Sabatino Catapano
  
OPG di Aversa - Due ricoveri all' Ospedale Psichiatrico Giudiziario 
   
  (nel 1962 e poi 1974) 
  
  Era il lontano 1960, quando fui arrestato con una pesante 
imputazione: “sequestro di persona e rapina a mano armata”. Mi 
rinchiusero nel carcere di Salerno. Ero innocente, oggi si dice: 
“estraneo agli addebiti”. Non credo che chi non ha vissuto questo 
barbaro sequestro si possa immaginare qual è il tormento, la paura, la 
rabbia, la ribellione.
  
Mi sentivo sempre straziato ed impotente rispetto alla 
macchinazione repressiva, mi sentivo come un gabbiano con le ali 
tarpate, mi sentivo impazzire. Nonostante il travaglio della 
sofferenza cercavo di essere lucido ed attento agli sviluppi del 
processo. Ardii dire al giudice istruttore di non fare “orecchie da 
mercante” e fui denunciato per oltraggio e condannato a quattro mesi di 
reclusione. Tentai la fuga ma, come succede spesso, qualcuno fece la 
spia e fummo presi. Tre mesi di isolamento in una tetra cella. Tra 
scioperi della fame ed autolesioni fui trasferito in quel di Benevento 
dove, in una protesta, ruppi un vetro per difendermi dalla violenza 
della squadretta (15, 20 secondini massacratori specializzati nei 
pestaggi). In quell’occasione mi pestarono, si trattennero dal mio 
libretto del c.c. una somma esosa per il risarcimento, mi legarono sul 
letto di forza e mi denunciarono, subendo una condanna di due mesi di 
carcere. Quel vetro lo pagai troppo salato.
  Durante il periodo trascorso al carcere di Benevento, nel mese di 
Agosto del 1962 ci fu un terremoto. All’improvviso tutto traballava, una
 fottuta paura ci spinse illusoriamente a rifugiarci negli angoli della 
stanza, nel tentativo di salvare la pellaccia. Aspettavamo che venissero
 ad aprire i cancelli per poter essere portati al sicuro negli spazi 
aperti adibiti all’aria. Trascorse più di un’ora prima che i porci ci 
venissero ad aprire. lncominciammo subito una protesta e con le gavette 
facevamo un assordante rumore sbattendole contro le cancelle per 
costringere a tornare i secondini, che in primis scapparono, senza 
tenere conto delle vite dei detenuti, ingabbiati ed impossibilitati a 
fuggire. Il racconto di questo episodio serve a mettere in evidenza il 
non senso del valore della vita dei reclusi. In carcere non si perde 
solo la libertà, l’individuo che espia una condanna viene defraudato di 
qualsiasi diritto, anche quello alla vita. Prevale sempre la cultura 
dell’annientamento.
  Poi fui di nuovo trasferito a Poggioreale dopo aver ingoiato un 
chiodo di 7 cm, e di seguito spedito ad Aversa. Questo fu il periodo più
 drammatico di quella detenzione. Varcata la soglia del manicomio, di 
prassi, tanto per darti il “benvenuto”, ti espropriano di tutte le tue 
cose relegandoti al padiglione 40 reparto agitati dove ti fanno denudare
 per farti indossare la camicia da recluso (quelle famose a strisce) ed 
incominciano a cucire le fascette ai polsi ed alle caviglie. Così 
conciato ti fanno distendere sul letto di contenzione legandoti polsi e 
caviglie alla struttura del letto fissato nel pavimento. Restai legato 
per quindici lunghi giorni. Nei primi tre o quattro giorni un dolore 
lancinante ai reni mi faceva un male da morire facendomi piangere. 
Cercavo comprensione ma i miei lamenti lasciavano indifferenti i 
secondini in servizio. I cani da guardia erano imperturbabili, nulla li 
faceva emozionare e sulle loro facce potevi leggere solo un ghigno di 
sadico piacere, quella gentaglia poteva così scaricare tutta la sua 
violenza, tutte le sue frustrazioni. Capii subito l’atmosfera e cercai 
di controllare il dolore e la rabbia perché, qualunque cosa dicevi, 
poteva essere un motivo per subire violenza. Imparai subito la lezione.
  Vicino a me c’erano altri legati, in quello stanzone c’erano dieci 
letti occupati tutti i giorni. Fra tutti, due vivevano la situazione più
 tragica. C’era uno di Misterbianco, in provincia di Catania, prosciolto
 per “incapacità di intendere e volere” ed internato per sei mesi (ma 
erano cinque anni tutti interi che era legato). L’unica sua “colpa” era 
quella nenia lacerante fatta di rabbia ed impotenza, espressa con le 
testuali parole: 
“tutti sciecco, tutti porci vai chiamare” . Lo 
diceva in dialetto che significa: “tutti asini, tutti porci vi devo 
chiamare”. Per me sentire quel tormento era una sofferenza indicibile ma
 nulla si poteva fare per dargli aiuto, come nulla potei fare in un 
altro caso ancora più drammatico che vi descriverò in modo più 
dettagliato.
  Il secondo, il mio vicino diletto, era un “grande invalido di 
guerra decorato con la medaglia d’argento al valore militare”. Durante 
la Seconda Guerra Mondiale era imbarcato su un sommergibile che fu 
affondato. Lui, unico superstite, fu salvato dopo qualche giorno. 
Dissero che era “schizofrenico” e per di più tubercolotico, per questo 
percepiva una pensione e dato che aveva un tutore non gli permettevano 
le cose che desiderava. Avrebbe voluto comprarsi un po’ di caramelle e 
qualche cioccolata, gridava in continuazione chiedendo lo spesino 
(chiamavamo così l’internato addetto alle cose che potevamo comprare) e 
le sue grida erano un lamento lacerante. Tra i tanti secondini in 
servizio nel reparto agitati due erano più bestie degli altri e gli 
riservavano un trattamento speciale di tortura: uno con una faccia di 
merda, con un’espressione di piacere, lo colpiva sulle ginocchia con le 
chiavi, quelle grandi, che usavano per chiudere i cancelli.., erano 
grida di dolore.., ed erano grida di dolore anche con l’altro secondino 
che con un ghigno di cattiveria lo colpiva con il bastone della scopa 
sulle dita dei piedi. Era uno spettacolo orrendo che non volevi vedere e
 tuo malgrado dovevi assistere. L’odio che sentivo verso quella 
gentaglia era incommensurabile, la rabbia saliva, sarei dovuto 
intervenire ma il terrore di subire lo stesso trattamento mi bloccava e 
non restava altro che girare lo sguardo dall’altra parte. Ma se gli 
occhi non vedevano, le orecchie sentivano le grida strazianti di dolore,
 quelle grida mi penetravano nel cervello, mi facevano molto più male 
dell’essere legato, della sofferenza fisica che pativo. Ed i giorni 
erano tutti uguali, sempre le stesse scene, non avrei assolutamente 
immaginato che quella tortura durasse quindici giorni.., sì, tanto 
restai in quelle disumane condizioni.
  Come prassi, ogni mercoledì della settimana in reparto arrivava uno
 psichiatra per decidere chi doveva esser slegato. I mercoledì si 
aspettavano con ansia e trepidazione, si pensava sempre che era il 
proprio turno, la delusione era cocente se rimanevi legato, durava 
qualche giorno poi, se non volevi impazzire, ti aggrappavi alla speranza
 che il mercoledì successivo fosse quello buono. Durante quei giorni era
 un continuo chiedersi quando passerà il tempo, e sempre con molta 
attenzione sentivo lo scandire delle campane che segnavano le ore. Ogni 
quindici minuti, la cadenza dei suoni dei battiti delle campane avveniva
 in questo modo: una campana scandiva le ore, un battito un’ora e così 
di seguito, un battito era l’una, due battiti le due, e così via, e 
questo si ripeteva ogni ora. L’altro battito divideva l’ora in quattro 
ed ogni quindici minuti un colpo, che ogni quindici minuti diventavano 
due, tre, al quarto si completava l’ora e poi l’orologio ricominciava. 
Lo stato d’animo che vivevo nello scorrere delle ore era di sospiro e di
 sofferenza, quando sentivo i battiti era un sollievo, poi si ricadeva 
subito nell’ansia dell’attesa per i quindici minuti che dovevano 
trascorrere per i prossimi rintocchi. Così passavano le ore, così 
passavano i giorni ed io aspettavo il mercoledì della settimana 
seguente.
  Lo stress era lacerante, feci presto a capire che lì potevi 
restarci quanto loro volevano, ed allora dovevi valutare bene quel che 
facevi. Il paradosso era che le decisioni del medico dipendevano 
esclusivamente dal rapporto che i secondini riferivano, nulla contavano 
le tue condizioni psicofisiche. A dire il vero eri alla mercé dei 
secondini, se davi fastidio facendo molte domande ti tenevano legato 
come punizione. Sinceramente su quelle facce non ho mai visto 
un’espressione umana, ma la cosa più umiliante rimane in assoluto una 
pratica che violenta l’intimità. Per chi non conoscesse il letto di 
forza spiegherò la sua struttura per dare un’idea delle sue funzioni: un
 letto tutto in ferro fissato nel pavimento con su un pagliericcio fatto
 di crine, al centro un buco ricoperto con vilpelle. Una volta legato, 
nei primi tre o quattro giorni l’intestino si blocca, ma quando si 
regolarizza inizi a fare la piscia e a defecare, a quel punto viene lo 
“scopino” per portare via gli escrementi, ma prima ti fa il bidet. Lui 
arriva con il secchio pieno di acqua fredda, ti scopre per lavarti con 
un pezzo di spugna palle, pesce e culo, ti ricopre e porta via la merda e
 una volta ripulito il bugliolo lo rimette al suo posto. La piscia non 
viene rimossa subito così la puzza nauseante delle urine la senti 
continuamente, e credetemi, è davvero puzzolente.
  L’istinto della sopravvivenza non ti fa uscire “fuori” di testa ma 
le violenze, le umiliazioni sono cruente, cocenti, e questa prassi è 
generalizzata : non occorre essere “agitato” per essere legato e subire 
quel trattamento ed il loro “benvenuto”. Cosa strana però che in teoria 
si sosteneva, ed il direttore dell’O.p.g. di Aversa era uno di quelli 
che affermavano che si doveva praticare la coercizione dell’uso del 
letto di contenzione solo in casi di “pericolosa agitazione” e si doveva
 subito slegare appena uno si placava, cazzo che differenza tra la loro 
teoria e l’applicazione della pratica! Ufficialmente le loro teorie 
erano finalizzate a diffondere la pratica psichiatrica, umanizzata, 
terapeutica, ma all’interno delle mura quotidianamente succedeva di 
subire violenze psicofisiche gratuite, umiliazioni atroci, abusi e 
quant’altro di sadico che l’umano frustrato può pensare. Subire tutto 
questo durante una carcerazione preventiva, durata due anni, tre mesi ed
 11 giorni, per poi essere assolto per insufficienza di prove è davvero 
traumatizzante e lesivo per la dignità umana. Mi sentivo in gabbia con 
una fottuta paura che anche al processo poteva andare male, e al solo 
pensiero di una condanna rabbrividivo. Per quella specie di reato di cui
 ero accusato sicuramente mi avrebbero affibbiato tanti anni ma 
nonostante tutto, la volontà, la forza di gridare la mia estraneità ai 
fatti addebitatemi era tanta, tanta piena di odio, di rabbia che niente 
mi poteva fermare.
  Questa esperienza così aberrante vissuta sulla pelle mi ha aperto 
gli occhi su tantissime cose. Ho imparato a guardarmi attorno, ad essere
 un attento osservatore, a scrutare lo sguardo di chi mi è di fronte, a 
cercare di capire non solo per salvaguardare la pellaccia, ma per 
intuire in che situazione mi trovo e potere avere subito una risposta a 
qualsiasi forma coercitiva che si vuole esercitare contro di me o a 
carpire uno sguardo luminoso carico di infinita umanità. L’odio e la 
rabbia erano tantissimi, ma quei tre mesi trascorsi al manicomio furono 
tremendi, dovevi stare molto attento e la paura era veramente tanta in 
quanto il potere dei secondini era infinito. Loro relazionavano sul tuo 
comportamento e lo psichiatra decideva. La sua diagnosi poteva anche 
prolungare il tuo soggiorno o addirittura sospendere la detenzione, e 
con l’applicazione della stecca ti sospendeva il giudizio e tutto il 
tempo che poi trascorrevi in manicomio non era più calcolato come 
periodo della detenzione. Questo fatto era davvero traumatizzante come 
forma di ricatto per  creare paura, poterti annientare psicologicamente e
 chiuderti la bocca.
  Tutto questo succede quando non sei seguito da familiari, avvocati e
 compagni, ma se capiscono che dietro di te c’è qualcuno, il loro 
atteggiamento cambia radicalmente e cercano anche loro di toglierti 
dalle palle per non avere fastidio. La loro grande preoccupazione è 
sempre quella di non correre il rischio che le cose interne escano oltre
 il muro, così tutto possono occultare. Chi mette in pericolo questo 
concetto corporativo e omertoso deve essere spedito subito al carcere 
perché per loro sei una rogna.
  Un po’ prima che finissero i tre mesi (questo è il periodo massimo 
dell’osservazione psichiatrica) ti convoca uno dei medici ed è lui che 
stabilisce, dopo averti sottoposto ai test, che sono scarabocchi 
imbrattati su dei fogli di cartoncino, e ti domanda cosa ravvedi in quei
 disegni, se così si possono definire. Anche allora mi preoccupai molto,
 non mi avvilii, sicuro che quello era il momento di poter essere 
rimandato in carcere oppure di restare ancora in quella struttura 
immonda e disumana. lncominciai attentamente ad osservare, non riuscivo a
 decifrare un cazzo, capivo che non sarebbe stata sufficiente una simile
 risposta, incominciai a pensare che dovevo salvarmi il culo e cercai di
 descrivere cosa riuscivo ad interpretare, pensando di dare la risposta 
più attendibile, localizzando anche l’esatto punto di ciò che riuscivo a
 vedere e descrivere, dovevo a tutti i costi dare delle risposte che 
avrebbero dato un senso per sfuggire da quella situazione. Riuscii a 
nascondere bene la mia “pazzia” dando l’impressione che psicologicamente
 dimostravo di essere nella loro “logica”. Terminato questo test 
ritornai nella cella e dopo qualche giorno fui trasferito al carcere di 
Avellino dove restai fino all’inizio del processo che si svolse alla 
corte d’assisi di Salerno. L’epilogo di questa storia di merda si 
concluse con la mia assoluzione con formula dubitativa. L’importante era
 tornare “libero”, libero in questa società di avvoltoi che tutto ti 
toglie e tutto devi combattere per non essere omologato nella loro 
cultura di repressione, di annientamento e morte.
  
  Un altro periodo in cui mi spedirono in manicomio fu nel 1974. Per 
altri due mesi dovetti sopravvivere in quell’inferno, dove non potevi 
parlare con nessuno anche se avevi tanta voglia di farlo, I giorni erano
 tutti uguali, monotoni, l’apatia era dominante e dopo dodici anni 
niente era cambiato. Per dare l’idea di come il potere ha tutte le 
facoltà per distruggerti racconterà quest’altra disumana esperienza. Al 
carcere di Perugia, dove conobbi due compagni anarchici, uno dei quali 
era Horst Fantazzini, fui uno degli organizzatori dello sciopero del 
lavoro. Per questo fui trasferito ad Aversa, nel giro di un mese feci 
tante traduzioni e visitai altre carceri, Pisa, San Gimignano, da dove 
mi impacchettarono per Aversa. La cosa assurda è il motivo del 
trasferimento al manicomio. Arrivato a San Gimignano, il giorno dopo fui
 convocato dal direttore che mi chiese cosa volevo. Nell’entrare 
nell’ufficio dove lui dava udienza, alle 17 - l’ora in cui mi ricevette 
-, pensavo che a quell’ora si dovesse salutare con un 
“Buona sera”, così feci ma la risposta arrogante di quell’essere fu 
“Buongiorno” ed allora capii subito dove mi trovavo pensando tra me: “
a rò u buò, a la to do”, che significa: “da dove lo vuoi da lì te lo do”. Assunsi un atteggiamento di sfida ed alla sua domanda : 
“Cosa vuole?’ feci
 le mie richieste: il diritto alle telefonate ed all’acquisto dei 
giornali, “Umanità Nova” e “Lotta Continua”, un settimanale ed un 
quotidiano. La risposta fu di assoluto rifiuto per entrambe le cose. Il 
direttore con lo sguardo abbassato sulla scrivania (dove in evidenza 
c’era la cartella biografica con su scritto in rosso “grande 
sorveglianza”) mi negava tutto nonostante le disposizioni ministeriali 
che stabilivano che tutta la stampa legalmente registrata poteva essere 
letta e che una volta a settimana si poteva telefonare ai familiari. Il 
direttore continuava a dire che lì, in quel carcere, non era concesso. 
Alla mia risposta che se sarei stato vicino a casa avrei potuto 
usufruire dei colloqui (pertanto non avrei avuto il bisogno di 
telefonare) il direttore di ripicca disse:” 
Vorrebbe stare vicino a 
casa?” ed io risposi: 
“Se è possibile mi fa piacere”, così fu la mattina dopo: trasferito ad Aversa. Più vicino a casa sì, ma al manicomio.
  Come già ho raccontato, avevo vissuto già l’altra esperienza nel 
1962, sapevo cosa mi aspettava. lncominciai a pensare come potevo 
trovare un modo per informare mia moglie per sollecitarla a venire al 
colloquio il più presto possibile. Approfittai che la mattina ci fu un 
diverbio tra il capo-scorta per la traduzione ed il maresciallo dei 
secondini perché, quando mi domandarono se sapevo dove mi trasferivano, 
incredulo dissi: 
“Non lo so”, ed in quel preciso istante scoppiò 
la discussione. In ogni modo, considerata l’atmosfera che si era creata 
durante il viaggio, parlai con i carabinieri spiegando loro del perché 
ero stato trasferito, chiedendo se era possibile avvisare mia moglie di 
venire subito al colloquio per evitare di subire il trattamento di 
prassi dal momento che sarei arrivato in quell’inferno dei vivi. Vuoi 
che erano arrabbiati con la custodia, vuoi perché durante la traduzione 
stavo tenendo un atteggiamento tranquillissimo, si convinsero e durante 
la sosta per la pipì a Capua, mi fecero telefonare. Fu così che evitai 
di restare legato al letto di contenzione per molti giorni. Spiegai a 
mia moglie di venire insieme a qualche compagno/a di Napoli che avevo 
conosciuto a Poggioreale e di insistere a vedermi, anche se loro 
avessero detto che non era possibile, perché spesso così facevano, 
questo era uno dei tanti modi per punirti, calpestando anche il diritto 
all’affettuosità.
  In ogni modo tutto si svolse come avevo previsto: appena giunto ad 
Aversa nell’ufficio matricola, dopo avermi registrato, mi portarono 
dritto al padiglione 40 reparto agitati e mi legarono. Restai in quella 
condizione per soli tre giorni che furono in ogni modo bestiali sia per 
le condizioni ed il trattamento che subivo, sia per le cose che vidi, 
cose che vi devo raccontare per rendere chiara l’idea di cosa vuoi dire 
essere spediti in manicomio. Ero già legato da un giorno, la sera dopo 
irruppero nello stanzone un branco di cani famelici, fra cui pure il 
medico di guardia, strapparono letteralmente gli indumenti di un 
malcapitato, senza dargli neppure il tempo di denudarsi come in genere 
usavano fare, una visione da volta stomaco di inaudita violenza dove non
 potevi neanche intervenire. Quanta rabbia ho dovuto amaramente ingoiare
 di fronte ai tanti spettacoli che vidi. Orrore, paura, rabbia, 
ribellione, tutto dovevi soffocare per non subire ritorsioni spietate. 
Molto spesso non era la violenza fisica che ti spaventava ma le 
condizioni in cui ti trovavi davvero da impazzire. psicologicamente, la 
procedura dell’essere legato ve la dovrò descrivere minuziosamente. Ti 
portano al reparto agitati, anche se sei calmissimo, ti espropriano di 
tutte le tue cose, ti lasciano spogliare nudo, ti fanno indossare una 
camicia a strisce ed incominciano a cucire le fascette ai polsi poi ti 
fanno distendere sul letto per cucire quelle che applicano alle caviglie
 ed iniziano a legarti alla struttura in ferro del letto. Ti 
immobilizzano le gambe, prima di immobilizzarti le braccia ti passano la
 fiorentina (non so perché viene definita così) sotto le ascelle e ti 
legano braccia e spalle. Tutta questa operazione conviene subirla con 
assoluta calma, ogni cosa può essere un motivo per fare scatenare tutta 
la loro bestialità. Se ti muovi troppo, perché vorresti rifiutare quel 
trattamento, peggiora la situazione ed allora ti tendono, ti allungano. 
La fiorentina serve a questo, più la tendono più non puoi muoverti. Se 
neppure quella basta ti bloccano con un’altra fascia sul torace ed in 
tante occasioni anche una sulla pancia... in quelle condizioni sei 
fottuto. Personalmente non ho subito queste “cure” perché sono sempre 
riuscito ad avere un senso di autocontrollo in quelle circostanze, ma 
ciò non ha impedito che i miei occhi vedessero tanta malvagità, tanto 
sadismo, tanto orrore. Era degradante ed umiliante al tempo stesso 
quando, costretto a defecare ed urinare in quella condizione, era 
abitudine chiamare per fare pulire il bugliolo, arrivava lo scopino con 
un secchio d’acqua fredda ed un pezzo di spugna ricavato da un vecchio 
materasso, ti scopriva per farti il bidet e con quella spugna lavava 
palle, pesce e culo a tutti! Figuratevi ... l’igiene se ne andava a 
puttane!
  Ad Aversa c’era e c’è ancora una sezione, “la staccata”. Solo a 
nominarla si rabbrividiva. Correvano tante voci di tanti misfatti e 
tante morti che ci sono state. Lì venivano trattenuti i lungo-degenti, 
lì praticavano l’elettroshock, lì ti riempivano di psicofarmaci 
(all’epoca andava di moda la Scopolamina che ti rincoglioniva). Quando 
si parlava della staccata se ne parlava con paura. Una volta sola mi 
portarono per fare l’elettroencefalogramma. C’era un’atmosfera tetra, 
oppressiva, disumana. L’annientamento era totale, mi sentivo circondato 
da marionette, solo i corpi ti davano un senso umano ma le espressioni, 
variegate da soggetto a soggetto, erano tutte smorte, senza luminosità. 
Il trattamento per annullarti era totale. Per tutte le angherie 
applicate, per gli abusi, per alcune morti, alla fine degli anni 
settanta ci fu un’indagine giudiziaria ed il direttore, Dott. Ragozzini,
 con il maresciallo e diversi secondini, furono condannati. Tutti erano a
 “piede libero”, tra questi il direttore fu condannato a quattro anni di
 reclusione ed il giorno dopo la sentenza lo trovarono impiccato appeso 
al balcone del suo ufficio all’interno del manicomio. La vergogna delle 
sue responsabilità, delle sue complicità anche con famosi camorristi lo 
portò al suicidio. 
In un mondo di merda, uno stronzo in meno. Ma la puzza rimane sempre la stessa, la puzza putrida del potere.
  Il secondo episodio che devo narrare è la dimostrazione di come 
l’elettroshock e gli psicofarmaci vengono usati per l’annientamento 
totale dell’individuo. Tutti sappiamo che qualsiasi forma di rifiuto, 
contestazione, ribellione, viene sistematicamente repressa. Gli organi 
predisposti a questo compito sono militarmente equipaggiati e feroci 
nella esecuzione, tante volte sono anche assassini. La funzione delle 
strutture di sequestro coatto ha uno scopo aberrante, quello di 
ricattare con la tortura psicofisica. Il nocciolo dell’esempio da 
raccontarvi consiste in questo caso che dettaglierò nei particolari. Fui
 chiamato per il colloquio, entrando nella stanza per incontrare la mia 
compagna ed i miei figlioletti (all’epoca erano piccoli), mi trovai 
seduto accanto ad un internato che era “ospite” della famigerata sezione
 la staccata. Per lui c’era sua madre che non lo vedeva da anni e suo 
fratello, emigrato in Germania, che era impossibilitato a seguirlo. Quel
 giorno vennero, ed io e la mia famiglia ci trovammo di fronte ad una 
situazione direi raccapricciante. C’era il fratello che con il sorriso 
sulle labbra gli offriva una cioccolata e lui con uno sguardo smarrito, 
tutto impaurito, terrorizzato e tremolante si ritraeva senza riuscire 
neanche a parlare. Incredulo osservavo come abitudine l’ambiente dove mi
 trovavo e decisi di parlare con i suoi spiegandogli qual’era la causa 
dell’atteggiamento del loro familiare e del trattamento a cui era 
sottoposto, sollecitandoli ad interessarsi affinché il fratello non 
diventasse una larva umana. Gli suggerii di farsi ricevere dal direttore
 per chiedergli spiegazione delle condizioni di suo fratello e di 
rivolgersi ad un avvocato per tirarlo fuori da quell’inferno. Gli detti 
il recapito e mi rivolsi verso i miei per coccolare i miei bambini e 
parlare un po’ con mia moglie. Anche loro rimasero scossi da quella 
scena di orrore. Alla fine nel salutarli, sollecitai di nuovo e 
raccomandai di non dimenticarsi di quanto gli avevo suggerito. Andai via
 dando un bacio ai bimbi e a mia moglie. Come abitudine, ogni settimana 
mia moglie veniva al colloquio, ed io aspettavo con ansia quel giorno. 
Ovviamente non pensai più a quell’incontro, anzi credevo di non rivedere
 più quelle persone. Invece al prossimo colloquio ci incontrammo di 
nuovo e la situazione della settimana precedente era del tutto 
capovolta. L’internato non era più intontito, apatico, estraneo, in 
sette giorni le cose erano cambiate radicalmente ed allora ritenni 
opportuno intervenire per domandare se si era interessato del fratello. 
In me stesso ne ero sicuro, mi rispose di si ed allora gli feci notare 
il grande cambiamento e lui non sapeva più come ringraziarmi. 
All’improvviso il 14 agosto, mi chiamarono perché dovevo essere 
trasferito di nuovo a San Gimignano ma quello fu un trasferimento 
punitivo, mai nei giorni prefestivi si facevano traduzioni in quanto, in
 occasione delle festività, c’era da fare il colloquio, In questa 
piccola cosa si può valutare la loro cattiveria. In ogni modo c’era un 
prezzo da pagare, di quella storia non ho saputo più niente ma ho sempre
 pensato con convinzione che quell’uomo è riuscito a salvare il 
fratello.
  Se la favola ha una morale, la morale di questa favola è la 
denuncia forte, critica, radicale contro ogni forma di coercizione e di 
annientamento che i servi del potere esercitano con brutalità spietata e
 disumana. Quando si parla di manicomio, si parla di psichiatria e in 
questo campo i servi in primis sono gli psichiatri che con le loro 
teorie parascientifiche sono al servizio dei potenti, perché, guarda 
caso, in manicomio finiscono sempre gli emarginati, i perseguitati, i 
ribelli. Il sistema difende e giustifica se stesso e gratifica chi senza
 un minimo di dignità sottostà alle sue imposizioni e con riverenza gli 
lecca le palle pur di sopravvivere, rinnegando il diritto alla intensità
 della vita.
fonte: 
www.nopazzia.it