Rinvio
a giudizio. Se finalmente si è tornati ad uno stato di diritto lo si
deve alle tenacia e alla intelligenza di Lucia e della famiglia Uva
Sono passati oltre sei anni da quel 14 giugno 2008 in cui,
sorpreso a spostare delle transenne in mezzo a una strada, Giuseppe
Uva veniva condotto in una caserma dei carabinieri di Varese. Poche
ore dopo sarebbe morto nel reparto psichiatrico dell’ospedale
cittadino. Quanto successo in questi lunghi anni è l’esempio più
lampante di come la giustizia, in uno stato di diritto, non dovrebbe
funzionare: spregio per le insopprimibili garanzie di chi si
trovi privato della libertà, stigmatizzazione della vittima e del
suo stile di vita, sottovalutazione delle circostanze di fatto a
esclusivo vantaggio di un pregiudizio di intangibilità per
uomini e apparati dello Stato. Per sei anni, non uno solo dei
carabinieri e poliziotti che quella notte chiusero Uva in una
stanza, è stato indagato; e solo nell’autunno scorso, il testimone
oculare, Alberto Biggiogero, è stato ascoltato dalla Procura.
In questi anni e in ben sei tra sentenze e ordinanze, altrettanti giudici censurarono il comportamento processuale del pubblico ministero Agostino Abate: «È un diritto della famiglia e della collettività intera» sapere cosa successe all’interno di quella caserma. Perché Giuseppe Uva è stato trattenuto senza un verbale di fermo? Perché il suo corpo era pieno di ferite e di lesioni? Perché, se carabinieri e poliziotti sostengono che Uva si sia fatto male da solo, non è stata chiamata immediatamente l’ambulanza? Troppe domande cui per un tempo infinito è stata negata una risposta. Il fascicolo in mano al Pm Abate è stato trattato come una proprietà personale: insulti alla famiglia nel corso delle udienze, interrogatori ai testimoni con modalità a dir poco discutibili, assoluto pregiudizio d’innocenza nei confronti dei poliziotti e carabinieri coinvolti.
Ma quei comportamenti, sia pure tardivamente, sono stati oggetto di indagine da parte del ministero della Giustizia e della Procura generale presso la Cassazione e hanno portato a due procedimenti disciplinari presso il Csm per, tra l’altro, «condotta ingiustificatamente aggressiva e intimidatoria» e «violazione dei diritti umani». Dopodiché, anche il tribunale di Varese ha dovuto prendere provvedimenti e il fascicolo è stato finalmente riassegnato. I capi di accusa sono stati riformulati dal pm Felice Isnardi, ma poi quest’ultimo — nell’udienza del 9 giugno scorso — ha chiesto sorprendentemente il non luogo a procedere per tutti gli indagati.
Che all’interno del Tribunale di Varese succedano fatti singolari è ormai cosa nota, ma ciò che conta adesso è che finalmente un giudice – quello dell’udienza preliminare, Stefano Sala – abbia deciso. E la sua decisione di rinviare a giudizio il carabiniere (il secondo militare ha fatto richiesta di rito immediato) e i sei poliziotti era l’unica possibile, considerati gli elementi di fatto che ha potuto valutare. Il 20 ottobre in Corte d’Assise inizia il vero processo per la morte di Giuseppe Uva. E se si è arrivati a questo lo si deve in primo luogo alla volontà tenace e intelligente di Lucia e dei familiari di Giuseppe Uva, in una città che a lungo è rimasta, se non ostile, largamente sorda.
tratto da www.controlacrisi.org
In questi anni e in ben sei tra sentenze e ordinanze, altrettanti giudici censurarono il comportamento processuale del pubblico ministero Agostino Abate: «È un diritto della famiglia e della collettività intera» sapere cosa successe all’interno di quella caserma. Perché Giuseppe Uva è stato trattenuto senza un verbale di fermo? Perché il suo corpo era pieno di ferite e di lesioni? Perché, se carabinieri e poliziotti sostengono che Uva si sia fatto male da solo, non è stata chiamata immediatamente l’ambulanza? Troppe domande cui per un tempo infinito è stata negata una risposta. Il fascicolo in mano al Pm Abate è stato trattato come una proprietà personale: insulti alla famiglia nel corso delle udienze, interrogatori ai testimoni con modalità a dir poco discutibili, assoluto pregiudizio d’innocenza nei confronti dei poliziotti e carabinieri coinvolti.
Ma quei comportamenti, sia pure tardivamente, sono stati oggetto di indagine da parte del ministero della Giustizia e della Procura generale presso la Cassazione e hanno portato a due procedimenti disciplinari presso il Csm per, tra l’altro, «condotta ingiustificatamente aggressiva e intimidatoria» e «violazione dei diritti umani». Dopodiché, anche il tribunale di Varese ha dovuto prendere provvedimenti e il fascicolo è stato finalmente riassegnato. I capi di accusa sono stati riformulati dal pm Felice Isnardi, ma poi quest’ultimo — nell’udienza del 9 giugno scorso — ha chiesto sorprendentemente il non luogo a procedere per tutti gli indagati.
Che all’interno del Tribunale di Varese succedano fatti singolari è ormai cosa nota, ma ciò che conta adesso è che finalmente un giudice – quello dell’udienza preliminare, Stefano Sala – abbia deciso. E la sua decisione di rinviare a giudizio il carabiniere (il secondo militare ha fatto richiesta di rito immediato) e i sei poliziotti era l’unica possibile, considerati gli elementi di fatto che ha potuto valutare. Il 20 ottobre in Corte d’Assise inizia il vero processo per la morte di Giuseppe Uva. E se si è arrivati a questo lo si deve in primo luogo alla volontà tenace e intelligente di Lucia e dei familiari di Giuseppe Uva, in una città che a lungo è rimasta, se non ostile, largamente sorda.
tratto da www.controlacrisi.org
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