Riporto l'articolo integrale apparso sul sito corriere.it e alcune considerazioni personali.
Lavori sempre più difficili,
off limits per chi soffre di schizofrenia
Meno richiesti lavori di tipo fisico. Prevalgono lavori che
richiedono concentrazione e flessibilità , faticose per chi soffre di
disturbi psichici
Se
l’accesso al mondo del lavoro è difficile, di sicuro lo è ancora di più
per chi ha dei problemi di tipo psicologico o psichiatrico, che spesso
ha poi anche difficoltà a tenersi il lavoro una volta che lo ha trovato.
«In conseguenza del rapido sviluppo economico la percentuale dei lavori
relativamente semplici è diminuita» dice il professor Aart Schene del
Dipartimento di psichiatria dell’Università di Amsterdam. «Così che, ad
esempio, nel 1955 circa il 40 per cento delle persone affette da
schizofrenia era in grado di partecipare al mercato del lavoro, in
confronto al solo otto per cento del 2001». Il professor Schene ha
dedicato al difficile tema del lavoro per le persone con problemi
psichici il suo intervento alla Conferenza internazionale “Improving the
global architecture of mental health care” recentemente tenutasi a
Verona, in occasione del pensionamento del professor Michele Tansella,
psichiatra e preside della Facoltà di Medicina.
LAVORO IMPORTANTE - Chi ha
problemi di tipo psicologico aspira a essere un cittadino come tutti gli
altri, e per questo il lavoro rappresenta certamente un obiettivo
fondamentale. «Il lavoro ci aiuta a definire quello che siamo» dice
ancora il professor Schene, «sia in relazione alle altre persone sia per
quanto riguarda quelli che sono il fine e la direzione della nostra
vita. Ci dà l’opportunità di sviluppare e tenere allenate nuove abilità e
di raggiungere degli obiettivi. Ci dà inoltre una precisa posizione
nella società. Definisce chi siamo, quanto siamo capaci, e anche quando
siamo indipendenti e solidi da un punto di vista economico. Al
contrario, non avere un lavoro o perderlo, o anche solo sentirsi
minacciati di poterlo perdere, può avere un grande impatto sull’identità
lavorativa e di conseguenza sulla salute mentale».
AUTOSTIMA RIDOTTA - Il lavoro
rappresenta un’attività sociale, che mette le persone a contatto le une
con le altre, le fa incontrare, crea relazioni e nuove possibilità di
conoscenza. Chi entra in un nuovo ambiente di lavoro deve non solo
imparare le abilità tecniche che gli sono richieste, ma anche riuscire a
entrare in contatto con le persone con le quali passerà da quel momento
in avanti molte ore della sua vita. Delle 168 ore che compongono una
settimana, circa un terzo sono impiegate per il riposo notturno e delle
restanti 120 ore circa un terzo è passato a contatto con i colleghi. Per
alcune persone l’orario di lavoro sfocia anche in quelle che dovrebbero
essere i momenti di riposo, diventando l’attività più importante della
loro vita.«E’ anche per questo che la perdita del lavoro è correlata a
sentimenti di colpevolezza e ridotta autostima, a un ruolo sociale
disturbato e a uno status sociale diminuito» dice il professor Schene
nel capitolo dedicato a questo argomento, intitolato
Improving Mental health Care: The Global Challenge
(Wiley, 2013) pubblicato in occasione della conferenza e dedicato al
professor Tansella. In pochi decenni i lavori disponibili sono stati
trasformati dai mutamenti sociali. Oggi prevalgono le attività di
servizio, mentre c’è un declino di agricoltura e industria.
LAVORI DI ATTENZIONE - Ma
in questi nuovi settori sono sempre meno richiesti lavori di tipo
fisico, e prevalgono lavori che richiedono attenzione, concentrazione,
flessibilità e proattività, tutte abilità che possono risultare faticose
per chi ha un problema psichico. Una difficoltà ulteriore deriva dal
fatto che è sempre più raro un lavoro davvero indipendente. La
maggioranza degli impieghi oggi prevede condizioni di dipendenza,
necessità di interrelazione, e anche questo aspetto contribuisce a
rendere le cose difficili per che ha un disturbo di tipo psicotico, ma
anche per chi è semplicemente depresso. «I lavoratori che soffrono di
depressione hanno un aumentato rischio di assentarsi dal lavoro per
malattia» spiega Schene. «E chiedono più sussidi di disabilità rispetto
ai loro colleghi. L’impatto della depressione è anche più elevato di
condizioni mediche debilitanti come l’artrite reumatoide e la malattia
coronarica». Ne conseguono costi per l’intera società. Nel 2000, negli
Stati Uniti i due terzi dei costi sociali totali della depressione erano
correlabili al lavoro perduto. Oltre 51 miliardi di dollari su un costo
totale di circa 83 miliardi. E ci sono ulteriori costi nascosti, dovuti
alla perdita di produttività che si manifesta anche quando si è
presenti sul posto di lavoro. «Questi costi sono valutabili da tre a
cinque volte più alti dei costi combinati per assenteismo e per i
trattamenti medici» conclude Schene.
15 ottobre 2013Danilo Di Diodoro
Non discuto sull'importanza del lavoro per quella che può essere definita autoefficacia, più che autostima, di chi fa parte di questa società. L'articolo però pone nuovamente il problema della schizofrenia da un punto di vista economico: si passa velocemente dalle premesse sull'importanza del sentirsi attivi in questa società, al "costo annuo" di depressi e schizofrenici.
Subdolamente si vuole portare altra acqua al mulino delle case farmaceutiche.
E' vero, nessuno nomina i farmaci all'interno dell'articolo. Ma è altrettanto vero che non ci si chiede neppure come la società possa prendersi carico di chi non riesce più a lavorare, interrogandosi invece (indirettamente) su come poter risparmiare queste perdite in denaro. Le grandi cifre, i miliardi di dollari, vengono sempre utilizzate per far colpo sul lettore-contribuente, che ci tiene a risparmiare i suoi soldini.
E qui arriviamo alla questione farmaci. Indipendentemente da schizofrenia, depressione o qualsiasi altra diagnosi di disagio o malattia psichica, le terapie di tipo psicologico sono sempre lunghe e costose perchè si fanno carico della persona. Entrare in relazione con qualcuno e accompagnarlo in un cammino di questo tipo consuma enormi risorse di tempo e denaro. Dall'altra parte abbiamo il farmaco: veloce, non instaura nessuna relazione e non pretende di cambiare il tuo modo di vedere le cose. Semplicemente toglie i sintomi (dandotene altri) e ti fa tornare subito al lavoro. Con buona pace dell'intera società che non ti deve più mantenere.
Veronika