domenica 21 luglio 2019

Una riflessione sull’uso degli psicofarmaci


 Articolo segnalato dal Collettivo Antipsichiatrico Artaud

“Pillola azzurra: fine della storia. Domani ti sveglierai in camera tua e crederai a quello che vorrai. Pillola rossa: resti nel paese delle meraviglie, e vedrai quanto è profonda la tana del Bianconiglio”
dal film Matrix (1999), discorso di Morfeo a Neo

Secondo una recente nota dell’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA), il consumo di psicofarmaci in Italia, dopo circa un decennio di crescita costante, non ha subito variazioni di rilievo tra il 2015 e il 2017. L’Osservatorio della Salute, tuttavia, analizzando proprio i dati dell’AIFA e inquadrandoli in un arco di tempo maggiore, dà un’interpretazione diversa e sostiene che il trend non sia stabile, ma in continua crescita. L’Osservatorio propone una serie di concause collegate alle politiche della salute e alle dinamiche sociali ed economiche. Per dare qualche dato, citiamo la ricerca statistica effettuata dal CNR dalla quale emerge che nel 2011 il 12,8% degli italiani ha fatto ricorso agli ansiolitici, il 10% ai sonniferi e circa il 6% agli antidepressivi.
Al di là della precisione statistica e delle spiegazioni “macro”, ci sembra di poter considerare palpabile la percezione collettiva che il consumo di psicofarmaci sia uscito dallo stigma e stia entrando a pieno titolo nell’immaginario collettivo come uno dei rimedi a cui si può ricorrere quando si è in difficoltà.
La ricerca e la pratica psichiatrica sembrano non essere compatte nell’approccio all’uso degli psicofarmaci: c’è chi si dedica a migliorarli, chi si impegna a divulgare atteggiamenti possibilisti, ma critici e ispirati alla massima prudenza, chi, come ad esempio il dott. Bregging, porta avanti studi e battaglie per un uso consapevole (Bregging si spinge oltre, credo, e considera gli psicofarmaci altamente dannosi – ), asserendo che gli svantaggi sopravanzano i benefici.
Come psicoterapeuti, impegnati tanto nella pratica clinica quanto in attività a stampo sociale, ci sembra importante osservare il fenomeno anche da un altro punto di vista, più intimo e più legato all’esperienza delle persone, e ci viene da domandarci se l’aumento del consumo di psicofarmaci non sia anche legato – oltre  che alla maggior disponibilità, all’economicità e alla facilità con cui rischiano di  essere prescritti, talvolta in modo inappropriato – anche all’idea che la cosa da fare di fronte alla sofferenza sia quella di eliminarla il più in fretta e il più facilmente possibile. Intendiamoci, nessuno sostiene che la sofferenza sia un bene e che non sia più che sacrosanto cercare di ridurla. Vogliamo solo mettere in luce il fatto che i sintomi psicologici sono appunto dei sintomi, la manifestazione più superficiale di un qualche malanno. Come ci ricorda la psichiatria (che talvolta però rischia di dimenticarlo), gli psicofarmaci possono rimuovere il sintomo – ansia, depressione o altro – ma non hanno alcuno tipo di effetto sulla causa che li ha prodotti. La velocità e la semplicità con cui riusciamo ad eliminare sensazioni e sentimenti sgraditi, fastidiosi o faticosi (intollerabili?) ci impedisce di riconoscere a noi stessi quali siano gli stati emotivo-cognitivi da cui emergono. Le emozioni e i conflitti più importanti, quelli che hanno a che fare con i significati più profondi e autentici della nostra vita, restano inconsapevoli e la mente non ha modo di modularli e di trasformarli in qualcosa di più “digeribile” e di più utile. Alzando il punto di osservazione e allargando lo sguardo all’intera collettività, potremmo contemplare anche il rischio che il malessere delle persone resti inchiodato al mito della “mente isolata”, alla convinzione, ormai sconfessata dalla ricerca, che la mente sia un’entità chiusa e definita in se stessa; viceversa, essa è per sua natura relazionale e ridurla ad un “fatto individuale” ne ostacola la cura quando i fattori che generano sofferenza originano nelle relazioni, private e pubbliche, nei rapporti affettivi e in quelli socio-economici.
C’è qui un’altra errata convinzione di fondo che pare percorrere la nostra società: emozioni e sensazioni disturbanti sono “inutili”, anzi sono una zavorra che intralcia il dispiegamento della nostra mente razionale e della nostra produttività. In altre parole, l’intelligenza, la parte pregiata e nobile dell’uomo, sta da una parte, mentre le emozioni e i sentimenti, irrazionali e spesso “stupidi”, stanno da un’altra; la mente razionale è eterea e lucida, le emozioni e le sensazioni hanno qualcosa di corporeo che ci rende più simili agli animali che ad esseri pensanti. E’ un’idea con radici antiche, filosofiche, che riempie la letteratura, il cinema, la musica e che ha fortemente influenzato anche la scienza e la medicina.
Le più moderne neuroscienze, tuttavia, mettono inequivocabilmente in discussione questa separatezza tra mente e corpo, tra razionalità e sentimento. E’ questa scissione che Damasio chiama “L’errore di Cartesio”, titolo del suo ormai celeberrimo libro sulla natura della razionalità. Il famoso neuroscienziato afferma, infatti, che per migliorare le capacità di ragionamento dell’uomo la strada da percorrere non è quella di liberarlo dalle emozioni, la cui piena può travolgere e annullare le capacità raziocinanti (ognuno di noi l’ha sperimentato almeno una volta nella vita!), ma è invece quella di “porre mente al corpo”. I sentimenti, nelle parole di Damasio, “ci danno la cognizione” del nostro stato interno e costituiscono una prima, immediata e intelligente valutazione di ciò che accade all’esterno, nelle relazioni e nelle varie situazioni di vita: “[…] i sentimenti risultano vincitori tra pari. Inoltre, dal momento che ciò che viene prima (i sentimenti, n.d.r.) costituisce un quadro di riferimento per ciò che viene dopo (pensieri e scelte, n.d.r.), i sentimenti hanno voce in capitolo sul modo in cui il resto del cervello e la cognizione svolgono i loro compiti. La loro influenza è immensa.”
Tornando agli psicofarmaci, elaboriamo meglio il dubbio iniziale: perché eliminare le informazioni portate da emozioni e sentimenti e impoverire drammaticamente le nostre capacità di comprensione di ciò che ci accade e che accade nei nostri contesti di vita e amputare così le nostre capacità razionali di scelta?
Dal suo punto di vista, strettamente “neuroscientifico”, Damasio ci sprona a porre mente alle emozioni disturbanti, ad affrontarle, “domarle” e a permettere loro di aiutarci a scegliere nel modo migliore per noi e per i nostri cari.
Per quanto riguarda noi, l’avete capito, pur nella consapevolezza di quanto possa essere faticoso e doloroso, alla domanda di Morfeo scegliamo la pillola rossa e scendiamo nella tana del Bianconiglio.

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