mercoledì 9 dicembre 2015

di Marco Rossi: LA GRANDE GUERRA ELETTRICA


sotto un interessante contributo di Marco Rossi sulla psichiatria di guerra e sull'uso della corrente elettrica durante la prima guerra mondiale sulle persone considerate "simulatori" e "nevrotiche".


collettivo antipsichiatrico Antonin Artaud -⁠ Pisa



LA GRANDE GUERRA ELETTRICA (1914-1918)
                                                                                                            
Morire quando si è ancora giovani e si anno ancora delle speranze è follia,
ed io non sono folle affatto.
(Lettera del disertore Ernesto Premoli, dal campo di prigionia di Theresienstadt, 24 ottobre 1915)
L’elettroshock, ossia quel «trattamento psichiatrico con il quale viene applicata alla testa del paziente una corrente elettrica che, passando attraverso il cervello, produce una convulsione generalizzata»[1], è stato notoriamente ideato, sperimentato e introdotto ad opera di Ugo Cerletti e Lucio Bini nel 1938, tanto da essere celebrato dalla propaganda del regime fascista come invenzione «italianissima». Per cui, è improprio e anacronistico definire come elettroshock l’accertato utilizzo “terapeutico” di correnti elettriche su parti diverse del corpo, così come avvenuto durante la Prima guerra mondiale nei confronti di un certo numero di soldati appartenenti agli eserciti austriaco, tedesco, britannico, francese e italiano, per il trattamento delle nevrosi di guerra, oltre che per smascherare presunti «simulatori», ossia di soldati che cercavano scampo alla morte in trincea «facendo i matti»; ma comunque questo aspetto - anche se poco conosciuto - appartiene alla realtà del primo conflitto e anticipò quanto sarebbe avvenuto, sistematicamente, durante la Seconda guerra mondiale quando «l’elettroshock inventato da Ugo Cerletti diventò così la terapia usata per scovare le epilessie sospette ovvero la patologia, a detta di molti alienisti, prescelta dai simulatori»[2].
Anche questa «guerra nella guerra» tra «simulatori» e alienisti (simile a quella che abbiamo visto ingaggiarsi con gli autolesionisti), costituisce un capitolo di straordinaria importanza nella storia del conflitto. I compiti disciplinari si intrecciano con quelli terapeutici e li sopravanzano. Per i medici infatti non si tratta solo di «scoprire che un tale è un simulatore: il medico ha un compito più nobile, deve restituire all’esercito un soldato, alla Patria un cittadino»[3]. E, tal fine, il ricorso all’impiego di correnti faradiche o «correnti sinusoidali di gran forza» - secondo le teorie di F. Kaufmann - applicate a varie parti del corpo (arti, collo, gola, genitali) diventa pratica largamente diffusa.
D’altronde, nel ricorso a quella che si configura come vera e propria tortura psico-fisica, il confine tra indagine medico-legale e terapia appare davvero esile, dato che per curare disturbi di ordine «sensitivo-sensoriale e sensorio-motorio», il metodo suggerito da un autore francese consiste «nell’applicare a scopo suggestivo forti e brusche scariche di corrente faradica. Quando si vuole ottenere la guarigione di tali disturbi (afonie, tremori, paralisi, piegatura vertebrale, piede equino ecc.) bisogna agire precocemente e fortemente»[4].
Onde evitare residui scrupoli morali o incertezze deontologiche in relazione alla «dolorabilità del processo», il prof. Arturo Morselli, capitano medico della III Armata sul fronte isontino, precisava che bastava «un comune apparecchio portatile a pile, che non sveglia poi sensazioni troppo vive e che è sufficiente per suggestionare i soggetti; anzi, per conseguire meglio l’effetto, è utile esagerare prima agli esaminandi la sofferenza che andranno a sopportare. In molti simulatori questa prospettiva vale a farli cedere di buon’ora». A tale scopo Morselli si era fatto spedire dalla Clinica di Genova «un apposito strumentario elettro-terapico (faradizzazione a doppio rullo)» che sperimentò su soldati colpiti da qualunque tipo di problema neuropsichiatrico[5].
Dolore e terrore quindi - come sottolinea A. Gibelli - sono dunque parte delle pratiche mediche di investigazione e recupero, tanto che sempre Morselli confermava come «La pratica del Gilles è stata usata da me fin dai primi mesi della nostra guerra e mi ha dato sempre eccellenti risultati terapeutici e medico legali». In realtà, le rare testimonianze dei pazienti sono di altro segno, come quella del soldato Giovanni P. che scrive «C’era il professore, un capitano con la barba di cui non so il nome, e poi c’era il Signor Maggiore che mi ha straziato con la tortura elettrica ora».
Analogamente, in Germania, il metodo Kaufmann che combinava scariche elettriche, sempre più intense, con comandi urlati per l’esecuzione di determinati esercizi, se vantò alcune “guarigioni” evidenziò i suoi limiti per il carattere temporaneo di queste, l’elevato numero di suicidi dei pazienti sottoposti a tale cura e la morte di almeno di due di questi in sede di terapia.        
Nel Regno Unito, il più fervido propugnatore ed esecutore di elettro-terapie disciplinari fu Lewis Yealland che, tra l’altro, descrisse dettagliatamente l’atroce trattamento a cui sottopose un soldato che, dopo essere scampato alle numerose battaglie a cui aveva preso parte, era stato affetto da mutismo.
Il poveretto, quando venne consegnato a Yealland, era già stato sottoposto a inutili “sedute” di venti minuti di forti applicazioni elettriche al collo e alla gola, combinate a ustioni sulla lingua tramite sigarette e pinze roventi; da parte sua, il medico-aguzzino britannico vi aggiunse la segregazione al buio nella «camera elettrica» e un supplemento di inumano autoritarismo, accompagnato a scariche ad alto voltaggio applicate al collo, che lo avrebbero fatto tornare «sobrio e razionale»[6].
Non meno attiva fu la «scuola viennese» di psichiatria militare - duramente accusata dallo psicanalista Alfred Adler - che, per spiegare le sofferenze psichiche e le nevrosi belliche, sosteneva la predisposizione patologica o degenerativa dei militari vittime di stress o shock. In particolare, nell’esercito austro-ungarico ad essere sottoposti a terapie elettriche furono soprattutto i soldati semplici e, soprattutto, quelli di nazionalità-lingua non tedesca, dal momento che molti psichiatri militari, a fronte della molteplicità linguistica dei soldati ammalati, privilegiarono una terapia che non richiedeva scambio verbale. L’obiettivo primario rimaneva comunque, oltre che smascherare i «simulatori», recuperare e rinviare al fronte i soggetti colpiti da nevrosi di guerra[7].
Dell’impiego sistematico di tale metodo nell’esercito austriaco se ne ha persino un’impietosa descrizione letteraria, presente nei Diari di R. Musil: «Faradizzazione. Sospetto di simulazione, il giovanotto viene faradizzato ogni giorno. Uh uh uh uh ahioiah iah – si dimena. Un inserviente  quattro infermiere gli stanno intorno ridendo, gli tengono le braccia e le gambe e gli premono addosso i contatti - Egli fa smorfie come se ridesse».
Riguardo l’utilizzo nell’esercito italiano, «a scopo suggestivo», delle correnti faradiche si ha riscontro in una relazione del tenente medico Domenico Isola, nel 1917, dove si apprende che «Nei casi di simulazione, non è difficile, generalmente, scoprire la malafede […] la sistematica ripetizione delle manovre elettro-terapiche riesce in genere a far presto capitolare il simulatore, il quale difficilmente resiste a lungo nella sua commedia. Il graduale aumento della corrente sino a stimoli irresistibili (pennello faradico) ci offre il mezzo per domare anche i più ostinati, i quali in preda a quel dolore, del resto innocuo e ben graduabile a volontà del medico, non riescono a frenare un grido, ad una qualche esclamazione, che basta a svelare l’inganno»[8]. Anche in Italia, nel ricercare i motivi scatenanti del trauma di combattimento, la psichiatria scartò quasi a priori il ricorso a diagnosi che facessero riferimento al carattere peculiare della guerra, optando per la struttura psichica e costituzionale del soggetto determinata da «tare ereditarie», pur se le stesse cifre ufficiali dei «traumatizzati psichici» smentiscono tale tesi: i soldati italiani ricoverati in cliniche (se ufficiali) e manicomi (per la truppa) furono circa 40.000 e di questi, alla fine del conflitto, almeno 5.000 furono quelli ritenuti definitivamente «alienati mentali». Soltanto sul finire della guerra, si dovette ammettere almeno un carattere «degerogeno» connesso all’esperienza bellica e, come ebbe a scrivere l’illustre alienista Ferdinando Cazzamalli, che questa era una «fucina di traumatizzati»[9].
            Inoltre, nel caso italiano, è stato osservato come, oltre a caratterizzare la sperimentazione di nuove tecniche terapeutiche quali quelle elettriche, sistema favorito per scoprire la simulazione del mutismo, tramite «l’applicazione di correnti faradiche allo scroto» (metodo ideato dall’italiano C. Negro), tale «condizione di violenza» connotò anche la struttura dei «villaggetti psichiatrici» realizzati a ridosso del fronte[10].
Diserzione e follia erano ugualmente considerate negazione del militarismo e chi sfuggiva alle mitragliatrici non doveva scampare agli psichiatri in uniforme.
Marco Rossi
Livorno, dicembre 2015
    


[1] Tale definizione tecnica è quella formulata dallo psichiatra statunitense Peter Breggin nel 1979, ripresa in Collettivo Antipsichiatrico Antonin Artaud,  Elettroshock. La storia delle terapie elettroconvulsive e i racconti di chi le ha vissute, Roma, Sensibili alle Foglie, 2014, p. 29.
[2] Massimo Tornabene, Psichiatria e manicomi fra fascismo e guerra, in Andrea Giuntini (a cura di), Povere menti. La cura della malattia mentale nella provincia di Modena tra Ottocento e Novecento, Modena, Provincia di Modena, 2009, p. 51.
[3] Espressione usata a commento di uno studio di autori francesi nella recensione redazionale comparsa su «Quaderni di psichiatria», 1918, p. 282. riportata nel fondamentale saggio di Antonio Gibelli, L’officina della guerra. La Grande Guerra e le trasformazioni del mondo mentale, Torino, Bollati Boringhieri, 1998, p. 155.
[4] Da una recensione di Arturo Morselli, in «Quaderni di psichiatria», 1917, p. 270; in tale scritto si fa riferimento a tali terapie e studi compiuti in Francia, finalizzati alla «rieducazione della volontà» (l’espressione è di Celine), ma anche in Austria e Germania, nello stesso periodo, venivano utilizzati identici metodi terapeutici e sulle più importanti riviste psichiatriche erano teorizzati i medesimi trattamenti, sommando l’effetto doloroso delle correnti faradiche a quello terroristico enfatizzato dal personale medico.
[5] Cfr. Ilaria La Fata, Follie di guerra. Medici e soldati in un manicomio lontano dal fronte (1915-1918), Milano, Unicopli, 2014.
[6] La descrizione dei metodi Kaufmann e Yealland si trova in Eric J. Leed, Terra di nessuno. Esperienza bellica e identità personale nella prima guerra mondiale, Bologna, Il Mulino, 1985, pp. 229-232.
[7] Cfr. Christa Hàmmerle, «Eroi sacrificali»? Soldati austro-ungarici sul fronte sud, in Nicola Labanca, Oswald Überegger (a cura di), La guerra italo-austriaca (1915-18), Bologna, Il Mulino, 2014, pp. 156, 157.
[8] Tratto dall’articolo, dello stesso Isola, Sul trattamento razionale del mutismo e sordo-mutismo isterico, in «Quaderni di psichiatria», 1917, pp. 214, 215. Parte del testo è presente nel già citato saggio di Antonio Gibelli ed è stato ripreso nel documentario 1914-1918 La Grande Guerra. Non c’è solo la vittoria, Milano, RAI – Corriere della Sera, n. 13, 2014.
[9] Cfr. Paolo Giovannini, Guerra e psichiatria dal primo al secondo conflitto mondiale, «Storia e problemi contemporanei», n.  43, settembre 2006.
[10] Cfr. Paolo Sorcinelli, Viaggio nella storia sociale, Milano, Bruno Mondadori, 2014.

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