigenze concrete, utilizzando le modalità meno invasive e per il tempo necessario al superamento delle condizioni che abbiano indotto a ricorrervi".
Il Comitato si è espresso sulla questione nel 2015, ma lo scorso dicembre è intervenuta sul tema anche la Corte Europea dei diritti dell'uomo. Grazie al ricorso di un quattordicenne che venne legato al letto per sette giorni, il tribunale ha messo per la prima volta sotto sorveglianza l'Italia su questa pratica, imponendo al governo di rispondere a dei quesiti sul fenomeno e sull'esistenza o meno di protocolli. Una sentenza della Corte potrebbe portare a quel che, da tempo, chiede "...e tu Slegalo subito", la campagna nazionale per l'abolizione della contenzione meccanica in psichiatria promossa dal Forum Salute Mentale e sostenuta da numerose realtà della società civile.
"L'uso delle fasce, dei letti di contenzione, sopravvissuto alla chiusura dei manicomi, è la prova più chiara e scandalosa di quanto sia ancora viva l'immagine del matto pericoloso. In molti dei luoghi della cura si lega ma si fa di tutto per non parlarne. Salvo quando capita l'incidente". Come quelli drammatici di Casetto, Casu, Mastrogiovanni e Ben Abdellatif.
Eppure, esistono realtà che riescono a curare i pazienti senza bisogno di legarli. Dal 2006, in Italia, opera il Club Spdc- No Restraint che riunisce i Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura (Spdc, appunto) che non usano la contenzione e tengono aperte le porte dei loro reparti. Le adesioni sono ventuno e vanno da Trento a Grosseto, da Terni a Matera, da Caltanisetta a Ravenna, Parma, Modena e Mantova. Senza contare Trieste, la città in cui operò Franco Basaglia.
Proprio in Friuli-Venezia Giulia, lo scorso novembre si è tenuto un convegno degli Spdc- No Restraint. L'iniziativa, intitolata "Verso servizi liberi da contenzione" è stata organizzata tra Trieste e Gorizia, una scelta simbolica, dal momento che fu proprio a Gorizia, nel 1961, che Basaglia pose il problema delle persone legate in manicomio. Il rivoluzionario psichiatra si rifiutò di avvallare con la propria firma di medico questa pratica. "E mi no firmo", disse, dando idealmente il via al percorso che portò nel 1978 alla legge 180, cui si deve la chiusura dei manicomi. Oltre quarant'anni dopo, la contenzione è considerata da più parti come "un residuo" di quella "cultura manicomiale" che la 180 voleva superare. A farlo definitivamente, potrebbe contribuire una bozza di accordo stilata dal Ministero della Salute, per il "definitivo superamento della contenzione meccanica in tutti luoghi della salute mentale in un triennio". Il documento contiene sette raccomandazioni: è stato redatto a giugno e ora si attendono i pareri di Comuni e Regioni.
Pazienti nelle psichiatrie? Troppi quelli che sono legati. "Diritti violati una volta su 5" |
![]() |
![]() |